Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Uno dei modi più comuni per scoprire il colpevole di un delitto, nella finzione, è fargli trovare addosso, o magari sulla sua auto, una minuscola prova fisica che lo colleghi senza dubbio alla scena o, meglio ancora, alla vittima. Oppure trovare una prova (sempre unica e piccolissima) sulla scena, o sulla vittima, che sia collegabile con certezza a un sospettato.
Sembra facile individuare tali prove (Abby Sciuto di “ NCIS”, nella foto accanto, lo fa di continuo) e, quando accade, questa scoperta diventa quasi schiacciante, spesso spingendo lo stesso sospettato alla confessione.
È classico l’esempio della vernice ritrovata su un’auto spinta fuori strada da un’altra. Che in seguito a un impatto violento dall’auto che ha colpito si possa trasferire un po’ di vernice è abbastanza comune, anzi succede quasi sempre. Pensate a tutte le volte che avete trovato un regalino sul paraurti della vostra auto da parte di qualcuno che si è appoggiato per parcheggiare o ha preso male le misure nell’uscite da un parcheggio.
Ma è davvero possibile risalire al modello e l’anno di fabbricazione dell’auto? In genere no, poiché le stesse vernici molto diffuse vengono usate in modelli diversi, spesso marche diverse, in periodi diversi e, anche ammesso che si stabilisca il tipo di vernice (oltre al colore, intendo), ciò non restringe più di tanto il campo della ricerca. L’unica eccezione si osserva se si ha a che fare con qualche vernice molto rara usata in un altrettanto raro veicolo, per esempio una serie limitata o un auto d’epoca con la vernice originale di cui esistano solo pochissimi esemplari. Di solito qui salta fuori un fantascientifico database che come per magia da un frammento di vernice analizzato con una ricerca che dura al massimo cinque minuti tira fuori la foto dell’auto che, guarda caso, è talmente rara che pochissime persone in tutta la città (e parliamo spesso di grosse città o addirittura metropoli, tipo New York) ne hanno una, tra cui un potenziale sospettato che mostra un altro piccolissimo legame con la vittima.
Il gioco è fatto: un tenue legame con la vittima più la vernice uguale a quella della sua auto e il sospettato crolla.
“Sì, l’ho uccisa io!”
Certe volte mi chiedo come mai questi criminali siano così maldestri o tanto sfortunati da usare dei veicoli rari per compiere i propri misfatti.
Queste eccezioni sono talmente inusuali nella realtà che non avvengono (quasi) mai. Di solito riuscire anche a risalire al colore e forse alla marca dell’auto costituisce solo un elemento in più per avvalorare i sospetti su una determinata persona, ma non aggiunge alcuna certezza.
Esiste però un caso in cui la vernice può essere importante e costituire una prova inconfutabile: quando un’auto è stata riverniciata diverse volte e si ritrova nella prova fisica la stessa stratificazione precisa.
Ma rimane sempre un dubbio. Siamo sicuri che il trasferimento sia avvenuto proprio durante il crimine e non in precedenza? Il più delle volte non lo siamo.
Questo è il problema che affligge qualsiasi tipo di residuo, che si tratti di vernice, vetro, terriccio e persino quello da sparo: non possiamo stabilire il momento preciso in cui si è depositato.
Pensiamo al vetro. L’assassino ha rotto un vetro per penetrare nella casa della vittima. Il sospettato ha un minuscolo frammento di vetro addosso. È il colpevole? Supponendo anche che il vetro sia dello stesso tipo, potrebbe anche essere qualcuno che è stato sulla scena dopo il crimine o magari dal vicino di casa, nello stesso edificio, cui si è rotto un vetro uguale.
Anche qui, come nella pittura, vale il caso di tipologie molto rare del materiale, ma rientriamo a tutti gli effetti nel colpo di fortuna.
E il terriccio? Be’, nelle serie TV come “ CSI” non è inusuale che da microgranelli di terriccio presenti sotto la suola delle scarpe o sui vestiti di una vittima arrivino a scoprire con esattezza la scena primaria del delitto. Salta sempre fuori qualche polline di pianta esotica che cresce solo in un unico luogo nel raggio di centinaia o migliaia di chilometri, dove, nonostante dimensioni di svariati ettari, i nostri investigatori trovano in breve tempo altre mille prove fisiche per scoprire il colpevole. Ovviamente esiste un database apposito con tutti i pollini: basta che fai una banale ricerca per immagine. Mai una volta che si tratti di comunissimo terriccio o che il luogo d’origine sia così vasto da essere un vicolo cieco o che salti fuori che è finito sulla vittima in seguito a una catena di comunissime contaminazioni che non porta assolutamente a nessun risultato.
E poi ci sono i residui da sparo.
Quando si spara, dall’arma viene espulsa una nuvoletta di residui che contengono elementi come antimonio, bario e piombo, con una composizione in genere specifica per una certa arma con un certo tipo di pallottole.
Se una persona è stata uccisa con una certa arma, che è stata ritrovata, e sulla mano del sospettato viene rinvenuto lo stesso residuo da sparo da essa prodotto, è molto probabile che sia stato lui a tirare il grilletto.
Se ha usato i guanti? Be’, i residui potrebbero comunque essere finiti sui suoi vestiti, solo che in questo caso non ci sarebbe la certezza che abbia sparato. Potrebbe anche essersi trovato nelle vicinanze, mentre qualcun altro sparava, oppure addirittura essere entrato in contatto con l’assassino in un secondo momento e non avere nulla a che vedere col delitto. Ripensandoci, se avesse stretto la mano all’assassino poco tempo dopo lo sparo, anche lui potrebbe avere gli stessi residui da sparo, pur non essendo il colpevole. La cosa si fa ancora più complicata, se abbiamo a che fare con persone che usano le armi abitualmente e sono sottoposte da contaminazioni multiple da residui.
