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 Les Calanques (Marsiglia)... di Carla
 

"Qui si parla di andare su Marte. Vivere su Marte!" Deserto rosso - Punto di non ritorno

 

Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Carla (del 23/09/2024 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 167 volte)
Challengers” è un film di Luca Guadagnino (aprile 2024).
 
Due dei protagonisti di Challengers
 
Ma che bello!
 
Finalmente un po’ di cinema con la C maiuscola, in cui gli strumenti della settima arte vengono sfruttati al meglio per raccontare una storia nata e sviluppata per il grande schermo.
 
Ciò che lo rende bello non è solo la storia in sé (che è comunque ben congegnata), ma il modo in cui viene mostrata al pubblico un pezzetto alla volta con una serie di flashback sapientemente inseriti lungo il corso di un incontro di tennis.
I protagonisti del triangolo amoroso rivelano scena dopo scena la propria natura e quella del rapporto che li lega, attraverso dialoghi efficaci, piccoli dettagli, una colonna sonora a dir poco perfetta e un montaggio da urlo.
 
E poi ci sono alcune chicche pazzesche, come in una delle ultime scene, quando il punto di vista della cinepresa diventa quello di uno dei giocatori e poi dell’altro, finisce sotto il campo, come se la sua superficie fosse di vetro, e a un certo punto passa a quello della pallina da tennis.
 
Insomma, che vi piaccia o meno il tennis, ve lo consiglio, ma, se amate e seguite il tennis, non potete perdervelo.
Anche se il film non è sul tennis, che è solo il contesto in cui è narrato il triangolo amoroso, se conoscete un po’ questo sport e i suoi protagonisti del presente e del passato, non potranno sfuggirvi quegli elementi della realtà (fatti e persone) che hanno ispirato alcuni aspetti della storia e soprattutto dei personaggi.
 
Buona visione!
 
Di Carla (del 19/09/2024 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 170 volte)
Ho visto “Beetlejuice Beetlejuice” ed era davvero tanto tempo che non mi divertivo così al cinema!
 
I protagonisti di Beetlejuice Beetlejuice
 
Parto dalla premessa che io sono una fan di Tim Burton e adoroBeetlejuice”, che è senza dubbio il film che ho visto più volte in assoluto. C’è stato un periodo negli anni 90 in cui conoscevo praticamente tutte le battute della versione in italiano a memoria, ma, soltanto quando negli anni zero ho comprato il DVD e ho potuto guardarlo in lingua originale, ne ho potuto comprendere fino in fondo la genialità.
Ma, proprio perché amo questo film, da una parte ero felice per il sequel e dall’altra temevo che potesse deludermi, dopo oltre 30 anni di attesa (il film è del 1988, ma io lo vidi la prima volta nei primi 90).
 
Fortunatamente si trattava di un timore infondato.
 
Per prepararmi adeguatamente, qualche ora prima di andare al cinema mi sono rivistaBeetlejuice”, anche perché dall’ultima volta erano passati forse 15 anni, e si tratta di una cosa che consiglio a chiunque sia intenzionato a vedere il sequel. Se non avete mai visto il primo, dovete vederlo, perché i collegamenti sono troppi e viene dato per scontato che lo spettatore li conosca. Ma, anche se l’avete visto, non è una cattiva idea rinnovare un po’ quel ricordo.
Devo dire che, man mano che lo riguardavo, mi ricordavo tutto, ma fissare nella memoria l’aspetto visivo del film è risultato essenziale nel godimento della visione del sequel.
 
Infatti, meno di un’ora e mezza dopo aver terminato la visione mi trovavo nella mia poltrona reclinabile al cinema e partiva la proiezione. L’impressione che ho avuto è di totale continuità tra le due opere, a iniziare dalla schermata col logo della Geffen e dal font usato per i titoli iniziali che scorrevano sul paesaggio di Winter River, mentre veniva riprodotta l’inconfondibile colonna sonora di Danny Elfman.
Successivamente ad accogliere lo spettatore c’è Winona Ryder, che 36 anni dopo riprende il personaggio di Lydia Deetz. Ed è proprio lei, Lydia. È come se lo fosse sempre stata. Semplicemente è cresciuta, come lo sono io, d’altronde.
Un’altra cosa che temevo era di essere travolta da un senso dolceamaro di nostalgia nei confronti di un tempo cui apparteneva una me adolescente che adesso non esiste più, ma non è stato affatto così.
Mi sono sentita a casa, perché quella particolare parte di me esiste ancora, e sono stata felice di sapere cos’era accaduto a Lydia e agli altri personaggi in tutto questo tempo, come pure di seguirli in questa nuova avventura.
 
