Poco più di due anni fa AmazonCrossing ha pubblicato l’edizione inglese del mio thriller “Il mentore” (che sarebbe poi diventato il primo della trilogia del detective Eric Shaw), facendolo diventare bestseller internazionale che, raggiungendo oltre 170 mila lettori in tutto il mondo, ha scalato le classifiche del Kindle Store fino alla prima posizione assoluta negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Australia.
È stata per me una grande soddisfazione che un mio romanzo venisse letto da tante persone, la maggior parte delle quali l’hanno apprezzato, e ovviamente lo è stato anche il ritorno economico sia diretto che indiretto (grazie a un aumento delle vendite di altri miei libri in inglese e della versione italiana di questo libro). L’aver avuto questo transitorio successo mi ha inoltre procurato un ritorno di immagine non indifferente, cui sono seguite diverse esperienze interessanti, e rappresenta un precedente indelebile nella mia carriera letteraria.
Tra l’altro, se non avessi mai concesso i diritti di traduzione in inglese de “Il mentore”, non mi sarebbe neanche venuto in mente di scrivere i suoi due seguiti, “Sindrome” e “Oltre il limite”, di cui sono particolarmente fiera, sia perché li ritengo dei libri di gran lunga migliori del loro predecessore (in quanto scritti con una maggiore esperienza alle spalle), sia perché mi hanno dato la possibilità di concedere più spazio al personaggio di Eric Shaw e di raccontare fino alla fine la sua storia.
Adesso, a oltre due anni dall’uscita di “The Mentor” e a oltre tre dalla stipulazione del contratto con Amazon Publishing, i diritti di traduzione in inglese de “Il mentore” mi sono stati restituiti (la restituzione ufficiale avverrà la settima prossima) e già da qualche giorno il libro non è più disponibile in formato ebook su Amazon (per i formati fisici la disponibilità continuerà fintanto che ci saranno ancora copie in magazzino o vendute da terzi).
Devo dire che, nonostante la mia collaborazione con Amazon Publishing sia stata un’esperienza interessante e istruttiva e mi abbia portato tante belle cose, sono contenta che sia finita.
L’edizione di “The Mentor” da loro pubblicata aveva delle criticità per quanto riguarda la traduzione. Il romanzo, pur essendo ambientato a Londra, era stato tradotto in ogni sua parte, inclusi i dialoghi, nella variante americana dell’inglese, poiché pubblicato da un editore americano. Oltre al problema della lingua in sé, che molti lettori, non solo quelli britannici, hanno notato, c’era quello dell’utilizzo di terminologie e nomi di istituzioni e luoghi tradotti direttamente dal mio adattamento in italiano dei termini originali, laddove sarebbe invece stato necessario andare a recuperare gli stessi termini originali. Infine c’erano proprio degli errori nel riportare il contenuto del testo, anche se non tali da compromettere la comprensione generale del libro.
A monte c’era stata sicuramente una scelta discutibile da parte dell’editore, vale a dire usare un traduttore e degli editor americani (che ovviamente non hanno colpa, poiché hanno solo cercato di fare del proprio meglio, e cui vanno comunque i miei ringraziamenti).
A ciò si aggiungevano, a mio parere, alcune scelte di marketing (tra cui copertina, descrizione, generi in cui era classificato) che non rispecchiavano il contenuto reale del libro e che potrebbero aver tenuto lontano un target di lettori più adatto. “The Mentor”, infatti, era stato presentato come un “mystery”, quello che in italiano è definito giallo, cioè una storia investigativa il cui scopo è trovare il colpevole. I lettori si aspettavano di dover scoprire l’identità dell’assassino e che questo alla fine venisse arrestato o, al massimo, ucciso. In realtà però si tratta di un crime thriller in cui il centro della storia è il comportamento che un detective della Scientifica (Forensic Services), con un concetto molto particolare di giustizia (tale da spingerlo ad abusare spesso del proprio ruolo), assume nel sospettare che dietro gli efferati omicidi su cui sta indagando ci sia una persona con cui ha un forte legame affettivo. A rendere il suo giudizio più complicato c’è la consapevolezza che le vittime non erano affatto degli innocenti.
Alla luce di tutto ciò sono contenta, forse addirittura sollevata, di rientrare in possesso dei diritti di traduzione in inglese de “Il mentore” per assicurarmi prima di tutto che riceva una traduzione adeguata e fedele, e successivamente per poter nel migliore dei modi offrire anche ai lettori anglofoni i libri successivi, sperando di riuscire a farli arrivare soprattutto a coloro che amano i crime thriller, e non (solo) i gialli.