Insomma, tutte queste prove fisiche che vengono usate spessissimo nella finzione (e a noi piace tanto quando lo fanno) per inchiodare il colpevole, nella realtà il più delle volte sono totalmente inutili o quasi.
Ma nella finzione ci divertono eccome e noi autori di crime fiction ci sguazziamo alla grande. Per esempio, ho accennato a dei residui da sparo nel secondo capitolo de “ Il mentore”, nel quale il detective Shaw induce un uomo sospettato di essere un killer su commissione a confessare uno degli omicidi, dopo averlo incastrato con delle false impronte sull’arma del delitto. Il sospettato, un certo Damien Johnson, viene indotto a pensare di non poter dimostrare la propria innocenza (c’è anche il fatto che non è innocente) poiché, anche se durante il delitto portava dei guanti e quindi non avrebbe potuto lasciare impronte, aveva usato un’arma di recente durante il suo lavoro di guardia giurata e quindi il residuo da sparo insieme alla falsa prova lo inchiodava. Per confutarla avrebbe dovuto dire di aver usato i guanti, ma quella sarebbe stata comunque una confessione. Eric sa che i due residui potrebbero non combaciare, ma Johnson, che sa di essere colpevole, è talmente risentito per essere stato incastrato che non ci pensa neppure (magari neppure sa che i residui possono avere composizioni diverse: d’altronde non è mica un criminologo!) e decide di patteggiare. La storia poi continua velocemente, il personaggio viene messo da parte e il lettore non ci pensa più, se mai si fosse posto il problema.
Allo stesso modo nessuno si scandalizza se in “ Bones” (vedi seconda foto), quando si esamina lo scheletro della vittima (chissà perché, poi, decidono di scarnificare tutte le vittime per scoprire come sono morte, anche quelle ritrovate tutte intere, mentre in altre serie una normale autopsia è più che sufficiente), si trovi sempre soltanto una minuscola traccia incastrata in un osso (capitano tutte a loro) da cui scaturisce tutta una serie di indizi che portano all’assassino. Se ci mettessimo a riflettere su ogni singola decisione presa dai personaggi, ci accorgeremmo che ne avrebbero potute prendere tante altre che queste li avrebbero portati completamente fuori strada. Che dire? Saranno pure dei geni (e Temperance Brennan lo rimarca di continuo), ma, pensandoci bene, si direbbe che sono soltanto molto fortunati!
Sarà per questo che nella finzione i casi si risolvono in un giorno e nella realtà spesso dopo anni di indagini, anche quando pare che siano risolti, non si è mai certi di aver preso il vero colpevole?
Eh sì, anche in questo caso non possiamo negarlo: sebbene la realtà spesso superi la fantasia, la finzione è molto più divertente e, soprattutto, rassicurante.
Un giorno per sopravvivere.
Un giorno per lasciar andare il passato.
Sotto la pioggia di un’estate inglese insolitamente calda, “Affinità d’intenti” segue le vicende di Amelia Jennings, un’agente in forza alla Polizia della City di Londra da appena una settimana, che viene inviata dal detective Monroe a lavorare sotto copertura nello studio legale Goldberg & Associates, flagellato da una serie di omicidi, opera di un killer su commissione. La sua carriera come investigatrice, però, termina prima ancora di iniziare. Quando Amelia si reca a tenere il colloquio finale, da cui dipende la sua assunzione, e incontra nella sala d’attesa un concorrente, Mike Connor, la sua unica preoccupazione è che quell’uomo possa sottrarle il posto di lavoro, vanificando gli intenti della sua squadra. Ma neanche cinque minuti dopo quella stessa sala diventa teatro di una sparatoria. Amelia, contravvenendo agli ordini del proprio capo, si getta all’inseguimento del killer e da questa scelta avventata scaturisce una serie di eventi che la portano a cambiare radicalmente la propria vita nel giro di appena ventiquattro ore. Tra rapimenti, uccisioni, incidenti stradali non precisamente accidentali, inseguimenti, sparatorie, esplosioni, la seguiamo in una calata all’inferno, in cui per sopravvivere dovrà capire di chi può fidarsi. Dotata di autoironia e di una fervida immaginazione, Amelia cercherà di venire a capo di ciò che le sta accadendo e, nel farlo, stempererà la drammaticità delle sue peripezie con riflessioni divertenti e fantasiose, e spesso ammiccanti. Al suo fianco c’è Mike, un uomo che pare più avvezzo di lei a essere bersaglio di una squadra di killer. Sebbene possano apparire due persone quasi opposte, nel corso di questa avventura Amelia e Mike scopriranno di avere qualcosa in comune.
L’edizione acquistabile su Google Play è in ePub senza DRM e quindi leggibile su qualsiasi dispositivo (incluso Kobo e iPad).
È inoltre disponibile in edizione cartacea (a 7,99 euro) su Amazon e Giunti.
A partire dal 1° agosto il prezzo su Amazon, Giunti e Google Play salirà a 2,99 euro.
Di Carla (del 18/07/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3897 volte)
Ingenuo cliché
Dovrei dire che la recensione contiene qualche anticipazione sulla trama, ma in realtà quest’ultima è talmente scontata che non credo che sia necessario.
Partiamo dai pochi aspetti positivi del romanzo.