Che dire poi di Michael Keaton?
Grazie al pesantissimo trucco è quasi impossibile notare la differenza tra come era negli anni 80 e come è adesso, e ciò aggiunge un tocco di “realismo” al tutto (le virgolette sono d’obbligo!).
 
Non posso dirvi nulla della storia, ma proprio nulla, perché è bello vederla così. Tutto sommato, il trailer si limita a rivelare i personaggi coinvolti, ma non in che modo questi si muovono nella storia.
Posso solo dirvi che sono rimasta per tutto il tempo con gli occhi incollati allo schermo, dimenticandomi di chi fossi e di dove fossi, proprio come mi accadeva quando andavo al cinema negli anni 90, e che ho riso davvero tanto per gran parte dei 105 minuti del film.
E ancora di più nell’ultimo quarto d’ora, incluso lo spumeggiante epilogo (ma è davvero finita la storia?).
 
 
Sono perfettamente consapevole che in questa prima visione ho colto soltanto in minima parte tutti i dettagli di cui questo film è pregno. Con “Beetlejuice” ogni volta che lo rivedevo, anche dopo la quarantesima, mi capitava sempre di individuarne qualcuno che mi era sfuggito. Mi aspetto che accada lo stesso con “Beetlejuice Beetlejuice” e non vedo l’ora di poter mettere le mani sul Blu-ray.
Speriamo esca presto, come pure spero che pubblichino una versione CD della colonna sonora per aggiungerla alla mia collezione.
 
Concludo dicendo che sono davvero felice di constatare che il cinema, quello vero, esiste ancora grazie a menti esplosive e folli come quella di Tim Burton.
Viva il cinema, viva Tim Burton, viva Beetlejuice!
 
Ma non ditelo tre volte, okay?
O forse sì?
 
Di Carla (del 04/09/2024 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 287 volte)
Qualche giorno fa ho visto “Trap” al cinema, l’ultimo film di M. Night Shyamalan, con Josh Hartnett nel ruolo del protagonista.
 
Una scena del film Trap (Cooper e la figlia al concerto)
 
Cooper porta la figlia adolescente al concerto di una popstar, Lady Raven (interpretata da Saleka, cantante americana figlia del regista), come tanti altri genitori, ma una volta lì si accorge che c’è qualcosa di strano. Nel luogo del concerto c’è uno spiegamento eccessivo di forze dell’ordine.
Il problema è che Cooper non è un genitore come gli altri: lui è “il macellaio”, un serial killer.
 
La prima ora del film è veramente eccezionale. Anche se il trailer aveva già spoilerato l’elemento alla base della storia (l’identità di Cooper), il modo in cui viene mostrato allo spettatore è magistrale.
Le cose diventano un po’ più difficili nella seconda parte del film, ma nel complesso è un ottimo thriller, che mi ha tenuto incollata allo schermo per tutta la sua durata (complice anche l’assenza di pausa tra il primo e il secondo tempo).
 
Non posso dirvi molto su come si sviluppa la storia, poiché il bello è proprio scoprirlo sul momento, ma posso dirvi cosa mi è piaciuto di più e di meno.
 
Sicuramente l’interpretazione di Josh Hartnett è fantastica. Il modo con cui passa da padre premuroso a mostro con uno sguardo mette i brividi.
Il bello è che, nonostante venga svelata la sua identità di serial killer, agli occhi dello spettatore rimane lui il protagonista, l’eroe della storia (chiaramente un anti-eroe), mentre le forze dell’ordine insieme alla profiler che le guida assumono il ruolo di cattivi. Vogliamo che la scampi, anche perché le sue nefandezze vengono giusto accennate, senza mostrare nulla che ce lo faccia veramente odiare.
Nel complesso la storia è ben raccontata attraverso le immagini, nel modo di incastrare le scene e nelle scelte di inquadratura, il tutto contornato dalla musica di Lady Raven/Saleka.
 
