Di Carla (del 06/03/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2711 volte)
Ben strutturato, ma non memorabile. Traduzione scadente
Nel recensire questo libro mi trovo a dover fare una distinzione tra la mia opinione sul libro in sé e quella sull’edizione che ho letto, vale a dire quella italiana cartacea della Newton Compton. Dico subito che nel voto non ho considerato l’edizione, poiché avrebbe rischiato di dimezzarlo.
“Artemis” è un technothriller con una componente scientifica ben curata, come d’altronde mi attendevo da Weir. Se volessi fare un paragone con i libri di altri autori, il primo nome che mi viene in mente è Crichton (scusami, maestro!), per il fatto che tutta la storia è asservita all’intenzione di parlare al lettore di scienza. La somiglianza però finisce qui.
I libri di Crichton, infatti, tendevano a girare intorno a un grande tema scientifico, magari con risvolti morali, senza preoccuparsi di descrivere per forza delle tecnologie reali o plausibili (a volte bastava soltanto che lo sembrassero), ma soprattutto avevano un tono drammatico e spesso di denuncia. I libri di Weir, invece, fanno ridere, letteralmente. I suoi protagonisti non si prendono troppo sul serio e hanno sempre la battuta pronta, talvolta rivolta al lettore, anche in situazioni di vita o di morte (di altri o propria). È evidente che l’autore si diverte a metterli nei guai per poi trovare un modo da nerd per tirarceli fuori. Unendo questi due aspetti, abbiamo a che fare con dei novelli MacGyver che utilizzano le proprie conoscenze e i pochi mezzi a disposizione per risolvere situazioni disperate. In questo senso “Artemis” assomiglia molto a “The Martian”.
Ci sono, però, delle grosse differenze. “Artemis” per certi versi è scritto meglio, nel senso che ha una struttura meglio studiata e caratterizzata da un ritmo della narrazione ben cadenzato che funziona alla perfezione. “The Martian”, invece, essendo nato da episodi pubblicati sul blog dell’autore, presenta gli effetti di questa serialità indisciplinata che a volte stranisce il lettore. Però proprio questo suo non essere strutturato nel modo “giusto” lo rende imprevedibile e di conseguenza più godibile.
In “Artemis”, al contrario, per quanto ci troviamo di fronte a colpi di scena imprevedibili, questi lo sono solo nella sostanza (cioè non sappiamo cosa succederà), ma non nella tempistica, poiché sono talmente inseriti nel punto giusto della storia che in qualche modo li vediamo arrivare (cioè sappiamo che stanno per accadere).
A ciò si aggiunge qualche cliché a destra e a manca e un’antieroina che alla fine si trasforma in eroina travolgendo il lettore con una scontata ondata di buonismo, la cui conseguenza è una certa dose di delusione.
Al di là di tutto questo a rendere sostanzialmente “Artemis” più debole di “The Martian” è lo spessore della trama. Nel confronto tra la storia di una giovane criminale che finisce nel mirino di criminali peggiori di lei nella prima città sulla Luna e quella di un astronauta lasciato per errore su Marte (un pianeta deserto e letale), la prima ne esce con le ossa rotte.
Nonostante ciò, “Artemis” è una lettura gradevole e divertente, con una protagonista simpatica e con tanti spunti scientifici stuzzicanti. È fatto in modo tale da piacere a più persone possibili, ma di conseguenza non per essere amato alla follia.
Discorso a parte è quello dell’edizione italiana. A parte frasi qua e là poco convincenti e qualche concetto ripetuto nella stessa frase, probabile frutto di un errore durante l’editing della traduzione (che evidentemente non è poi stata riletta da nessuno), la cosa che mi ha dato in assoluto più sui nervi è ritrovarmi per almeno una decina di volte al posto della parola corretta “silicio” (in inglese “silicon”) il falso amico “silicone” (in inglese, “silicone” con la “e”). È un errore clamoroso e imbarazzante per un libro di fantascienza pubblicato nel 2017 da un grosso editore, che mette in evidenza come lo stesso editore (la Newton Compton) abbia come minimo dato il lavoro alla persona sbagliata (non ce l’ho con la traduttrice in sé, che sicuramente è stata costretta a fare un lavoro veloce e mal pagato in un ambito che non era il suo) e non l’abbia evidentemente affiancata con un editor che avesse una minima conoscenza scientifica. Ma bastava anche solo un pizzico di buon senso.
Io posso anche capire quando un traduttore cade in un falso amico (legge una “e” che non c’è), se si tratta di un caso isolato e in cui manca il contesto necessario per comprendere esattamente il significato. Il problema qui è che gran parte della storia di questo libro ruota intorno all’industria del vetro, inoltre il termine viene utilizzato almeno una decina di volte e in ognuna di esse non manca affatto il contesto. Si dice, per esempio, che ce n’è in grande quantità sulla Luna. Vi pare normale che sulla Luna, cioè un’enorme roccia nello spazio, si trovi normalmente una grande quantità di un polimero sintetico? Che ci fa lì? Ce l’hanno messo gli alieni? In un punto, poi, lo si definisce un elemento (vi sfido a trovarlo nella tavola periodica). Infine si dice che sia la base della produzione del vetro.
Ora, magari non tutti sanno che il silicio è l’elemento chimico numero 14 della tavola periodica e magari non sanno o non si ricordano che è da esso che si produce il vetro, ma è possibile che nessuna delle persone che hanno lavorato alla traduzione abbia mai sentito parlare del silicone? Non lo credo possibile. È più probabile che questo errore sia dovuto a trascuratezza. Erano convinti che “silicon” volesse dire “silicone” e, nonostante qualcosa evidentemente non tornasse (il buon senso deve aver tentato di far sentire la propria voce), sono andati dritti per la loro strada, perché, a quanto pare, controllare un termine sul dizionario era troppo faticoso, perché in fondo era “solo” un prodotto editoriale di massa (grave errore, visto che parliamo di fantascienza), perché avevano troppo lavoro da fare e forse perché a loro non importava più di tanto che tutto fosse corretto.
Ho saputo che l’errore è poi stato corretto nell’edizione digitale, ma ciò non riduce minimamente la sua gravità, considerando che tra l’altro quella cartacea costa molto di più. E lì ci rimarrà finché non finiranno tutte le copie già stampate (speriamo che provvedano a eliminarlo nelle ristampe).
Alla luce di ciò mi chiedo quante altre frasi siano state interpretate in maniera errata durante la traduzione e successiva correzione. In altre parole: che libro ho letto?
Infine mi chiedo: questo libro nell’edizione originale ha davvero un linguaggio tanto più pulito rispetto a “The Martian” (che ho letto in versione originale e che è tempestato da innumerevoli varianti e usi diversi della parola “fuck” a partire proprio dalla frase di apertura)?
Di Carla (del 30/12/2017 @ 09:30:00, in Propositi, linkato 2459 volte)
Come di consuetudine, alla fine di dicembre mi ritrovo a tirare le somme dell’anno appena trascorso e a pormi degli obiettivi per quello futuro.