La prosa è sicuramente molto bella e pulita, ed è esaltata da una buona traduzione. L’autrice ha un’ottima gestione del punto di vista della protagonista e nel complesso il testo ti porta a una lettura veloce, anche se devo confessare che ho avuto fretta di finirlo pur di liberarmene al più presto.
Ma, nonostante le ottime doti tecniche, la storia è soltanto un ingenuo cliché.
L’inutile prologo fa capire subito come si svolgerà la storia e come finirà: anticipa la morte del bambino (cosa che poi effettivamente avviene a circa l’80% del romanzo), che lei è sola e che c’è qualcosa di strano che riguarda il marito.
Tutto il resto si chiarisce nei primi capitoli.
Jenny, la protagonista, è assolutamente non credibile. Quando mai una madre single, divorziata, che quindi ci è già passata, a New York (mica in un paesino di zotici), si fida subito del primo tipo che si interessa a lei? Anzi, dovrebbe dubitare di questo interesse subitaneo. Lui le chiede di sposarla dopo una settimana! Qualunque donna sarebbe scappata a gambe levate e una come lei, che ha due figlie, più veloce di qualunque altra. Questa poca credibilità la rende un personaggio fastidioso per la sua eccessiva stupidità, debolezza e per la totale mancanza di carattere.
Il fatto che la storia sia ambientata negli anni ’80 può giustificare la trama trita a ritrita (al tempo lo era un po’ meno), ma non la sua pessima esecuzione e i suoi personaggi bidimensionali.
Lui ha un’aria sinistra già da subito. Dopo aver letto il prologo, viene naturale dubitare subito di lui, tanto più per via del suo modo di essere invadente e prevaricante con una donna appena conosciuta e cui si interessa perché è quasi identica alla madre morta, altro motivo per cui qualunque persona sana di mente sarebbe fuggita subito da lui.
I tentativi dell’autrice di confondere la carte e far dubitare della protagonista falliscono miseramente. Non una volta è riuscita a sviarmi dalla convinzione, maturata dal primo momento che ho incontrato Erich nel primo capitolo, che ci fosse qualcosa di sbagliato in lui, che fosse lui la causa di tutto. L’inserimento tardivo di elementi di dubbio sembra un arrampicarsi sugli specchi e la tendenza della protagonista a dare credito a essi ne dà un’immagine ancora più stupida e debole.
Il finale è scontato. E come volete che finisca una storia del genere? Dai!
La citazione velata, ma neanche tanto, a Psycho avrà fatto rivoltare Hitchcock nella tomba.
Era la prima volta che leggevo un libro della Higgins Clark e, senza dubbio, sarà l’ultima.
Ecco una lista di articoli, recensioni, citazioni e interviste relative a “ Il mentore”. L’elenco verrà aggiornato man mano che nuovi articoli verranno pubblicati.
Il thriller italiano che conquista Inghilterra e Usa, su La Repubblica (11 ottobre 2015):
IL MENTORE di Rita Carla Francesca Monticelli: l'autrice non si smentisce, sul blog di Barbara Reishofer:
“Il mentore”, il nuovo libro di Rita Carla Francesca Monticelli, La Provincia del Sulcis Iglesiente:
“Il mentore”: vendetta consumata a Londra, romanzo di Rita Carla Francesca Monticelli, su La Gazzetta del Sulcis-Iglesiente, numero 688, 4 settembre 2014:
L'ebook della scrittrice sarda Carla Monticelli è un bestseller su Amazon (citato anche in prima pagina), su La Nuova Sardegna:
Scrittrice sarda scala la classifica di Amazon, su Il Tirreno:
Editori addio, col self publishing Rita Carla Monticelli è una bestseller su Amazon, su Tiscali News:
La stella di Carla brilla nella galassia del self-publishing, su Amazon.it:
Scrittrici italiane che scalano gli USA con un ebook, su L’Eco di Bergamo (10 gennaio 2016):
Autrice sarda domina le classifiche di Amazon negli Stati Uniti, Regno Unito e Australia: il thriller “The Mentor” di Rita Carla Francesca Monticelli, su Tottus In Pari:
Pieno successo del thriller “The Mentor” di Rita Carla Francesca Monticelli, su La Gazzetta del Sulcis-Iglesiente, numero 741, 22 ottobre 2015:
L’autrice sarda Rita Carla Francesca Monticelli è ai vertici delle classifiche di Amazon negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Australia, su La Provincia del Sulcis Iglesiente:
Il successo de “Il mentore” e il futuro di AmazonCrossing in Italia, su Penne Matte:
Il thriller “The Mentor” di Rita Carla Francesca Monticelli, su Sarda News:
L'autrice Rita Carla Francesca Monticelli domina le classifiche di Amazon negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Australia, su Sardegna Reporter:
Il futuro dell’editoria, nell’era degli “e-book”, su VareseNews:
Hai pubblicato un ebook e vuoi tradurlo? Le strade da seguire, su Wired:
Quali sono i 10 nuovi migliori ebook italiani autopubblicati?, su Wired:
Auto-editoria e no, sul blog Da dove sto scrivendo:
Recensione sul web magazine Thriller Nord:
Le recensioni di EliBì: Il mentore e Sindrome, su Women In Write:
Citazione in varie interviste ad Alessandra Tavella, acquisitions editor di Amazon Publishing Italia, su:
“Il mentore” è disponibile in formato ebook a partire da 2,99 euro su: Amazon, Giunti, Kobo, Mondadori Store, laFeltrinelli, iTunes, Google Play, Nook (tramite l’ app per Windows), 24Symbols e Smashwords. Disponibile inoltre in brossura a 7,99 euro su Amazon e Giunti.