Ci sono però alcune cose che funzionano meno.
 
Tanto per iniziare, la motivazione che spinge la polizia a tentare di individuare un uomo di cui non conoscono il volto a un concerto dove ci sono la bellezza di circa 3000 altri uomini è debole (un pezzo di scontrino). Per cercare di verificare che ognuno di essi potesse essere o meno la persona che cercavano, nella realtà ci sarebbe voluto davvero troppo tempo. Inoltre, c’era il rischio tutt’altro che improbabile che lui non fosse affatto lì (e se fosse stata la madre, o chiunque altro, ad accompagnare la figlia al concerto?).
 
Inoltre, durante lo svolgimento del film ci sono diverse forzature. Per esempio, Cooper riesce troppo facilmente a fare amicizia con persone che lavorano lì e che involontariamente lo aiutano. D’altra parte, però, chi gli dà del filo da torcere, creando un colpo di scena, potrebbe fare qualcosa di più semplice e meno rischioso, ma che non permetterebbe di mantenere altrettanto elevata la tensione del film.
 
Infine, sono rimasta un po’ delusa dal colpo di scena finale. Quando vado a vedere un film di Shyamalan mi aspetto un super colpo di scena nella parte finale che fa macerie di qualsiasi aspettativa precedente. Nel film ci sono diversi colpi di scena interessanti e alla fine c’è un colpo di scena che dovrebbe essere più potente degli altri, ma in realtà non funziona affatto. È troppo spiegato dal personaggio che ne è autore e, onestamente, la spiegazione e le sue conseguenze sono fin troppo tirate per i capelli. E poi ha un che di già visto.
 
A dirla tutta, nella mia mente avevo elaborato una teoria ancora più sconvolgente e ci sono rimasta un po’ male nel constatare che il regista non avesse voluto spingersi così in fondo nel caratterizzare il protagonista. Cooper è il classico serial killer con un’infanzia difficile di cui però non viene detto nulla di veramente specifico e l’assenza di un vero approfondimento del personaggio (il protagonista!), che avrebbe aumentato la quota drammatica della storia, è una mancanza che si fa sentire proprio nelle fasi finali del film.
 
L’unica nota positiva è il finale aperto anche se solo appena accennato, quasi che Shyamalan non abbia voluto prendersi totalmente la responsabilità di lasciare una porticina aperta sulla sorte di un serial killer.
Peccato.
 
Comunque mi sono divertita e mi sento di consigliarvi di andare a vederlo al cinema, proprio per godere del massimo coinvolgimento possibile.
 
Buona visione!
 
Di Carla (del 02/09/2024 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 436 volte)
Il film “Lola” (disponibile su RaiPlay) è un mockumentary, cioè un documentario finto, di fantascienza basato sul ritrovamento di un filmato misterioso relativo a un passato alternativo.
 
Le protagoniste di Lola
 
Le protagoniste sono due sorelle, Tomasina e Martha, che nel 1938 ereditano dal padre un’apparecchiatura (chiamata Lola, come la madre) in grado di captare le trasmissioni radio e televisive del futuro. Inizialmente la utilizzano per divertimento, ma poi pensano che possa tornare utile per fornire informazioni alla propria patria dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
Il problema è che, così facendo, finiranno per modificare quello stesso futuro con conseguenze catastrofiche.
 
Non vi dico altro. Il film in sé dura molto poco, appena 75 minuti, ma vi assicuro che è una vera chicca, sia come idea che come è stato strutturato.
All’inizio può essere un po’ straniante seguire la storia con tutti questi filmati in bianco e nero, in parte danneggiati, ma poi ci sia abitua. E si rimane affascinati dal modo in cui viene mescolato il girato del film con filmati reali dell’epoca.
 
Non è semplicemente una storia ucronica, poiché a essa si aggiunge l’uso dei paradossi temporali, che di solito vediamo nelle storie in cui si viaggia nel tempo. Qui però a viaggiare non sono le persone, bensì le trasmissioni radiofoniche e televisive.
 
Buona visione!
 
Di Carla (del 19/08/2024 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 204 volte)
L’ultima vendetta” è un film di Robert Lorenz e con Liam Neeson.
 