Negli anni passati è stato relativamente semplice scrivere questo articolo, poiché molti dei progetti che avrei intrapreso dipendevano da fattori sotto il mio completo controllo. Già dall’anno scorso, però, ho dovuto limitare in parte i miei propositi, in quanto non sapevo se alcune cose che erano in ballo sarebbero andate in porto e quindi non ero in grado di programmare niente di specifico dopo il mese di maggio. Adesso per il 2018 sarà ancora più complicato per via del trascinarsi di alcune faccende in sospeso, una delle quali si è conclusa proprio all’inizio di dicembre, e quindi in questi prossimi mesi forse riuscirò a capire un po’ meglio in che direzione incanalare i miei sforzi. Vi sono però dei punti fermi: alcuni propositi su cui ho le idee chiare.
- ho completato la stesura di “Oltre il limite” (il libro finale della trilogia del detective Eric Shaw), ho fatto l’editing del libro e l’ho pubblicato il 21 maggio;
- mi sono fermata per circa un mese dopo il completamento della prima stesura di questo libro, ma non posso proprio dire di aver ricaricato del tutto le batterie, perché sono stata abbastanza presa da questioni familiari e persino di salute (mi è venuta l’allergia agli acari);
- ho cercato di impegnarmi per promuovere la trilogia del detective Eric Shaw tramite eventi offline, iniziando con una presentazione in piena regola a Carbonia a pochi giorni dall’uscita dell’ultimo libro. È stato un evento molto divertente e con un’ottima affluenza di pubblico. Purtroppo non ne sono seguiti degli altri, anche se ho ricevuto diverse proposte, poiché per motivi organizzativi e/o per mancanza di tempo da parte mia non si è riusciti ancora a concretizzarle. Ma confido che si riuscirà in futuro;
- ho dedicato un po’ di tempo a FantascientifiCast, anche se solo nella prima parte dell’anno. Nella seconda non è stato possibile semplicemente perché non ho seguito nessuna nuova serie di fantascienza in TV e ho visto davvero pochi film di questo genere al cinema. Anche nell’ambito della lettura ho avuto a che fare perlopiù con libri di fantascienza vecchi di decenni. Per fortuna nel 2018 uscirà la seconda serie di “Westworld” e del docudrama “Marte”, quindi potreste tornare ad ascoltarmi (Omar Serafini permettendo!);
- ho letto circa 52 libri (dico circa, perché sto scrivendo questo articolo con un certo anticipo, ma confido di raggiungere quella quota entro il 31 dicembre);
- fino a settembre sono riuscita a programmare in anticipo i post per questo blog (e anche per quello in inglese), poi ho effettivamente lasciato perdere (tranne che per questo post), perché al momento non è una delle mie priorità. Ho una serie di articoli in corso (quella su Marte) e diverse recensioni di libri che ho letto da scrivere, ma oltre a questo ho intenzione di scrivere sul blog solo quando sento di avere qualcosa di interessante da dire, senza sforzarmi a farlo per dovere;
- credo di essere riuscita a organizzare un po’ meglio il mio tempo lavorativo. La scorsa estate me la sono goduta abbastanza, grazie anche al clima particolarmente stabile che l’ha caratterizzata. Ho anche fatto un bel viaggio (una crociera in Danimarca e Norvegia). Nei mesi autunnali sono riuscita a dedicarmi ad alcune cose che mi interessavano (ve ne parlo più avanti) e a riprendere un certo ritmo di lavoro, dopo una lunga pausa dalla scrittura di cui avevo veramente bisogno;
- infine ho fatto un bilancio dei miei primi cinque anni da self-publisher. Si tratta ovviamente di un bilancio positivo, ma allo stesso tempo è accompagnato dalla consapevolezza che in questo lasso di tempo tante cose sono cambiate nel mercato editoriale e ciò richiede lo sviluppo di nuovi approcci.
Cosa non sono riuscita a fare?
Purtroppo nel 2017 non è stato possibile ripetere l’esperienza del corso a Varese, ma sapevo già che c’era il rischio di saltare almeno un anno. Speriamo di riuscirci nel 2018.
Inoltre non ho scritto tanto, ma questa è stata una mia scelta. Ho ripreso a scrivere, molto lentamente, a novembre, con la consapevolezza che da gennaio dovrò aumentare il ritmo.
Cos’altro ho fatto o mi è successo nel 2017?
Tanto per iniziare ho trovato una agente per gestire i diritti di traduzione di alcuni dei miei libri, in particolare della trilogia del detective Eric Shaw. Sono arrivata a questa persona dopo quasi un anno e mezzo di ricerche, in cui ho avuto modo di discutere con altri agenti di una possibile collaborazione senza riuscire a trovare il giusto accordo. Mettermi a lavorare con lei mi ha portato via del tempo, necessario per preparare il materiale di cui aveva bisogno. Tra l’altro questa persona non parla italiano e non ha quindi modo di leggere alcuni dei libri che sta rappresentando, almeno finché non saranno tradotti in inglese. Ciò mi ha costretto a scrivere per lei delle sinossi molto particolareggiate. E considerate che io odio scrivere riassunti in italiano, figuratevi in inglese!
Siamo ancora all’inizio del nostro rapporto e non mi faccio grandi illusioni a proposito, ma esso comunque rappresenta un primo passo verso il mio cercare nuove vie per raggiungere più lettori in mercati linguistici in cui non potrei mai arrivare in altro modo.
Il secondo evento importante, che è anche il più recente (avvenuto in maniera definitiva solo all’inizio di dicembre), è stato la restituzione dei diritti di traduzione in inglese de “Il mentore” (primo libro della trilogia del detective Shaw) da parte di Amazon Publishing. Ve ne ho parlato qualche tempo fa.
Ciò mi ha posto improvvisamente di fronte a nuove scelte e potenziali opportunità.
Nei mesi scorsi, nell’attesa che ciò avvenisse, ho deciso di riprendere a studiare in maniera specifica alcuni aspetti della lingua inglese. Ho iniziato a studiare questa lingua da bambina e la uso per lavoro e nella vita privata in maniera costante da una ventina d’anni (da quando ho accesso a internet). Inoltre ho già tradotto altri miei libri in inglese (la serie di “Deserto rosso” e “Affinità d’intenti”). Ma adesso con la restituzione dei diritti de “Il mentore” e con la collaborazione con una agente britannica ho necessità di fare un ulteriore salto di qualità.
E poi, diciamo la verità, tutto ciò mi diverte parecchio, poiché implica esercitarmi con un lingua straniera (cosa che amo, tanto che se potessi non farei altro tutto il giorno!), oltre che leggere libri, guardare film e serie TV con la scusa che mi serve per migliorare le mie capacità di scrittura e quelle di ascolto.
Così, dopo qualche mese di solo studio (chiamiamolo così), sono tornata a tradurre in inglese: ho iniziato una nuova traduzione de “Il mentore”.
Nel 2017 inoltre ho seguito ben nove MOOCs, vale a dire corsi online aperti su larga scala (Mass Open Online Courses), grazie ai quali ho imparato diverse cose che mi saranno più o meno direttamente utili per il mio lavoro. Alcuni sono stati una forma di ricerca per progetti letterari futuri, altri sono serviti per migliorare il mio inglese, altri per ampliare le mie conoscenze nell’ambito della narrativa e della scrittura in generale, infine altri per aggiungerne di nuove alla mia preparazione scientifica. Tra questi senza dubbio il più interessante (e lungo: otto settimane) è stato “Moons”, un corso sulle lune del Sistema Solare organizzato su FutureLearn da The Open University.