Da appassionata di crime thriller, sia come autrice che lettrice e spettatrice, sono sempre stata incuriosita dal modo in cui la realtà delle procedure investigative, in particolare per ciò che riguarda la scienza forense, viene reinterpretata nella finzione per presentarla in una maniera comprensibile e in grado di intrattenere il pubblico. Una cosa che ho sempre notato è che chiunque sia il protagonista della storia, che si tratti di un detective, un medico legale, un criminologo, un pubblico ministero, un avvocato o addirittura un antropologo, tale personaggio assurge automaticamente a un ruolo fondamentale nell’investigazione.
Certo, le procedure cambiano da una paese all’altro e per quanto riguarda gli Stati Uniti, frequente scenario in cui un lettore/spettatore si imbatte, addirittura da stato a stato, per cui non è assurdo pensare che a seconda della location in cui si svolge la storia le dinamiche tra le persone che lavorano per scoprire il colpevole di un qualche crimine (solitamente si tratta di omicidio) siano regolate in maniera diversa.
Ma, al di là di casi particolari, sono più propensa a pensare che questo fenomeno sia semplicemente frutto di licenze artistiche. Al di là del protagonista detective, che per definizione ha il ruolo di investigare, tutte le storie che vedono altre figure come protagonista devono per forza piegarsi al volere del proprio creatore, affinché l’azione passi attraverso il personaggio principale e quindi la storia funzioni.
Il ruolo del medico legale è uno dei più gettonati. Ricordate “ Quincy”? È una serie andata in onda sulla NBC a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 che ha come protagonista un anatomopatologo che si ritrova a indagare in prima persona in casi di omicidio. Allora ero troppo piccola, ma mi è capitato di vederla più recentemente su Sky e, nonostante l’effetto del passaggio degli anni, la trovo sempre molto avvincente.
Allo stesso filone appartengono altre serie come “ Crossing Jordan”, “ Body of Proof” o la recentissima “ Rosewood”, senza dimenticarsi di quella letteraria di Kay Scarpetta nata dalla penna di Patricia Cornwell: tutte serie in cui gli anatomopatologi o i medici legali (c’è sempre molta confusione sulla terminologia, che le traduzioni in italiano non fanno che peggiorare) si danno un sacco da fare per scoprire il colpevole, quasi fossero dei detective, e spesso rischiano la propria vita.
La figura del criminologo, invece, deve molto al franchise di CSI, che forse per la prima volta l’ha messa in luce, tanto che ha creato notevole interesse nei suoi confronti da parte dell’opinione pubblica e ha fatto crescere il numero di giovani che desiderano intraprendere questo tipo di carriera, per poi magari scoprire che è molto meno emozionante e determinante nella risoluzione di un caso di come appare in TV! A questo proposito in un articolo di due anni fa ho parlato del cosiddetto “Effetto CSI”.
Nella costante ricerca di un nuovo possibile protagonista delle investigazioni che non sia il classico detective si è arrivato persino all’antropologo forense della serie “Bones”, tratta dai romanzi di Kathy Reichs (che è veramente un’antropologa forense), dove la dottoressa Temperance Brennan insieme al resto dei colleghi del Jeffersonian Institute (che nella realtà non esiste!) di Washington risolve efferati casi di omicidio. Okay, insieme a lei c’è l’agente speciale dell’FBI Seeley Booth, ma, diciamocelo, il motore di tutto è la Brennan.
La realtà su come si svolgono le indagini su un omicidio è di certo diversa, ma ciò non ha alcuna importanza, poiché non stiamo parlando di documentari, bensì di finzione. Ciò che conta è che la storia funzioni e che il lettore/spettatore si diverta.
E, comunque, le licenze artistiche vanno ben oltre i ruoli del personaggi. Basta pensare all’ abbigliamento sulle scene del crimine. Chi ha visto anche solo una puntata di “ CSI: Miami” (nella foto a lato, Horatio Caine interpretato da David Caruso) avrà notato criminologi aggirarsi tra i cadaveri in eleganti completi (gli uomini) o impeccabili tailleur con tanto di scarpa con tacco vertiginoso (le donne). E tutto questo nella caldissima Florida. Dove sono le tute protettive, i copriscarpe, le cuffiette e tutto il resto? Il massimo che vedi loro addosso sono un paio di guanti in lattice!
Per non parlare del fatto che al momento opportuno diventano tutti perfetti tiratori o abili negoziatori oppure che è sufficiente la più insignificante prova fisica (es. la solita fibra) per inchiodare l’assassino, poiché esiste un database di tutto.
Le licenze artistiche sono, insomma, ovunque e non sempre siamo in grado di individuare il confine tra realtà e finzione. E, tutto sommato, neppure ci interessa.
Personalmente, essendo una biologa, sono affascinata delle scienze forensi, ma più che altro a livello teorico. Avendo lavorato in passato in un laboratorio universitario (anche se le mie “indagini” erano nel campo dell’ecologia, quindi decisamente molto più allegre!) so perfettamente che si tratta di un mestiere fatto di procedure lente, spesso non del tutto attendibili, costellato di ripetizioni e risultati inconcludenti, in cui si produce una marea di dati dei quali solo una piccola parte è davvero utile o comunque utilizzabile. Se le storie dovessero davvero raccontare cosa vuol dire analizzare tutte le prove presenti sulla scena di un crimine, i loro fruitori si annoierebbero a morte.