I protagonisti del film L'ultima vendetta
 
La storia, ambientata nel 1974 durante i “Troubles” in Irlanda del Nord, è quella di Finbar Murphy, un vedovo che conduce un’esistenza tranquilla in una cittadina costiera, tra il pub, le gare di tiro con l’amico poliziotto (Ciarán Hinds) e le chiacchierate con la vicina di casa.
Ma Finbar è in realtà un killer su commissione che ne ha abbastanza di questo lavoro e vuole andare in pensione. Dovrà però rimandare la sua intenzione a causa dell’arrivo in città di un gruppo di terroristi dell’IRA che si sono appena resi colpevoli di un attentato a Belfast, in cui, per errore, sono morti anche dei bambini.
 
Siamo abituati a vedere Neeson in storie di azione dove c’è di mezzo una vendetta e probabilmente questo è il motivo per cui è stato scelto questo titolo in italiano. L’originale era “In the Land of Saints and Sinners” (nella terra di santi e peccatori), che invece rende molto meglio l’anima drammatica della storia e il desiderio di redenzione di cui è impregnata.
In essa si uniscono, infatti, uno sguardo attento a un periodo storico ben particolare, le ambientazioni suggestive dell’isola di smeraldo e l’elemento di azione e violenza legato al tema del terrorismo e alla figura di vendicatore del protagonista.
Il tutto è così ben misurato, che ne viene fuori un’opera gradevole e per niente scontata nello sviluppo e nella conclusione.
 
Il risultato è poco meno di due ore di ottimo cinema, che passano in un batter d’occhio nel seguire le vicende di una serie di personaggi imperfetti, tutti però ben costruiti e credibili, attraverso una storia che, una volta conclusa, lascia lo spettatore con un dolceamaro senso di soddisfazione.
 
Bello davvero!
Ve lo consiglio.
 
Old
Di Carla (del 15/08/2024 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 379 volte)
Old” è un film di M. Night Shyamalan del 2021.
A suo tempo sono andata a vederlo al cinema con poche aspettative. Mi sono semplicemente affidata al regista nella speranza di passare un bel pomeriggio.
La storia racconta di un gruppo di persone che, durante una vacanza, rimangono bloccate in una spiaggia dove invecchiano velocemente (ogni mezz’ora è come un anno di vita).
 
Alcuni dei protagonisti del film si abbracciano sulla spiaggia
 
Devo dire che mi è piaciuto. L’ho trovato estremamente inquietante, ma non mi maniera fastidiosa. Ero più curiosa di sapere come sarebbe andata a finire che preoccupata per la sorte dei personaggi.
 
Il film ha una struttura da horror, con la classica escalation di morti, ma con la differenza sostanziale che non è la paura fine a se stessa (né tanto meno il senso di orrore) lo scopo della storia. La minaccia di invecchiare, e poi morire, è un nemico che agisce in maniera più sottile sulla psicologia già minata da altri problemi (di salute, mentali o familiari) dei personaggi. E poi dietro gli eventi che costituiscono la storia ci sono delle motivazioni che danno luogo al classico colpo di scena finale dei film di Shyamalan.
 
Ammetto che l’ho trovato per certi versi meno potente di quello di altre sue opere, anche perché non sono mai riuscita sospendere del tutto l’incredulità davanti a ciò che stava avvenendo. Però l’aspetto più interessante del film è proprio il modo in cui sono state sviluppate le dinamiche tra i personaggi, che si ritrovano a crescere o a invecchiare in poche ore, e ciò cambia completamente la loro prospettiva rispetto a quelli che consideravano i problemi della loro vita.
 
Bravi gli attori (tra cui Vicky Krieps, già vista nella serie “Das Boot” e nel film “Il filo nascosto”, e una vecchia conoscenza come Rufus Sewell). Molto convincente il trucco dei personaggi adulti che invecchiano, come pure le scelte di casting sui bambini che crescono durante il film. Alcuni dialoghi non sono proprio il massimo, come pure alcune scelte dei personaggi sono un po’ tirate per i capelli, sia in negativo (tipico delle storie horror) che in positivo, ma nel complesso ho passato quasi due ore di puro svago, per cui non posso lamentarmi.
 
Anzi, se vi capita, vi consiglio di fare altrettanto.
 