Non paga di tutto ciò, mi sono iscritta già ad altri cinque corsi per il 2018 e tendo a pensare che se ne aggiungeranno degli altri.
Anche se quest’anno non ho scritto molto, non significa che non abbia creato nuove storie. Ho infatti scritto appunti, abbozzi di outline e talvolta outline complete per nove futuri progetti letterari. Tra questi c’è anche un breve prequel (una novella) della trilogia del detective Shaw, di cui ho già una outline completa, anche se non so ancora se/quando scriverò il libro. È solo una questione di decidersi a scriverlo.
Oltre a questi nove progetti, c’è poi quello di “Sirius. In caduta libera”, di cui però vi parlerò nei propositi per il nuovo anno.
Tra le nuove esperienze del 2017 c’è poi Wattpad. In realtà ho un account sul sito già da un paio di anni e in passato ci tenevo soltanto un’anteprima di due libri in inglese. Da ottobre scorso ho iniziato a interessarmi al pubblico italiano e, per curiosità, ho iniziato a pubblicare a puntate la mia vecchia fan fiction “La morte è soltanto il principio” (la pubblicazione è stata completata poco prima di Natale). È stato un modo anche per revisionarla per l’ennesima volta e vedere se potevo sfruttarla per trovare qualche altro lettore.
Non credo che userei mai Wattpad per scrivere un progetto in corso a puntate, ma potrebbe essere uno strumento interessante per fare qualche esperimento promozionale.
Infine, ma non meno importante, ho iniziato a scrivere “Self-publishing lab: Il mestiere dell’autoeditore”, un libro basato sul corso di self-publishing che ho tenuto all’Università degli Studi dell’Insubria nel 2016.
Insomma, alla fine non si può dire che nel 2017 mi sia girata i pollici, vero?
E adesso eccovi i miei propositi per il 2018:
1) scrivere e pubblicare “Sirius. In caduta libera”, la quarta parte del ciclo dell’Aurora. Inizierò a scriverlo subito dopo il periodo natalizio e ho intenzione di pubblicarlo, come previsto, il 30 novembre. A proposito di questo libro vi parlerò più diffusamente più avanti, quando sarò a buon punto con la stesura. Per adesso vi dico solo che è ambientato circa cinque anni prima de “L’isola di Gaia”, che ha come voce narrante principale il personaggio di Hassan Qabbani e che la storia si svolge per gran parte nell’orbita terrestre;
2) finire di tradurre in inglese “Il mentore” entro i primi mesi dell’anno (incluso il processo di editing e proofreading). Questo progetto è prioritario, poiché vorrei al più presto averlo a disposizione della sua versione definitiva per valutare le varie opportunità di ripubblicazione e concomitante promozione della trilogia sul mercato inglese. A tal proposito, vorrei anche riuscire a portarmi avanti con la traduzione dei due successivi (magari completare quella del secondo), ma su di essi non mi pongo al momento delle scadenze;
3) completare la prima stesura di “Self-publishing lab: Il mestiere dell’autoeditore”. Il massimo sarebbe riuscire ad arrivare, se non alla pubblicazione, almeno alla sua stesura definitiva, ma anche qui non metto delle scadenze. Si tratta del primo libro di non-fiction che scrivo e richiede da parte mia un’attenzione diversa nei riguardi sia del contenuto che, soprattutto, della confezionamento. Quando l’avrò completato, programmerò i dettagli della sua pubblicazione e promozione;
4) leggere libri più lunghi. Negli anni passati ho stabilito che avrei letto in media un libro alla settimana. Mi rendo conto che questo proposito non fa per me, poiché mi costringe a leggere numerosi libri brevi o non particolarmente lunghi pur di raggiungere l’obiettivo. Non credo che abbia senso. Come lettrice il mio romanzo ideale ha almeno 400 pagine, ma se ne ha il doppio o anche di più, ed è un bel libro, diventa addirittura perfetto, poiché per forza di cose racconta delle storie più complesse. E io amo le storie complesse. Perciò ho deciso di non pormi un minimo di libri all’anno, bensì un minimo di lunghezza (per esempio, 400 pagine in media) per circa l’80% dei libri che leggerò nel 2018. Inoltre tra questi almeno un terzo sarà costituito da romanzi in inglese britannico, poiché si tratta della variante in cui sto traducendo i miei libri.
Questo è tutto: solo quattro propositi, ma tutti importanti e sotto il mio pieno controllo, salvo cause di forza maggiore.
Che ne pensate?
Ovviamente ho altri progetti, ma preferisco parlarvene quando avrò deciso a quale dare la priorità.
Come di consueto, voglio concludere questo articolo ringraziando tutti i miei cari, i miei amici, i miei collaboratori e i miei lettori. Con voi, grazie a voi e anche per voi affronto questo lavoro con determinazione e passione. E i miei risultati sono anche un po’ vostri.
Grazie di cuore.
Auguro a tutti voi un 2018 pieno di soddisfazioni e, se si va, sarei felice di conoscere i vostri propositi nei commenti a questo articolo o sui vari social network in cui lo condividerò. Buona fine e buon inizio!
Fino al 7 gennaio 2018, “Il mentore”, il primo libro della trilogia del detective Shaw, è disponibile in ebook su Amazon e Google Play ad appena 0,99 €!
Ambientata nella Londra odierna tra il 2014 e il 2017, la trilogia del detective Eric Shaw ha come protagonista un caposquadra della sezione scientifica di Scotland Yard, che si trova ad affrontare un periodo cruciale della propria vita. L’eccessiva dedizione al lavoro ha causato il fallimento del suo matrimonio e l’ha trasformato in un poliziotto pronto a infrangere più di una regola pur di soddisfare la sua ossessione di assicurare i criminali alla giustizia. Il suo già precario equilibrio viene minato da una criminologa della sua squadra, molto più giovane di lui, Adele Pennington, per cui prova dei sentimenti che lui stesso considera inappropriati vista la differenza d’età, e da una serie di delitti sui quali indaga insieme alla figlioccia Miriam Leroux, detective della Omicidi. Essi mostrano delle somiglianze con un caso irrisolto del 1994, nell’ambito del quale lo stesso Eric aveva tratto in salvo da una scena del crimine una bambina di sette anni, unica testimone del massacro della propria famiglia.
Se vogliamo far funzionare la nostra colonia su Marte, abbiamo prima di tutto bisogno di energia. Come possiamo ottenerla?
La prima e più ovvia fonte di energia è il Sole (nella foto sopra un tramonto nel Cratere Gale su Marte). La radiazione solare raggiunge costantemente la superficie di Marte e per poterla trasformare in una forma di energia sfruttabile si può far uso di una tecnologia già ampiamente utilizzata nel nostro pianeta: i pannelli fotovoltaici.
Questi pannelli sono costituiti da celle che a loro volta presentano diversi strati costituiti da una coppia di fogli di silicio, di cui uno è caricato positivamente e uno negativamente. Quando la radiazione solare li raggiunge, questa fa eccitare l’elettrone del foglio negativo, che a sua volta migra verso quello positivo. Tale fenomeno, ripetuto per tutti i singoli elettroni presenti, dà luogo a una corrente elettrica.