Ecco perché si arriva alla licenza artistica: nei libri, film o serie TV, ogni evento deve muovere l’azione e poco importa come si vestano i personaggi, quali sia le loro capacità o quali dovrebbero essere esattamente i loro ruoli.
Così, quando mi sono ritrovata a scrivere per la prima volta un crime thriller procedurale, “ Il mentore”, se da una parte ho cercato il più possibile di mantenere una certa logica intrinseca all’interno della trama oltre che una notevole plausibilità scientifica, di fatto da autrice sono stata io a creare le regole che governano il mondo in cui si muovono i miei personaggi.
È nata così la mia versione personale della sezione scientifica di Scotland Yard, dove i criminologi sono quasi tutti anche poliziotti (cosa che non è affatto vera nella realtà) e, come tali, non solo possiedono un’arma (la maggior parte dei poliziotti britannici non sono armati), ma la usano con estrema facilità. Inoltre, da nessuna parte specifico se stiano indossando qualche protezione particolare sulla scena, a parte i soliti guanti in lattice, ma d’altronde non dico neppure il contrario.
La stessa spiegazione del loro grado all’interno della polizia è ridotta al minimo in funzione delle necessità della trama. Per esempio, il protagonista, il detective Shaw, dirige una squadra della scientifica, ma solo nel secondo libro chiarisco che è un detective ispettore capo, poiché si accenna a una sua eventuale promozione, che poi rientrerà nella trama del libro finale della trilogia: “Oltre il limite”. Allo stesso modo nel secondo libro scopriamo che l’agente Mills è diventato sergente: il motivo è dare un’ulteriore dimostrazione del fatto che sono passati due anni.
Talvolta, inoltre, i personaggi hanno a disposizione tecnologie futuristiche da me inventate (come il programma usato da Martin Stern in “ Sindrome” per creare al computer una ricostruzione esplorabile della scena del crimine) che si affiancano a quelle reali, per le quali ho compiuto delle specifiche ricerche (la rilevazione delle impronte con la polvere nero-argento o del sangue col luminol).
Ammetto anche che solo metà di tali ricerche derivano dallo studio di tecniche e procedure usate nella realtà, attraverso un corso online che ho seguito (creato dall’Università di Leicester) e ovviamente Google, mentre l’altra metà è figlia del mio background televisivo, cinematografico e letterario.
D’altronde il lettore usa quest’ultimo come termine di confronto e, in fondo, riproporre alcuni aspetti già visti in un libro o in TV non fa altro che rafforzare la sospensione dell’incredulità e, in ultima analisi, aumentare il godimento del romanzo.
Lo scopo è quello di intrattenere e la licenza artistica è e sempre sarà un elemento essenziale nel raggiungimento di questo scopo, anche quando si parla di argomenti più rigorosi, come appunto la scienza.
Di Carla (del 13/07/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2634 volte)
Realistico, inquietante, imprevedibile
Non è un caso che Marc Elsberg venga paragonato a Frank Schätzing. Questo suo romanzo è davvero un bellissimo techno-thriller europeo, che dà molti numeri alle opere dei colleghi d’oltreoceano. La storia di un blackout esteso per tutta Europa è particolarmente inquietante poiché gli scenari descritti sono molto realistici. Non si parla del futuro, ma di qualcosa che potrebbe accadere anche in questo momento. Siamo abituati a dare per scontata la disponibilità di corrente elettrica, ma cosa accadrebbe se questa venisse a mancare per giorni o settimane? Quali sarebbero le conseguenze? Ma, soprattutto, quale o chi ne potrebbe essere la causa? Tutti questi aspetti vengono esplorati in “Blackout”. La parte tecnica è molto accurata e interessante, segno che l’autore deve aver fatto grandi ricerche (sebbene lui stesso ammetta di essersi preso diverse licenze), ma, nonostante l’abbondanza di informazioni, non è mai noiosa. Il romanzo può essere definito corale, in quanto in esso si muovono tanti personaggi, all’inizio apparentemente separati gli uni dagli altri, ma le cui vicende finiscono per convergere. E, anche se sono numerosi, Elsberg riesce a caratterizzarli bene. In particolare mi sono sentita coinvolta nelle peripezie di Piero, che è quello che potrebbe essere indicato come protagonista. La scelta di dare il ruolo di eroe a un italiano è sorprendente, essendo stata fatta da un autore di lingua tedesca (ma di nazionalità austriaca). Anzi, praticamente tutti i personaggi più positivi del romanzo non sono tedeschi, mentre questi ultimi fanno spesso la figura di quelli che sbagliano (talvolta in maniera fraudolenta) o sono troppo rigidi nelle proprie posizioni e quindi incapaci di trovare reali soluzioni. Ho letto un altro romanzo su un argomento simile, intitolato “Cyberstorm”, di Matthew Mather (autore canadese). Parlava del blocco di internet e del conseguente venir meno della fornitura di elettricità in una New York flagellata da una lunghissima tormenta di neve. Ma “Blackout” è, a mio parere, un’opera migliore poiché illustra uno scenario più realistico e soprattutto è un vero techno-thriller, in quando racconta il fenomeno del sabotaggio alla rete elettrica e di come tutti i cerchino di venirne a capo fino alla sua risoluzione. “Cyber Storm”, invece, si concentra sul dramma del protagonista che non ha idea di cosa stia accadendo e non ha nulla a che vedere con le investigazioni. Inoltre la tecnologia è solo accennata, facendo scivolare la trama nell’americanata post-apocalittica. Non c’è nulla da fare: in certi ambiti creativi gli europei hanno la capacità di uscire dai cliché, di pensare fuori dalle righe e di creare delle storie originali e dagli sviluppi imprevedibili. Mentre gli autori di oltreoceano tendono a ricadere su certi temi. Probabilmente è perché gli americani di fatto conoscono poco le altre culture (anche per motivi geografici) e finiscono per interpretare tutto attraverso la loro, mentre gli europei sono già di per sé un guazzabuglio di culture in continua interazione e che ricevono da sempre le conoscenze di quelle esterne, prendendo da ognuna diversi aspetti e creando così innumerevoli combinazioni originali. È ottima persino la traduzione, cosa più unica che rara al giorno d’oggi. Dal tedesco in un certo senso è più facile ottenere un italiano perfetto, vista la notevole somiglianza a livello di sintassi. Comunque è bello leggere finalmente un libro in italiano che non sembra tradotto. Lo stesso personaggio di Piero, un hacker di Milano, è credibile. Non ci sono le solite forzature che si vedono nelle opere di autori stranieri quando descrivono dei personaggi italiani. Infine devo dire che, pur essendo un libro molto lungo, l’ho fatto fuori in pochi giorni. Non riuscivo a smettere e non vedevo l’ora di rimettermi a leggere. Ho provato a pensare quale potesse essere un aspetto negativo di “Blackout”, in relazione ai miei gusti, ma in tutta onestà non ne ho trovato uno.