Al momento non sono ancora in grado di stabilire delle date di uscita (anche perché sono e sarò impegnata per i prossimi mesi in due progetti editoriali in italiano), ma ho già iniziato la nuova traduzione e spero che nei prossimi mesi sia possibile chiarire in quali modi, e magari anche tempi, la trilogia del detective Eric Shaw tornerà sul mercato anglofono nel maggior numero possibile di paesi e, soprattutto, non soltanto su Amazon.
Se vogliamo far funzionare la nostra colonia su Marte, abbiamo prima di tutto bisogno di energia. Come possiamo ottenerla?
La prima e più ovvia fonte di energia è il Sole (nella foto sopra un tramonto nel Cratere Gale su Marte). La radiazione solare raggiunge costantemente la superficie di Marte e per poterla trasformare in una forma di energia sfruttabile si può far uso di una tecnologia già ampiamente utilizzata nel nostro pianeta: i pannelli fotovoltaici.
Questi pannelli sono costituiti da celle che a loro volta presentano diversi strati costituiti da una coppia di fogli di silicio, di cui uno è caricato positivamente e uno negativamente. Quando la radiazione solare li raggiunge, questa fa eccitare l’elettrone del foglio negativo, che a sua volta migra verso quello positivo. Tale fenomeno, ripetuto per tutti i singoli elettroni presenti, dà luogo a una corrente elettrica.
In pratica si verifica una trasformazione dell’energia solare in energia elettrica, che può essere immagazzinata in batterie e utilizzata per tutte le necessità del nostro insediamento sul pianeta rosso. L’efficienza della trasformazione è di circa il 20%, ma tende a crescere col migliorare di questa tecnologia. Inoltre i pannelli solari hanno una vita utile abbastanza lunga, soprattutto considerando che su Marte sarebbero sottoposti a eventi meteorologici molto più miti, cosa che li trasforma in una fonte di energia rinnovabile a lungo termine.
Ci sono però tre limiti legati all’uso dei pannelli solari.
Il primo, che si osserva ovviamente anche sulla Terra, è che funzionano solo durante le ore di luce (il cosiddetto dì), mentre smettono del tutto di funzionare di notte. Inoltre la loro produzione di energia non è costante, ma varia lungo l’arco della giornata, raggiungendo il massimo quando il sole è allo zenit durante il solstizio d’estate (se le condizioni meteorologiche lo consentono). La soluzione a questo problema è semplicemente quella di accumulare l’energia prodotta durante il dì in batterie, in modo da averne a disposizione in maniera costante durante tutto il sol (giorno marziano).
Il secondo limite, invece, riguarda proprio Marte: il pianeta rosso è più lontano dal Sole rispetto alla Terra, quindi a parità di superficie dei pannelli solari questi ricevono una quantità inferiore di energia. Per ovviare a questo problema, in realtà basterebbe installare più pannelli. Di certo su Marte non manca lo spazio per farlo. Ma significa anche avere più dispositivi cui dover fare una costante manutenzione affinché funzionino sempre al meglio.
E questo ci porta al terzo limite: i diavoli di polvere e le tempeste di polvere.
Sappiamo che l’atmosfera di Marte è appena l’1% in densità rispetto a quella terrestre, nonostante ciò non è del tutto esente da importanti fenomeni meteorologici. La superficie del pianeta infatti è spazzata da frequenti venti che possono ampiamente superare i 100 chilometri orari. Nonostante l’aria sia sottile, i venti sono in grado di sollevare il pulviscolo più leggero generando colonne rotanti di aria scaldata dal Sole chiamate diavoli di polvere (nella foto sotto un diavolo di polvere in azione ripreso dall’orbita di Marte, simile a quello osservato da Melissa alla fine di “Deserto rosso”). I diavoli di polvere marziani sono molto più alti rispetto agli omonimi terrestri, ma, proprio per via della presenza di un’aria sottile, non sarebbero in grado di provocare danni a un insediamento umano. Tranne quello di coprire di polvere i pannelli solari, riducendo o annullando la loro efficienza!
Anche questo problema ha una semplice soluzione, vale a dire pulire periodicamente i (numerosi) pannelli, cosa che aggiunge un ulteriore consumo di quella stessa energia che producono. Talvolta, però, può accadere il contrario: un diavolo di polvere può casualmente pulire un pannello solare, come è accaduto al rover Spirit nel 2005, ma di certo non possiamo sperare in una tale casualità.