In pratica si verifica una trasformazione dell’energia solare in energia elettrica, che può essere immagazzinata in batterie e utilizzata per tutte le necessità del nostro insediamento sul pianeta rosso. L’efficienza della trasformazione è di circa il 20%, ma tende a crescere col migliorare di questa tecnologia. Inoltre i pannelli solari hanno una vita utile abbastanza lunga, soprattutto considerando che su Marte sarebbero sottoposti a eventi meteorologici molto più miti, cosa che li trasforma in una fonte di energia rinnovabile a lungo termine.
Ci sono però tre limiti legati all’uso dei pannelli solari.
Il primo, che si osserva ovviamente anche sulla Terra, è che funzionano solo durante le ore di luce (il cosiddetto dì), mentre smettono del tutto di funzionare di notte. Inoltre la loro produzione di energia non è costante, ma varia lungo l’arco della giornata, raggiungendo il massimo quando il sole è allo zenit durante il solstizio d’estate (se le condizioni meteorologiche lo consentono). La soluzione a questo problema è semplicemente quella di accumulare l’energia prodotta durante il dì in batterie, in modo da averne a disposizione in maniera costante durante tutto il sol (giorno marziano).
Il secondo limite, invece, riguarda proprio Marte: il pianeta rosso è più lontano dal Sole rispetto alla Terra, quindi a parità di superficie dei pannelli solari questi ricevono una quantità inferiore di energia. Per ovviare a questo problema, in realtà basterebbe installare più pannelli. Di certo su Marte non manca lo spazio per farlo. Ma significa anche avere più dispositivi cui dover fare una costante manutenzione affinché funzionino sempre al meglio.
E questo ci porta al terzo limite: i diavoli di polvere e le tempeste di polvere.
Sappiamo che l’atmosfera di Marte è appena l’1% in densità rispetto a quella terrestre, nonostante ciò non è del tutto esente da importanti fenomeni meteorologici. La superficie del pianeta infatti è spazzata da frequenti venti che possono ampiamente superare i 100 chilometri orari. Nonostante l’aria sia sottile, i venti sono in grado di sollevare il pulviscolo più leggero generando colonne rotanti di aria scaldata dal Sole chiamate diavoli di polvere (nella foto sotto un diavolo di polvere in azione ripreso dall’orbita di Marte, simile a quello osservato da Melissa alla fine di “Deserto rosso”). I diavoli di polvere marziani sono molto più alti rispetto agli omonimi terrestri, ma, proprio per via della presenza di un’aria sottile, non sarebbero in grado di provocare danni a un insediamento umano. Tranne quello di coprire di polvere i pannelli solari, riducendo o annullando la loro efficienza!
Anche questo problema ha una semplice soluzione, vale a dire pulire periodicamente i (numerosi) pannelli, cosa che aggiunge un ulteriore consumo di quella stessa energia che producono. Talvolta, però, può accadere il contrario: un diavolo di polvere può casualmente pulire un pannello solare, come è accaduto al rover Spirit nel 2005, ma di certo non possiamo sperare in una tale casualità.
Ma i venti e la polvere creano anche un problema molto più serio. Su Marte, infatti, il continuo soffiare dei venti, in particolare in certi periodi dell’anno, è in grado di dare luogo a tempeste di polvere, in grado di ricoprire ampie aree e di durare anche per mesi. Anche nel caso della tempesta di polvere non abbiamo a che fare con un evento meteorologico distruttivo. La spinta che un vento può dare anche a 150 chilometri orari su Marte è sempre un centesimo di quanto avverrebbe sulla Terra. Tant’è vero che alcune tempeste di sabbia potrebbero essere così lievi da non venire affatto percepite al livello del suolo, almeno non dall’occhio umano, ma lo sarebbero per i pannelli solari. La polvere sospesa nell’aria, infatti, può ridurre in maniera drammatica la percentuale di energia solare in grado di raggiungere la superficie dei pannelli, e ciò può andare avanti per settimane o mesi, rendendoli di fatto inutili allo scopo di produrre energia elettrica.
Per questo motivo non possiamo fare affidamento soltanto sul Sole come fonte diretta di energia.
Come ho appena detto, però, su Marte c’è un sacco di vento ed esso porta con sé altra energia, sfruttabile attraverso l’impiego di turbine eoliche (come quelle utilizzate nella Stazione Alfa in “Deserto rosso”). Nonostante si tratti di un’energia eolica in proporzione nettamente inferiore a quella che si può sfruttare nel nostro pianeta, la maggiore frequenza e la maggiore velocità media dei venti li rende fonte di energia alternativa da affiancare a quella solare. A ciò si aggiunge il fatto che nei diavoli di polvere la frizione tra le particelle crea delle cariche elettrostatiche e periodicamente si scaricano sotto forma di fulmine e, almeno in teoria, si potrebbe provare a intrappolare anche quell’energia.
Resta però da considerare il peggiore degli scenari, che è tutt’altro che raro: una lunga tempesta di polvere che blocchi la luce del Sole, ma che allo stesso tempo non sia caratterizzata da venti tanto forti e costanti da sopperire al mancato funzionamento dei pannelli solari.
Inoltre queste fonti di energia rinnovabili, oltre a essere incostanti, hanno anche a pieno regime in proporzione un’efficienza più bassa rispetto a ciò che avviene sulla Terra, pur presentando problematiche di manutenzione non trascurabili. È probabile che la necessità di energia di una futura colonia marzia diventi un incentivo per cercare di migliorare questo tipo di tecnologie o addirittura inventarne di nuovein grado di sfruttare l’energia solare ed eolica, cosa che avrebbe poi degli importanti benefici sulla Terra.
Ma, nel frattempo, se vogliamo poter disporre di un’energia costante che sia disponibile in quantità notevoli, tali da portare avanti il funzionamento di un insediamento sul pianeta e la sua espansione nel tempo, è necessario rivolgerci a una fonte più potente, più affidabile e più facilmente gestibile, anche se magari, almeno per il momento, ce la dobbiamo portare dalla Terra.
Prendiamo il caso del rover Curiosity (foto sopra). A differenza di Opportunity e degli altri rover (ora non più funzionanti) Spirit e Sojouner, Curiosity non ha pannelli solari, bensì è alimentato esclusivamente da un generatore termoelettrico a radioisotopi. Questo dispositivo presenta un modulo contenente un isotopo radioattivo del plutonio, che decadendo diventa una fonte di calore. Questo calore viene trasformato da un convertitore termoelettrico in energia elettrica. Un generatore di questo tipo è abbastanza piccolo e può produrre energia in maniera continua per anni. Ovviamente, se usato da esseri umani, deve essere opportunamente schermato per evitare l’esposizione a radiazioni. Ma ciò vale in pratica per qualsiasi attività si svolga su Marte, che è costantemente raggiunto da radiazioni ionizzanti, solo in piccola parte bloccate dalla sottile atmosfera. Purtroppo c’è un limite alla potenza che un generatore di questo tipo può generare, ma esso è utile per far funzionare per lunghissimo tempo singole apparecchiature con un consumo di potenza contenuto, come la sonda Voyager 1 che è stata lanciata nel 1977 e adesso che è uscita dal Sistema Solare continua a comunicare con la Terra (di recente sono stati addirittura riaccesi i suoi propulsori per compiere una breve manovra, dopo 37 anni dall’ultima volta che sono stati utilizzati).