Di Carla (del 12/08/2024 @ 10:30:00, in Cinema, linkato 288 volte)
Uno degli ultimi film che ho visto al cinema è “Cult Killer” di Jon Keeyes con Antonio Banderas e Alice Eve.
Si tratta di un thriller caratterizzato da cupe atmosfere noir che racconta dell’improbabile alleanza tra un’investigatrice e una serial killer accomunate da un passato di abusi.
 
Mi è davvero difficile dirvi qualcosa sulla storia senza anticiparvi troppo. Io stessa sono andata al cinema dopo averne letto la breve descrizione e mi è dispiaciuto averlo fatto, perché mi ha tolto la sorpresa relativa a un evento che accade proprio nella prima parte del film.
 
Alice Eve in Cult Killer
 
Vi basti sapere che ha come protagonista Cassie Holt, interpretata da Alice Eve (che probabilmente ricorderete anche in “Star Trek Into Darkness”), un’investigatrice che gestisce insieme a Mikeal Tallini, interpretato da Banderas, un’agenzia che talvolta collabora con la polizia. Tallini l’ha salvata dall’alcolismo cinque anni prima e rappresenta per lei qualcosa di simile a una figura paterna.
Nel film si raccontano in parallelo le indagini sul caso della serial killer e, attraverso una serie di flashback, la storia di Cassie e Tallini, come si sono conosciuti, come si è sviluppata la loro amicizia e il loro rapporto lavorativo, ma anche episodi del passato di abusi subito da lei, che l’aveva portata a un passo dal baratro prima che incontrasse l’investigatore.
Ho amato moltissimo questa scelta, che ci permette di scoprire poco alla volta ciò che è accaduto nel passato e di conseguenza di comprendere meglio ciò che sta accadendo nel presente.
 
Il tutto ha luogo in un’Irlanda in cui si muovono personaggi malvagi e corrotti, privi di qualsiasi senso morale e di vergogna, fieri della propria malvagità, che una serial killer sta massacrando uno dopo l’altro, per vendicarsi del male indicibile che le hanno procurato.
Nel farlo, però, uccide per errore un innocente.
Ed ecco che nasce, come detto, un’alleanza improbabile tra investigatrice e serial killer contro i veri cattivi di questa storia. È però un’alleanza imperfetta, in quanto macchiata da un errore forse imperdonabile.
 
 
Questo film contiene elementi a me molto cari, tra cui un sapiente uso dei flashback e la presenza di personaggi principali con un lato oscuro, alcuni dei quali decidono di abbracciarlo mentre altri riescono a domare il mostro che vive dentro di loro.
Se piacciono anche a voi, vi consiglio di vederlo.
 
Di Carla (del 16/06/2022 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 3163 volte)
Il film è ispirato alla storia vera di Lisa Nowak, ex-astronauta della NASA che fu arrestata per aver aggredito la ragazza (anche lei astronauta) di un altro astronauta col quale aveva avuto una relazione.
 
Natalie Portman in Lucy in the Sky - © Fox Searchlight Pictures
 
Nel film la protagonista, interpretata da Natalie Portman (nella foto; © Fox Searchlight Pictures), si chiama Lucy Cola, astronauta preparatissima, che grazie al duro lavoro e all’evidente talento viene selezionata per una missione di una decina di giorni sulla ISS (Stazione Spaziale Internazionale).
 
Al ritorno però Lucy si sente cambiata. La vita di tutti i giorni sulla Terra le sembra vuota e inutile rispetto all’esperienza che ha vissuto.
Il marito, che è un PR della NASA, non è in grado di comprendere il mutamento psicologico che ha subito. E così lei, che intanto continua a addestrarsi per poter partecipare al più presto a un’altra missione, fa amicizia con Mark Goodwin (interpretato da Jon Hamm, quello di Mad Men), anche lui astronauta (divorziato e con due figlie piccole), e con altri due colleghi, trovando in loro per la prima volta delle persone che condividono il suo stesso stato d’animo. L’amicizia di Mark, in particolare, sfocia in una relazione, in cui però lei pare più interessata di quanto lui non lo sia.
Non posso dirvi altro per evitare lo spoiler, in quanto la storia cinematografica, nonostante abbia lo stesso finale di quella vera, dà una propria interpretazione agli eventi successivi.
 