Blackout (Kindle e brossura) su Amazon.it.
Leggi tutte le mie recensioni e vedi la mia libreria su: aNobii: http://www.anobii.com/anakina/books Goodreads: http://www.goodreads.com/anakina
Nelle scorse settimane mi è stato richiesto di partecipare ad alcune interviste in relazione al mio lavoro come self-publisher e al mio ultimo libro, “Sindrome”.
Due di queste sono già state pubblicate e oggi ho il piacere di presentarvele, insieme ai siti dove sono apparse.
Le domande che mi ha posto mi hanno permesso di fare una carrellata su chi sono, cosa ho fatto in passato e cosa faccio adesso. Ho parlato della difficoltà a porre delle etichette di genere ai miei libri, di ciò che mi spinge e mi stimola a scrivere, di quali sono i libri che leggo e i miei autori preferiti (e anche il mio personaggio letterario preferito) e poi, inevitabilmente, di self-publishing, del background dei miei libri, dei miei progetti futuri, del mio rapporto con i lettori e, infine, brevemente di “ Sindrome”. In particolare mi è stato chiesto quale sia stata la parte più difficile dello scrivere questo libro.
Si tratta di un’intervista abbastanza lunga in cui mi è stato chiesto di parlare del ruolo che la fortuna ha avuto nel mio recente successo con “The Mentor” (la versione inglese de “ Il mentore” pubblicata da AmazonCrossing) negli Stati Uniti.
Dopo un po’ di notizie su di me e sulla mia recente carriera letteraria (ho pubblicato il primo libro nel 2012), ci siamo addentrate (io e l’intervistatrice) sull’argomento self-publishing in maniera abbastanza specifica. Abbiamo parlato di royalty e degli aspetti fiscali a esse legati, dei problemi dell’autoeditoria (o, meglio, degli autoeditori), sull’eventuale ruolo dei siti, blog e forum nel successo di un libro, sul perché non ho deciso di scrivere romanzi erotici per vendere di più (è stata lei a chiedermelo!), sulle doti che un autore indipendente deve possedere e sull’ effetto delle critiche. Infine ho avuto l’occasione di parlare un po’ di “ Sindrome” e delle mie opinioni sul futuro del self-publishing.
Se poi vi sono piaciute queste interviste, per favore, condividetele con i vostri amici sui social.
Ringrazio ancora una volta Cesario Picca e Shanmei per l’opportunità di parlare di me e dei miei libri sui loro siti.
Infine, vi ricordo che “ Sindrome”, il secondo libro della trilogia del detective Eric Shaw, è disponibile in ebook a partire da 2,99 euro su Amazon, Giunti, Kobo, Google Play, Mondadori Store, LaFeltrinelli, iTunes, 24Symbols (gratuito per gli abbonati) e Smashwords. L’edizione cartacea è in vendita a 10,99 euro su Amazon e Giunti al Punto.
“ Sindrome” è il sequel de “ Il mentore”, che è un bestseller internazionale con oltre 165.000 lettori in tutto il mondo. Anch’esso è disponibile negli stessi retailer.
Il libro finale della trilogia, “Oltre il limite”, uscirà nel 2017.
Ecco una lista di articoli, recensioni, citazioni e interviste relative a “ Per caso”. L’elenco verrà aggiornato man mano che nuovi articoli verranno pubblicati.
Vita da self-publisher: intervista a Rita Carla Francesca Monticelli su Clarke è vivo:
Marte oltre The Martian, ecco la fantascienza che parla italiano, intervista su Tom’s Hardware:
Umani alla conquista dello Spazio: saremo gli invasori, recensione su Tom’s Hardware:
“Per caso”, il nuovo romanzo di Rita Carla Francesca Monticelli, La Provincia del Sulcis Iglesiente:
Mettiamo tanti libri sotto l’albero, su La Rivista di LeggereOnline:
Nuovo libro per Rita Carla Francesca Monticelli, su Sardegna Reporter.it:
Terrorismo nel pianeta Thalas, fantarealtà di un altro mondo, Gazzetta del Sulcis-Iglesiente, n° 749, 17 dicembre 2015
Recensione sul blog Giochi di parole... con le parole:
“ Per caso” è disponibile in formato ebook a partire da 2,99 euro su: Amazon, Kobo, Mondadori Store, laFeltrinelli, Giunti, Google Play, Apple, Nook (tramite l’ app per Windows), 24Symbols e Smashwords. Disponibile inoltre in brossura a partire a 7,99 euro su Amazon e Giunti.