Per creare, far andare avanti ed espandere una colonia sul pianeta rosso ci serve, però, molta più energia. La risposta a questa necessità è estrarla dagli atomi. Per farlo è necessario disporre la nostra colonia di piccoli reattori nucleari, cioè delle strutture opportunamente schermate in cui facilitare le reazioni nucleari in combustibili come l’uranio, il plutonio e il torio, in modo che rilascino molta più energia di quella generata dal loro lento decadimento spontaneo. Nello specifico il processo cui vanno incontro si chiama fissione, cioè la separazione in due parti del nucleo atomico. Il calore generato viene poi convertito in energia elettrica.
All’inizio si dovranno importare dalla Terra i combustibili nucleari, ma in un tempo successivo sarà possibile estrarli su Marte esattamente come si fa sul nostro pianeta (bisogna prima scoprire dove trovarli). Il vantaggio delle reazioni nucleari è che da piccole quantità di materia prima si possono estrarre grandi quantità di energia. Inoltre i reattori hanno una durata molto maggiore rispetto ai pannelli solari o alle turbine eoliche.
Vi consiglio la visione di questo breve video che parla di una ricerca della NASA riguardo all’utilizzo di reattori nucleari (in cui avviene la reazione di fissione) per lunghe missioni nello spazio o per la colonizzazione di altri corpi celesti, incluso Marte.
Adesso che abbiamo l’energia, possiamo procurarci l’acqua, ma per colonizzare Marte ci servono tante altre cose. La prossima della nostra lista è l’ossigeno (dovremo pur respirare!), ma di questo parlerò nel prossimo articolo.
Tutte le foto di Marte sono della NASA. Fate clic sulle immagini per vederle nelle dimensioni originali.
Poco più di due anni fa AmazonCrossing ha pubblicato l’edizione inglese del mio thriller “Il mentore” (che sarebbe poi diventato il primo della trilogia del detective Eric Shaw), facendolo diventare bestseller internazionale che, raggiungendo oltre 170 mila lettori in tutto il mondo, ha scalato le classifiche del Kindle Store fino alla prima posizione assoluta negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Australia.
È stata per me una grande soddisfazione che un mio romanzo venisse letto da tante persone, la maggior parte delle quali l’hanno apprezzato, e ovviamente lo è stato anche il ritorno economico sia diretto che indiretto (grazie a un aumento delle vendite di altri miei libri in inglese e della versione italiana di questo libro). L’aver avuto questo transitorio successo mi ha inoltre procurato un ritorno di immagine non indifferente, cui sono seguite diverse esperienze interessanti, e rappresenta un precedente indelebile nella mia carriera letteraria.
Tra l’altro, se non avessi mai concesso i diritti di traduzione in inglese de “Il mentore”, non mi sarebbe neanche venuto in mente di scrivere i suoi due seguiti, “Sindrome” e “Oltre il limite”, di cui sono particolarmente fiera, sia perché li ritengo dei libri di gran lunga migliori del loro predecessore (in quanto scritti con una maggiore esperienza alle spalle), sia perché mi hanno dato la possibilità di concedere più spazio al personaggio di Eric Shaw e di raccontare fino alla fine la sua storia.
Adesso, a oltre due anni dall’uscita di “The Mentor” e a oltre tre dalla stipulazione del contratto con Amazon Publishing, i diritti di traduzione in inglese de “Il mentore” mi sono stati restituiti (la restituzione ufficiale avverrà la settima prossima) e già da qualche giorno il libro non è più disponibile in formato ebook su Amazon (per i formati fisici la disponibilità continuerà fintanto che ci saranno ancora copie in magazzino o vendute da terzi).
Devo dire che, nonostante la mia collaborazione con Amazon Publishing sia stata un’esperienza interessante e istruttiva e mi abbia portato tante belle cose, sono contenta che sia finita.
L’edizione di “The Mentor” da loro pubblicata aveva delle criticità per quanto riguarda la traduzione. Il romanzo, pur essendo ambientato a Londra, era stato tradotto in ogni sua parte, inclusi i dialoghi, nella variante americana dell’inglese, poiché pubblicato da un editore americano. Oltre al problema della lingua in sé, che molti lettori, non solo quelli britannici, hanno notato, c’era quello dell’utilizzo di terminologie e nomi di istituzioni e luoghi tradotti direttamente dal mio adattamento in italiano dei termini originali, laddove sarebbe invece stato necessario andare a recuperare gli stessi termini originali. Infine c’erano proprio degli errori nel riportare il contenuto del testo, anche se non tali da compromettere la comprensione generale del libro.
A monte c’era stata sicuramente una scelta discutibile da parte dell’editore, vale a dire usare un traduttore e degli editor americani (che ovviamente non hanno colpa, poiché hanno solo cercato di fare del proprio meglio, e cui vanno comunque i miei ringraziamenti).
A ciò si aggiungevano, a mio parere, alcune scelte di marketing (tra cui copertina, descrizione, generi in cui era classificato) che non rispecchiavano il contenuto reale del libro e che potrebbero aver tenuto lontano un target di lettori più adatto. “The Mentor”, infatti, era stato presentato come un “mystery”, quello che in italiano è definito giallo, cioè una storia investigativa il cui scopo è trovare il colpevole. I lettori si aspettavano di dover scoprire l’identità dell’assassino e che questo alla fine venisse arrestato o, al massimo, ucciso. In realtà però si tratta di un crime thriller in cui il centro della storia è il comportamento che un detective della Scientifica (Forensic Services), con un concetto molto particolare di giustizia (tale da spingerlo ad abusare spesso del proprio ruolo), assume nel sospettare che dietro gli efferati omicidi su cui sta indagando ci sia una persona con cui ha un forte legame affettivo. A rendere il suo giudizio più complicato c’è la consapevolezza che le vittime non erano affatto degli innocenti.
Alla luce di tutto ciò sono contenta, forse addirittura sollevata, di rientrare in possesso dei diritti di traduzione in inglese de “Il mentore” per assicurarmi prima di tutto che riceva una traduzione adeguata e fedele, e successivamente per poter nel migliore dei modi offrire anche ai lettori anglofoni i libri successivi, sperando di riuscire a farli arrivare soprattutto a coloro che amano i crime thriller, e non (solo) i gialli.
Al momento non sono ancora in grado di stabilire delle date di uscita (anche perché sono e sarò impegnata per i prossimi mesi in due progetti editoriali in italiano), ma ho già iniziato la nuova traduzione e spero che nei prossimi mesi sia possibile chiarire in quali modi, e magari anche tempi, la trilogia del detective Eric Shaw tornerà sul mercato anglofono nel maggior numero possibile di paesi e, soprattutto, non soltanto su Amazon.
Una delle prime cose di cui abbiamo bisogno per colonizzare Marte è l’acqua. Come sappiamo, l’acqua è essenziale per la vita come noi la conosciamo. In media una persona è costituita per il 65% da acqua e tutti i processi biologici utilizzano l’acqua come solvente.
Perché proprio l’acqua?
Non è un caso che l’acqua sia diventata la sostanza alla base della vita. L’acqua, tanto per iniziare, ha la particolare caratteristica di trovarsi in forma liquida all’interno di un intervallo di temperature molto elevato (dai 0 ai 100°C) a una pressione pari a 1 atmosfera. Il punto di ebollizione dell’acqua è molto più elevato di quello di altre sostanze con una massa simile e questa differenza, che la rende così importante, è dovuta alla sua struttura chimica.