Devo dire che il film mi è piaciuto molto, e sono abbastanza stupita di aver trovato solo recensioni negative sul web. Credo che si tratti di una bella analisi psicologica del personaggio offerta al pubblico sfruttando molto bene le potenzialità del cinema. A questo proposito, le scelte del regista sono molto particolari. Per esempio, lo è quella di modificare di continuo il rapporto di formato dell’immagine, soprattutto per mettere in contrasto la visione espansa (dello schermo cinematografico) dell’essere nello spazio, o anche solo del vivere situazioni che riportano il suo pensiero a quell’esperienza, ai 4:3 televisivi usati per narrare quella quotidianità insulsa in cui Lucy non riesce più a trovarsi.
 
Ma a essere particolarmente bello è proprio il suo personaggio e il modo in cui la Portman lo ha impersonato.
Ho provato molta empatia nei suoi confronti. Per quanto il suo comportamento finale sia stato ovviamente esagerato (e comunque non sembra corrispondere ai fatti reali), ho potuto capire l’esasperazione che ha provato nel sentirsi sola e tradita come donna in un mondo di uomini che la accusano di essere “troppo emotiva” (proprio lei che nel suo lavoro è precisa e fredda come nessuno di loro sa essere), nell’aver perso tutto ciò che per lei contava (tornare nello spazio e una persona di famiglia a lei molto cara).
Credo che chiunque ha avuto delle grandi delusioni nella vita (nell’ambito privato o professionale) possa comprendere lo stato d’animo di chi, avendo raggiunto l’apice di qualcosa, mal si adatti al ritorno alla “normalità”, come se si sentisse un alieno intrappolato in un mondo monotono e insignificante.
 
Insomma, è stata una bella visione.
 
Di Carla (del 28/09/2016 @ 15:49:46, in Cinema, linkato 3657 volte)

Siccome è un film tratto da un videogioco le mie aspettative non erano altissime. Ho deciso di vederlo, perché i film d’azione con alto tasso di morti ammazzati sono divertenti e questo, in particolare, vede il confronto tra due attori interessanti: Rupert Friend, che ho già apprezzato in “Homeland”, e Zachary Quinto, che da luglio si è installato in pianta stabile sullo sfondo del mio computer nelle vesti di Spock.
 
Friend è già avvezzo al ruolo di killer. In “Homeland” era un agente operativo della CIA che più di una volta era stato inviato a uccidere qualche obiettivo strategico. La sua espressione glaciale, che in “Hitman: Agent 47” viene accentuata dalla rasatura dei capelli e l’abbigliamento impeccabile, gli conferisce l’aspetto di assassino programmato e quindi privo di emozioni. Di certo non è in questo ruolo che possiamo apprezzare al meglio le sue abilità recitative, ma nei panni dell’agente 47 è assolutamente perfetto.
 
Quinto, che qui si ritrova a interpretare il ruolo dell’antagonista John Smith, per quanto il film in sé non richieda particolari doti recitative, mostra comunque la propria bravura. Il suo personaggio modifica il proprio atteggiamento nell’arco del film e Quinto riesce a rimarcare questo cambiamento, dandoci quasi l’impressione di trovarci di fronte a un nuovo personaggio. Gli basta davvero poco. La sua espressività è tale che una minima alterazione nelle linee del volto e nello sguardo gli conferiscono un’immagine completamente diversa agli occhi dello spettatore.
 
Spettacolari sono gli scontri, spesso a mani nude, tra i due, tanto che quasi senti dolore al loro posto per quante ne prendono o per i voli che fanno. Ovviamente se la cavano al massimo con qualche graffio. Per non parlare poi delle sparatorie perfettamente coreografate. In entrambi in casi mi sono ritrovata più volte a ridere da sola per quanto fossero divertenti.
 
 
Il film include anche un terzo personaggio principale, Katia van Dees, interpretata da Hannah Ware, ma devo ammettere che (forse perché io sono donna) ho appena notato la sua presenza!
 