Di Carla (del 08/07/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3373 volte)
Geniale distopia d’altri tempi
Non vado matta per i romanzi distopici contemporanei, mentre mi ritrovo sempre più spesso ad apprezzare questo sottogenere della fantascienza quando si tratta di libri di qualche decennio fa, destinati a diventare dei classici. L’inevitabile anacronismo di certi elementi della trama dona a “Il sistema Dayworld” di Farmer un fascino particolare e un’originalità che stento a vedere nelle storie più recenti.
Nello specifico in questo romanzo si tratta l’argomento dell’animazione sospesa da un’angolatura diversa da quella per cui si presume che tale tecnologia del futuro debba essere usata: per combattere la sovrappopolazione. Siccome nel mondo ci sono troppe persone, si decide di far loro vivere un solo giorno alla settimana, riducendo a un settimo il numero degli individui attivi sul pianeta. Questa idea folle è alla base della storia di Jeff Caird, un “violagiorno”, cioè una persona che, invece di vivere un solo giorno alla settimana, li vive tutti, calandosi in sette identità diverse. E qui salta subito fuori un secondo elemento geniale: Caird ogni giorno cambia nome, vita, ma anche personalità. Ognuna delle sue sette versioni è un personaggio distinto, cosa che è evidente anche al lettore, e ha persino difficoltà a “connettersi” con le sue altre versioni.
Come se non bastasse avere un protagonista che vive sull’orlo della follia a causa delle presenza di ben sette personalità nella sua testa, Caird (e tutti gli altri) è un ribelle del sistema che finisce per ribellarsi a chi vuole rovesciare il sistema. E proprio per questo motivo rischia di essere ucciso, mettendo in luce che nessuna delle due parti è veramente “buona”.
La struttura del libro, in cui vediamo una dopo l’altra mostrarsi a noi tutte le declinazioni del protagonista, è un meccanismo perfetto, che riesce comunque a coinvolgere il lettore, nonostante i continui cambi di prospettiva.
Inoltre, anche se sono trascorsi più di trent’anni dalla pubblicazione di questo romanzo, esso regge bene il passaggio del tempo. Gli anacronismi non sono eccessivi e talvolta potrebbero anche essere visti come una naturale regressione.
Molto belle ed emozionanti le scene d’azione, totalmente imprevedibili gli sviluppi compreso il finale, che è impossibile da prevedere.
Nel complesso è davvero un bel libro, il primo di una trilogia che si prospetta molto godibile.
Ho, invece, qualche perplessità su alcune scelte di traduzione dell’edizione italiana. Il traduttore, per esempio, si sofferma a spiegare in una nota il significato di “immer” e di “pathos e bathos”, anche se nel testo originale non è specificato, ma non traduce Jacob e Israel in Giacobbe e Israele, quando viene citato un episodio biblico. Un altro aspetto che stona è la scelta di non localizzare le unità di misura. Ciò è problematico, visto che sono ampiamente utilizzate, quindi risulta quasi incomprensibile per chi non conosca la lunghezza dei piedi o delle iarde (stranamente tradotte con “yarde”!) avere una corretta impressione delle distanze, soprattutto nelle concitate scene d’azione nell’ultima parte del libro.
Ho impiegato quasi un anno per scrivere questa prima stesura, anche se in realtà, togliendo i periodi di pausa (in cui ho pubblicato “ Per caso”, scritto e pubblicato “ Sindrome” e tradotto in inglese “ Affinità d’intenti”), il lavoro effettivo è durato circa quattro mesi e ciò che ne è venuto fuori è il romanzo più lungo che abbia scritto finora. Ben 136 mila parole, che superano anche se solo di mille quelle de “ L’isola di Gaia”.
Al di là delle tempistiche e della lunghezza questo è stato senza dubbio il libro che ho avuto più difficoltà a scrivere. Si potrebbe pensare che scrivere dei sequel sia più semplice, perché si lavora su un universo e con dei personaggi già conosciuti. Io, invece, lo trovo molto faticoso. Avere a che fare con un universo noto e con una trama che deve per forza andare in una certa direzione (considerando che questo libro è cronologicamente inserito tra le prime due parti del ciclo) pone troppi paletti che ingabbiano la mia creatività, la quale vorrebbe essere libera di vagare e sviluppare la storia come meglio crede. Ho sudato su ogni singola parola scritta, anzi, ho sudato prima ancora di scriverla. La cosa più difficile era proprio riuscire a calarsi, contro la mia stessa volontà, nei personaggi e nella ambientazioni e mettere nero su bianco quelle dannate scene.
Lo ammetto: mentre lo scrivevo, ho odiato profondamente questo libro.
Per rendermela più semplice, ho deciso di dividerlo in tre parti e dedicare a esse tre separate sessioni di scrittura. Avere un obiettivo non eccessivo di parole da raggiungere, senza l’assillo di completare per forza la storia, mi ha permesso di riuscire comunque a fare il mio lavoro. Anche se la terza parte è stata la più dura, poiché in quel caso la storia la dovevo proprio finire!
Questa esperienza mi ha però fatto scoprire che sono perfettamente in grado di scrivere anche se non ne ho voglia. E direi pure di scrivere bene.
Alla fine di ogni parte, dopo un periodo di pausa, quando mi sono messa a rileggerla, ho scoperto che mi piaceva. Non solo era scritta bene (come può essere scritta bene una prima stesura), ma i personaggi che sentivo così lontani, come per magia, prendevano vita e riuscivo a emozionarmi con loro, anche se sapevo come sarebbe andata a finire.