È una molecola costituita da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno (H2O). I due atomi di idrogeno solo legati entrambi all’unico atomo di ossigeno in modo tale che gli elettroni non sono distribuiti in maniera uguale tra gli atomi. Gli atomi di idrogeno, infatti, presentano una piccola carica positiva, mentre l’atomo di ossigeno ha una piccola carica negativa. Questa polarità fa sì che si creino dei legami (chiamati legami a idrogeno) tra gli atomi di molecole diverse.
I legami a idrogeno non sono tanto forti, ma lo sono abbastanza da tenere le molecole vicine anche a temperature elevate, rendendo l’acqua poco volatile.
Oltre essere la causa dell’elevata temperatura di ebollizione dell’acqua, i legami a idrogeno determinano la disposizione ordinata delle molecole nello stato solido, che risulta essere meno denso di quello liquido. Per questo motivo il ghiaccio galleggia sull’acqua e fa sì che la vita sia possibile al di sotto di esso.
Tutto questo discorso vale sulla Terra, a una pressione di 1 atmosfera o 1013 millibar.
E su Marte?
Sappiamo che in passato Marte aveva oceani, laghi e fiumi. Abbiamo le prove geologiche del passaggio e della presenza dell’acqua. Ciò era reso possibile dalla presenza di un’atmosfera molto più spessa di quella attuale e, di conseguenza, di temperature più elevate (immagine sopra: confronto tra Marte oggi e in passato; fare clic sull’immagine per guardare il video di NASA Planetary Science).
Al giorno d’oggi (e da qualche miliardo di anni), come vi ho raccontato nell’articolo precedente, la pressione sulla superficie di Marte oscilla tra i 6 e gli 11 millibar. In questa condizione anche all’equatore, dove la temperatura può raggiungere i 15-20°C, l’acqua non può esistere allo stato liquido, poiché il suo punto di ebollizione è inferiore a questi valori. Ciò fa sì che questa sostanza essenziale per la vita si trovi solo allo stato solido oppure a quello gassoso.
È stato scoperto recentemente che durante l’estate marziana si formano in alcune aree, in corrispondenza di pendii, delle linee scure ricorrenti (individuate dalla fotocamera HiRISE del Mars Reconnaissance Orbiter della NASA; foto sotto: linee ricorrenti in Juventae Chasma, NASA/JPL), che sono state attribuite alla presenza di acqua che, dalle profondità del terreno, emerge e si scioglie. Di fatto quest’acqua riesce a trovarsi (forse) in forma liquida solo perché è ricca di sali che ne innalzano il punto di ebollizione. Ma pare anche che la presenza in questo stato sia solo transitoria e caratterizzata dal suo successivo passaggio allo stato gassoso, e che le linee ricorrenti siano di fatto provocate dallo spostamento di materiale granuloso.
Perciò pensare di andare a raccogliere acqua da questi ruscelli temporanei è fuori discussione.
Su Marte, comunque, ci sono delle fonti ben più evidenti di acqua: il ghiaccio delle calotte polari. Ciò è particolarmente vero per il polo nord (foto sotto: calotta del polo nord di Marte vista da HiRISE/NASA), dove il ghiaccio d’acqua è facilmente raggiungibile, mentre al polo sud questo è intrappolato sotto una calotta di ghiaccio secco (anidride carbonica solida).
In teoria potremmo andare a prendere l’acqua al polo nord di Marte, ma ciò non sarebbe pratico se decidessimo di costruire una colonia umana in altri luoghi del pianeta, con un clima più mite e con un’esposizione più regolare ai raggi solari (che potrebbero tornarci utili per produrre energia).
Secondo varie ricerche, pare che notevoli quantità di ghiaccio siano presenti anche a latitudini più basse, ma in profondità. Se si riuscisse a individuare uno di questi depositi, sarebbe un’ottima idea stabilirsi sopra di esso ed estrarre ghiaccio d’acqua dal sottosuolo.
Inoltre, non è del tutto da escludere l’idea che nel sottosuolo si creino delle condizioni di pressione e temperatura tali da permettere l’esistenza di acqua liquida, magari termale (una teoria che compare spesso nella narrativa di fantascienza e che ho usato anch’io in “Deserto rosso” e in “Ophir. Codice vivente”), ma non è affatto semplice trovarla.
IMPORTANTE AGGIUNTA DEL 2019. Nel luglio 2018 è stata annunciata la scoperta di un lago subglaciale di acqua liquida (soluzione acquosa di sali) vicino al polo sud marziano, grazie al lavoro svolto da un team di ricerca italiano, capeggiato da Roberto Orosei, con lo strumento MARSIS, che si trova a bordo dell’orbiter dell’ESA Mars Express. Per maggiori informazioni è possibile leggere e seguire i link in questo articolo.
In realtà esiste però una grande quantità di acqua diffusa su tutto il pianeta, sebbene a basse concentrazioni, intrappolata in forma solida o parzialmente liquida (in presenza di sali) nelle rocce e nel terreno, in particolare nella regolite (lo strato più superficiale costituito da sabbia, polvere, piccole pietre; nella foto: particolare della sabbia di Marte ripreso dal rover Curiosity, NASA/JPL).
E (come ho scritto in “Deserto rosso”) è assolutamente possibile estrarre l’acqua da questo materiale. Prima di tutto lo si deve raccogliere e portare in un ambiente chiuso con una pressione simile a quella terrestre, in cui l’acqua può esistere allo stato liquido. Quindi lo si scalda prima per scioglierla e poi per farla evaporare. Il vapore viene quindi separato e poi condensato. In pratica l’acqua verrebbe separata dalla regolite tramite distillazione.
Questa conterrà ancora numerose sostanze tossiche, che possono essere eliminate tramite un processo di purificazione. L’acqua viene fatta passare attraverso una resina a scambio ionico (una tecnologia già usata per addolcire le acque dure), in cui queste sostanze vengono sostituite con altre non pericolose, come il sodio.
Come potete vedere, si tratta di tecnologie esistenti e relativamente semplici da applicare. L’unico problema è che richiedono una notevole quantità di energia, visto il notevole fabbisogno d’acqua dei colonizzatori.
Infatti, un essere umano assume in varie forme più di due litri d’acqua al giorno, inoltre ha bisogno di acqua per l’igiene personale. Ma c’è anche da considerare che consuma tanta acqua quanta ne perde. Per questo motivo è possibile controllare i consumi di acqua tramite l’implementazione di tecnologie che ne consentano il riciclo completo (o quasi), come quelle tuttora utilizzate sulla Stazione Spaziale Internazionale.
Il riciclo è possibile grazie alla cattura del vapore acqueo che si concentra nell’aria all’interno dell’habitat e di quello recuperato dalle tute spaziali dopo l’uso, cui si aggiungono tutte le acque usate. Tutta l’acqua raccolta viene sottoposta a filtrazione, prima per rimuove materiale solido e particolato, poi impurità organiche e inorganiche, infine subisce un’ossidazione catalitica,che elimina composti organici volativi e tutti i microrganismi.
Tutto questo, manco a dirlo, richiede altra energia. E proprio di come produrre energia su Marte parlerò nel prossimo articolo.
Tutte le foto di Marte sono della NASA. Fate clic sulle immagini per vederle nelle dimensioni originali.