È chiaro che non stiamo parlando di un film che pretende di apparire minimamente plausibile. È la trasposizione di un videogioco e ne ricalca il suo essere sopra le righe, ma a ciò si aggiungono ottimi effetti speciali che conferiscono una notevole realisticità alle dinamiche delle scene, anche quelle più splatter, senza provocare, però, alcuna particolare forma di orrore o disgusto, proprio come avviene nei videogiochi, poiché mantengono chiaro nella mente di chi le guarda che ci troviamo nell’ambito della finzione.
 
Hitman: Agent 47” è il secondo film della serie “Hitman”. Il primo, “Hitman - L’assassino”, è uscito nel 2007. Ma potrebbe non essere l’ultimo. Un indizio a questo proposito è dato dalla piccola scena incastrata all’interno dei titoli di coda, ma non vi dico altro per evitare di rovinarvi la sorpresa.
 
Di Carla (del 14/09/2016 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 4425 volte)

Come sarà capitato a molti di voi, ho avuto modo di conoscere per la prima volta la bravura di Jean Dujardin grazie alla sua interpretazione di George Valentin in “The Artist”, che gli è valsa il premio Oscar come miglior attore protagonista nel 2012. L’ho poi rivisto anni dopo in un ruolo drammatico in “French Connection”, altro film che ho apprezzato tantissimo.
In “Un amore all’altezza”, grazie agli effetti speciali, Dujardin si trova a interpretare addirittura il ruolo di una persona affetta da nanismo in una commedia a tratti esilarante che però spinge anche a riflettere.
 
Le sue qualità come attore sono ancora una volta indiscusse ed emergono ancora di più nei ruoli in cui non può sfruttare una delle sue qualità. In “The Artist” si trattava della voce e in questo film invece è la bellezza. Sì, perché Dujardin è indubbiamente un bell’uomo e riesce a mantenere intatto il proprio fascino anche nel ruolo di Alexandre, che raggiunge appena il metro e trentasei centimetri.
 
C’è da dire che gli effetti speciali, pur abbassandolo, non hanno reso in maniera fedele le proporzioni alterate che il nanismo provoca, ma applicando una certa sospensione dell’incredulità il tutto appare abbastanza convincente, soprattutto nelle inquadrature in cui non si vede il suo corpo per intero.
 
Al di là di questi aspetti tecnici, “Un amore all’altezza” è un film davvero carino.
 
 
Be’, i protagonisti sono tutt’altro che dei poveracci. Alexandre è un architetto di grido che vive in una villa con tanto di piscina insieme al figlio sognatore e ambizioso, che per il momento dipende economicamente da lui (ma è destinato al successo). Diane (interpretata dall’attrice belga Virginie Efira) è invece un’avvocatessa proprietaria di uno studio insieme all’ex-marito.
Tutto il contesto in cui si muovono è molto cinematografico: le feste, i vernissage, il paracadutismo (che pare quasi un gioco da ragazzi che potrebbe praticare chiunque), case che sembrano regge, i locali segreti e così via.
 
La distribuzione e i tempi della gag sono assolutamente perfetti, tanto che il film scivola via veloce tra una risata e l’altra.
Alexandre potrebbe essere il classico principe azzurro, affascinante, simpatico, di successo, ma gli mancano almeno quaranta centimetri a raggiungere la perfezione, quaranta centimetri che pesano parecchio.
Nonostante certi aspetti abbastanza volutamente irrealistici della trama, è facile calarsi nei panni di Diane, che pur innamorata di Alexandre, soffre il giudizio degli altri.
Infatti, può essere facile dire che l’amore permette di superare tutti gli ostacoli, ma nella realtà stare al fianco di qualcuno che è diverso crea molti problemi. Ignorarli e fingere che non abbiano un peso non li fa scomparire, ma ciò che questa piccola chicca cinematografica prova a trasmettere è che bisogna essere consapevoli e trovare insieme il modo di affrontarli giorno per giorno, come dovrebbe sempre succedere tra due persone che decidono di condividere la propria vita.
Certo, se poi si è ricchi come i protagonisti di “Un amore all’altezza” è indubbiamente più semplice!
 
Si tratta di un film, in altre parole, che unisce una riflessione non banale e situazioni comiche, rese magnificamente dalla bravura di tutto il cast (non solo dei due protagonisti).
Si esce dalla sala rinfrancati e di buonumore, ma senza aver del tutto spento il cervello per un centinaio di minuti.
 
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