Me ne sto accorgendo ancora di più in questo preciso momento, a poche ore dalla fine della rilettura dell’ultima parte del libro.
Quando due settimane fa ho finito di scriverlo, pensavo che quest’ultima parte avrebbe avuto bisogno di un maggiore lavoro durante la fase di editing, poiché mentre la scrivevo, con grande sforzo, avevo la percezione che la mia scrittura fosse diventata arida, per cui ero costretta a impegnarmi più di quanto non avessi fatto in passato per creare le singole scene. Nel rileggerla, invece, mi rendo conto che questa mia fatica non è affatto visibile.
Non avete idea di quale sollievo sia questa scoperta!
Sapete, noi scrittori viviamo immersi nei dubbi. Ci facciamo mille domande. La storia funziona? Riuscirò a trasmettere ciò che volevo al lettore? Il mio stile manterrà il livello dei miei libri precedenti?
Dopo che scrivi undici libri, la domanda “Riuscirò a finire questo libro?” non te la poni più, perché la risposta è senza dubbio sì, ma le altre restano.
Ecco, adesso, l’aver portato a termine “Ophir”, nonostante quanto mi sia risultato faticoso farlo, mi permette di rispondere con un chiaro “sì” anche alle altre domande. Per uno scrittore i dubbi sono normali, ma si dice che chi ha esperienza sappia che non hanno niente a che vedere con il risultato. Be’, ora credo di averne avuto l’ennesima clamorosa conferma.
Non so se ciò mi impedirà di pormi ancora quelle domande in futuro (magari no), ma forse ripensare a questo momento mi permetterà di rispondere a esse e affrontare i prossimi libri con maggiore sicurezza. E magari godermi un po’ più la fase creativa.
Questo lo scoprirò fra qualche mese, per ora tutto ciò che mi aspetta, a partire dalla prossima settimana, è l’editing di “Ophir”.
Okay, dopo aver fatto sorbire tutte le mie riflessioni sulla scrittura di questo libro, è arrivato il momento di raccontarvi qualcosa di più su di esso.
Iniziamo da qualche numero. Il conteggio delle parole, come ho detto, supera quota 136 mila, suddivise in tre parti per un totale di sedici capitoli.
La prima parte, intitolata “ Intelligenza artificiale”, a eccezione della primissima scena, è ambientata circa tre anni (terrestri) dopo la fine di “ Deserto rosso”, in quello che viene definito anno 4 del Programma Aurora. La seconda (“ Coscienza artificiale”) e la terza (“ Vita artificiale”), invece, sono ambientate nell’ anno 13 del Programma Aurora, vale a dire dodici anni terrestri dopo la fine di “ Deserto rosso”.
Metà della storia si svolge su Marte e ha come voce narrante in prima persona Melissa Diaz, alle prese con la necessità di gestire la comunità di cui è leader (e che controlla) e che allo stesso tempo deve far fronte al conflitto interiore tra l’entità che la guida e le sensazioni generate dal proprio corpo umano.
L’altra metà della storia, invece, ha luogo sulla Terra, con una breve incursione sul lato lontano della Luna (nella prima parte), in cui ritroviamo gran parte dei personaggi che già abbiamo visto in “ Deserto rosso”, vale a dire Anna, Hassan, Jan, Kirsten, Martin Logan e Michael Gray. Inoltre compaiono due personaggi de “ L’isola di Gaia”, in una versione decisamente più giovane: Virginia Logan ed Elizabeth Caldwell. Quest’ultima ha un ruolo primario nella trama del romanzo.
E poi c’è CUSy, detta anche semplicemente Susy, l’IA complessa che gestisce gli habitat marziani e sue altre eventuali copie o versioni semplificate, che rappresenta una presenza costante e a tratti inquietante lungo tutta la storia e da cui derivano i titoli delle singole parti.
Di fatto Susy (o una sua copia) è uno dei pochissimi personaggi destinati a comparire in tutti i libri del ciclo dell’Aurora e svolgerà un ruolo fondamentale nella sua conclusione.
Come avrete intuito, in questo libro provo a esplorare il tema dell’intelligenza artificiale, anche se in maniera marginale. Inizio a chiedermi fino a che punto un software in grado di ragionare per conto proprio, apprendere, compiere delle scelte autonome ed evolversi possa essere considerato semplicemente uno strumento. Fino a che punto si può veramente essere certi di poterlo controllare? Fino a che punto ci si può fidare di lui?
In realtà non è un tema del tutto nuovo per i miei libri. In “ Deserto rosso” viene toccato verso la fine dell’ultimo libro, quando l’ entità estranea rivela la propria origine. Chi ha letto la serie sa di cosa parlo e può già intuire che si tratta ancora una volta del ripetersi di uno schema (un po’ come accade in Battlestar Galactica), le cui conseguenze, però, non sono necessariamente scontate e verranno affrontate nei due ultimi libri del ciclo, “ Sirius” e “ Aurora”.
Di certo in “ Ophir” scopriremo di più di questa entità e di come essa sia ben diversa dall’essere implacabile e infallibile (campi magnetici permettendo) che ci ha fatto intendere di essere in “ Deserto rosso”.
Be’, preferisco fermarmi qui, su questi pochi concetti che pur anticipando alcuni temi di fatto svelano poco o nulla della trama. Per conoscerne i dettagli dovrete attendere il 30 novembre, ma mi sento di dirvi che ne varrà la pena.
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