Di Carla (del 16/11/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2162 volte)
Il futuro del passato
Quattro anni fa mi capitò di leggere “Le orribili salamandre”, il seguito di questo libro, e lo apprezzai notevolmente, nonostante si tratti di un tipo di fantascienza a dir poco vintage.
“I coloni dello spazio” chiarisce gli eventi precedenti, cioè racconta il viaggio dell’equipaggio del Colonist fino al pianeta Bel, con tutte le sue difficoltà. A mio parere presenta una minore originalità del successivo, tale che soffre di più il passaggio del tempo, ma è stata comunque una lettura piacevole con alcuni imprevedibili risvolti e persino un po’ di azione.
Uno degli episodi più interessanti è il breve soggiorno in un pianeta apparentemente disabitato, resosi necessario per svolgere una riparazione. Due dei personaggi principali, il dottor Hyde ed Eleanor, si allontanano per raccogliere dei campioni e ben presto la situazione precipita.
Alcuni problemi incontrati durante il viaggio si risolvono con eccessiva facilità, ma tutto il romanzo ha un ritmo molto rapido e una trama lineare, che, come il successivo, lo rende una lettura perfetta per i più giovani e per chi, come me, qualche volta desidera viaggiare nello spazio con la fantasia senza troppo impegno.
La traduzione, purtroppo, non è delle migliori. Il traduttore è caduto in qualche falso amico (per esempio, il silicio, silicon in inglese, è diventato silicone) e il testo ha una notevole quantità di refusi, ma ci sono anche dei passaggi che rimangono gradevoli nonostante la stessa traduzione risalga agli anni ’80. Nel modo di esprimersi dei personaggi, ma anche in tutto il testo in generale, c’è un senso di formalità d’altri tempi che facilita l’immedesimazione in questo futuro del passato, in cui si viaggia da un sistema stellare all’altro, in cui si domina la gravità, ma si usano ancora le schede forate per i computer.
Il bello della narrativa è che anche uno scenario impossibile come questo, nel momento in cui lo si legge in un libro, appare del tutto plausibile.
Conoscete la mia passione per il quarto pianeta del sistema solare, vale a dire Marte. Ne sono affascinata da una ventina di anni, da quando nel 1997 il rover Sojouner, inviato con la missione della NASA Mars Pathfinder, ha iniziato a scorrazzare (si fa per dire) tra le rocce e la polvere del pianeta rosso e a inviare delle immagini mozzafiato di un mondo che, pur essendo alieno, di fatto non pareva tanto diverso dal nostro (foto sotto scattata dal rover Curiosity/NASA).
E infatti Marte per molti versi assomiglia al nostro pianeta. È roccioso, è ricoperto da valli, monti, deserti sabbiosi, non è eccessivamente lontano dal Sole, ha una durata del giorno (detto sol) molto simile a quella terrestre (circa 24 ore e 39 minuti terrestri), un asse con un’inclinazione tale da conferirgli un’alternanza di quattro stagioni anch’essa simile alla nostra, e soprattutto possiede gli elementi e le molecole necessarie alla vita, come carbonio, azoto, ossigeno, idrogeno e persino acqua, sia in forma solida sia, come si è scoperto recentemente, liquida (non pura). Queste condizioni esistono adesso, ma esistevano ancora di più miliardi di anni fa, quando Marte aveva un’atmosfera più densa e un clima più caldo (e quindi aveva laghi, fiumi e oceani), nello stesso periodo in cui compariva per la prima volta la vita sulla Terra.
Per questo motivo è abbastanza probabile che la vita, nella sua forma microscopica, sia esistita su Marte in passato, e forse addirittura che continui a esistere in luoghi del pianeta che possiedono le stesse condizioni trovate in alcune regioni della Terra dove sappiamo che vivono organismi estremofili.
Tutto ciò rende Marte un luogo interessante per studi nell’ambito dell’astrobiologia e nello specifico dell’esobiologia (il campo di ricerca di Anna Persson, la protagonista di “Deserto rosso”).
Ma, nonostante le condizioni ambientali di Marte siano drammaticamente cambiate negli ultimi 3,7 miliardi di anni, con la perdita di gran parte della sua atmosfera, spazzata via dall’azione dei venti solari a causa di una forza di gravità insufficiente e dell’assenza di una magnetosfera (l’atmosfera di Marte viene attualmente studiata dalla sonda MAVEN della NASA), il pianeta rosso è l’unico corpo celeste del nostro sistema solare ad avere tutte le carte in regola per essere colonizzato dall’uomo, con qualche aggiustamento. E fortunatamente è anche il secondo pianeta più vicino alla Terra (il più vicino è Venere, che però ha condizioni molto più sfavorevoli), cosa che lo rende raggiungibile in tempi accettabili (foto sotto: dune di Marte viste da HiRISE/NASA).
Chiaramente questa affermazione è valida in teoria. Ma in pratica in che modo potremmo vivere su Marte?
È vero, come ho detto sopra, che Marte è molto simile alla Terra. Esistono però delle differenze tutt’altro che trascurabili.
Prima di tutto ha un diametro che è pari a circa la metà di quello terrestre (e al doppio di quello della Luna) e una massa di appena l’11% rispetto a quella della Terra. Ciò si traduce in una gravità di 0,376 g (cioè poco più di un terzo di quella terrestre), che influenza la capacità del pianeta di trattenere l’atmosfera. Possiede due satelliti naturali, Phobos e Deimos, che, a differenza della Luna, viste le piccole dimensioni (sono probabilmente degli asteroidi catturati nell’orbita) non hanno una forma sferica.
Inoltre si trova più distante dal Sole di circa 78 milioni di chilometri rispetto alla Terra. Per questo motivo la durata dell’anno su Marte è di 687 giorni terrestri (quasi il doppio di quella terrestre), che corrispondono a 668,6 sol, al contempo le temperature variano da -140°C a 20°C, con un valore medio di -60°C.
Marte è un pianeta roccioso con una crosta e un mantello simili a quelli terrestri, ma sappiamo poco su ciò che si trova al di sotto di quest’ultimo. Sulla Terra abbiamo un nucleo di ferro solido, avvolto da ferro liquido che ruotando determina la presenza di un campo magnetico permanente che ci protegge dai raggi cosmici. Al contrario, non sappiamo per certo come sia fatto il nucleo di Marte, ma potrebbe essere di ferro allo stato viscoso, vale a dire non in grado di ruotare, in quanto il pianeta non possiede attualmente una vera e propria magnetosfera, la cui esistenza è cruciale per la vita sulla superficie del pianeta.
A ciò si aggiunge il fatto che l’atmosfera di Marte ha una pressione che va da 6 a 11 millibar (quella media della Terra è di 1013 millibar), così bassa da impedire all’acqua pura di trovarsi allo stato liquido (a seconda della temperatura è presente sotto forma di vapore acqueo oppure di ghiaccio), ed è costituita perlopiù da anidride carbonica e pochissimo ossigeno. Quest’ultimo si trova in buona parte intrappolato negli ossidi di ferro che conferiscono il caratteristico color ruggine al pianeta. Un’atmosfera così sottile fornisce al pianeta una protezione molto bassa nei confronti dei raggi ionizzanti provenienti dal Sole, che letteralmente sterilizzano la sua superficie (foto sotto: Phobos e Marte, visti da Mars Express/ESA).
Va da sé che in condizioni del genere, cioè se non vogliamo congelarci o liofilizzarci (secondo la temperatura) istantaneamente oltre che soffocare prima ancora di poter essere uccisi dalle radiazioni, per vivere su Marte abbiamo bisogno di organizzarci un po’.
Tanto per iniziare, ci serve un habitat termostatato, pressurizzato e schermato, delle tute con le medesime caratteristiche per uscire all’aperto e dei mezzi di trasporto. Tutte queste cose ce le possiamo portare dalla Terra. Altre però, vista la distanza dal nostro pianeta d’origine, dobbiamo essere in grado di procurarcele direttamente su Marte. Queste sono essenzialmente quattro: acqua, energia, ossigeno e cibo.
In questa serie di articoli, che come potete vedere hanno un taglio divulgativo, ho intenzione di parlarvi, tanto per iniziare, di come procurarci questi elementi essenziali per poter vivere sul pianeta rosso.
Nell’attesa del prossimo articolo, se non l’avete già fatto, vi invito a iniziare il vostro viaggio su Marte insieme all’esobiologa Anna Persson attraverso la lettura della mia serie di fantascienza “Deserto rosso” e successivamente con il resto del ciclo dell’Aurora, in particolare la terza parte, “Ophir. Codice vivente”, che vede ancora una volta come protagonista il pianeta rosso e i suoi misteri.
Nel 2012, prima di iniziare a pubblicare le mie opere originali, trasformai una vecchia fan fiction del film “La Mummia” (quello di Stephen Sommers) scritta nel 2000 in un ebook gratuito, tuttora disponibile, per iniziare a creare intorno a me un piccolo gruppo di lettori e testare la piattaforma di pubblicazione di Smashwords, che poi avrei usato per portare tutti i miei libri su Kobo e iTunes.
Questa fan fiction si intitola “La morte è soltanto il principio” e rappresenta un sequel alternativo del famoso film del 1999 (che aveva come protagonista Brendan Fraser) e soprattutto della sua novelization firmata da Max Allan Collins.
Non ho idea del numero totale di volte che questo ebook è stato scaricato, poiché mi mancano i dati di Kobo, ma considerando solo Smashwords, iTunes e Google Play la cifra che ottengo è di circa 70 mila copie.
L’edizione pubblicata nel 2012 era ovviamente una versione revisionata di quella scritta dodici anni prima. Successivamente nel 2015 ho ripreso in mano il testo e l’ho sottoposto a una revisione più approfondita, facendo tesoro di quanto avevo imparato in tre anni di scrittura e pubblicazione.
E adesso ho deciso di farlo di nuovo, ma, invece di revisionare il testo e solo dopo pubblicare una nuova edizione in sostituzione della precedente, stavolta mi sono rivolta a Wattpad.
Come immagino sappiate, Wattpad è un social network di scrittura e lettura. Gli utenti pubblicano le proprie storie a puntate e i loro follower le leggono e le commentano.
Sono iscritta a Wattpad da qualche anno, ma finora l’ho usato solo per inserire un’anteprima dell’edizione inglese di due miei libri. Circa due settimane fa, invece, ho pensato di usarlo come strumento per diffondere la nuova edizione de “La morte è soltanto il principio”, man mano che procedo con la sua revisione.
Finora devo dire che sto trovando l’esperienza molto divertente. Ho ancora relativamente pochi follower, ma quei pochi si stanno mostrando molto attivi nel commentare i passaggi del testo e talvolta nel darmi una mano a individuare dei refusi che altrimenti mi sarebbero sfuggiti per l’ennesima volta.
Il libro è costituito da tre parti e non è originariamente suddiviso in capitoli, ma per adattarlo alle esigenze di Wattpad sono costretta ad aggiungere questa suddivisione. Non so esattamente quanti capitoli verranno fuori alla fine, ma ho intenzione di pubblicarne almeno uno alla settimana e di finire entro Natale.
Terminata la pubblicazione online, sostituirò l’ebook nei retailer con l’edizione aggiornata, che quindi potrete scaricare sul vostro dispositivo.
Se non avete ancora letto “La morte è soltanto il principio”, vi va di unirvi ai miei follower su Wattpad?
Se prima volete saperne qualcosa di più, eccovi la descrizione del libro.
Londra, 1926 d.C.
Quando Evelyn Carnahan rivede dopo alcuni anni la sua vecchia amica d’infanzia Anne Howard, si rende subito conto di quanto sia cambiata. La ragazza perennemente annoiata e insofferente che ricordava si è trasformata in una giovane donna sicura di sé, per niente addolorata dalla recente morte del marito Robert MacElister, avvenuta in circostanze misteriose durante una campagna di scavi in Egitto.
Inoltre, al suo ritorno a Londra dopo questo viaggio, la giovane vedova ha portato con sé, oltre che una grande quantità di reperti da esporre al British Museum, uno strano egiziano di nome Assad, indossante il tatuaggio dei Med-Jai, gli antichi guardiani di Hamunaptra, la Città dei Morti scoperta non molto tempo prima proprio da Evelyn, suo fratello Jonathan e Rick O’Connell.
Non tutto quello che Anne ha rinvenuto ad Hamunaptra, però, è stato esposto durante la mostra. Due sono gli artefatti che la donna ha deciso di tenere per sé: una mummia malridotta e un libro nero che necessita di una chiave per essere aperto.
Ma ciò che Anne e Assad non sanno è che nel loro viaggio di ritorno sono stati seguiti anche da un’oscura presenza in cerca di una vendetta vecchia di tremila anni.
Nel tentativo di risolvere questo nuovo mistero, i fratelli Carnahan e l’americano Rick O’Connell dovranno ben presto scontrarsi con forze sovrannaturali di gran lunga al di sopra della loro portata e saranno costretti, loro malgrado, a combattere ancora una volta per salvare il mondo.
Nel farlo, però, troveranno in un vecchio nemico un inatteso e potente alleato.
Di Carla (del 25/10/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2752 volte)
Un classico senza tempo
Provo sempre una strana sensazione nell’accostarmi ai classici, poiché presentano modi di narrare che non avrebbero alcun spazio nella narrativa moderna, eppure alcuni di essi conservano l’immutata capacità di coinvolgere il lettore.
Questo è il caso de “La macchina del tempo” di Wells, in cui la voce narrante è un personaggio del tutto secondario che si limita a riferire ciò che il protagonista racconta. Questo tipo di struttura narrativa per così dire “incorniciata” potrebbe creare una certa distanza tra il lettore e gli eventi, ma ciò non avviene affatto in questo libro, poiché il narratore si limita quasi soltanto a presentare il viaggiatore del tempo e a lasciare che parli con la sua voce. E il modo in cui lo fa è così vivido che nella mente del lettore ogni elemento ed emozione descritta diventa immagine, nonostante il linguaggio datato (ho letto il libro in lingua originale), anzi, proprio quest’ultimo contribuisce alla sospensione dell’incredulità. Infatti, ci si ritrova trasportati non soltanto nel lontano futuro in cui si svolgono le avventure narrate dal viaggiatore, ma anche alla fine del diciannovesimo secolo, in cui questi le sta riferendo ai propri amici.
In tal modo la lettura si trasforma anch’essa in un breve ma intenso viaggio.
Clicca sulla copertina per scaricare GRATIS la fan fiction.
Disponibile su Smashwords.
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