Ma i venti e la polvere creano anche un problema molto più serio. Su Marte, infatti, il continuo soffiare dei venti, in particolare in certi periodi dell’anno, è in grado di dare luogo a tempeste di polvere, in grado di ricoprire ampie aree e di durare anche per mesi. Anche nel caso della tempesta di polvere non abbiamo a che fare con un evento meteorologico distruttivo. La spinta che un vento può dare anche a 150 chilometri orari su Marte è sempre un centesimo di quanto avverrebbe sulla Terra. Tant’è vero che alcune tempeste di sabbia potrebbero essere così lievi da non venire affatto percepite al livello del suolo, almeno non dall’occhio umano, ma lo sarebbero per i pannelli solari. La polvere sospesa nell’aria, infatti, può ridurre in maniera drammatica la percentuale di energia solare in grado di raggiungere la superficie dei pannelli, e ciò può andare avanti per settimane o mesi, rendendoli di fatto inutili allo scopo di produrre energia elettrica.
Per questo motivo non possiamo fare affidamento soltanto sul Sole come fonte diretta di energia.
Come ho appena detto, però, su Marte c’è un sacco di vento ed esso porta con sé altra energia, sfruttabile attraverso l’impiego di turbine eoliche (come quelle utilizzate nella Stazione Alfa in “Deserto rosso”). Nonostante si tratti di un’energia eolica in proporzione nettamente inferiore a quella che si può sfruttare nel nostro pianeta, la maggiore frequenza e la maggiore velocità media dei venti li rende fonte di energia alternativa da affiancare a quella solare. A ciò si aggiunge il fatto che nei diavoli di polvere la frizione tra le particelle crea delle cariche elettrostatiche e periodicamente si scaricano sotto forma di fulmine e, almeno in teoria, si potrebbe provare a intrappolare anche quell’energia.
Resta però da considerare il peggiore degli scenari, che è tutt’altro che raro: una lunga tempesta di polvere che blocchi la luce del Sole, ma che allo stesso tempo non sia caratterizzata da venti tanto forti e costanti da sopperire al mancato funzionamento dei pannelli solari.
Inoltre queste fonti di energia rinnovabili, oltre a essere incostanti, hanno anche a pieno regime in proporzione un’efficienza più bassa rispetto a ciò che avviene sulla Terra, pur presentando problematiche di manutenzione non trascurabili. È probabile che la necessità di energia di una futura colonia marzia diventi un incentivo per cercare di migliorare questo tipo di tecnologie o addirittura inventarne di nuovein grado di sfruttare l’energia solare ed eolica, cosa che avrebbe poi degli importanti benefici sulla Terra.
Ma, nel frattempo, se vogliamo poter disporre di un’energia costante che sia disponibile in quantità notevoli, tali da portare avanti il funzionamento di un insediamento sul pianeta e la sua espansione nel tempo, è necessario rivolgerci a una fonte più potente, più affidabile e più facilmente gestibile, anche se magari, almeno per il momento, ce la dobbiamo portare dalla Terra.
Prendiamo il caso del rover Curiosity (foto sopra). A differenza di Opportunity e degli altri rover (ora non più funzionanti) Spirit e Sojouner, Curiosity non ha pannelli solari, bensì è alimentato esclusivamente da un generatore termoelettrico a radioisotopi. Questo dispositivo presenta un modulo contenente un isotopo radioattivo del plutonio, che decadendo diventa una fonte di calore. Questo calore viene trasformato da un convertitore termoelettrico in energia elettrica. Un generatore di questo tipo è abbastanza piccolo e può produrre energia in maniera continua per anni. Ovviamente, se usato da esseri umani, deve essere opportunamente schermato per evitare l’esposizione a radiazioni. Ma ciò vale in pratica per qualsiasi attività si svolga su Marte, che è costantemente raggiunto da radiazioni ionizzanti, solo in piccola parte bloccate dalla sottile atmosfera. Purtroppo c’è un limite alla potenza che un generatore di questo tipo può generare, ma esso è utile per far funzionare per lunghissimo tempo singole apparecchiature con un consumo di potenza contenuto, come la sonda Voyager 1 che è stata lanciata nel 1977 e adesso che è uscita dal Sistema Solare continua a comunicare con la Terra (di recente sono stati addirittura riaccesi i suoi propulsori per compiere una breve manovra, dopo 37 anni dall’ultima volta che sono stati utilizzati).
Per creare, far andare avanti ed espandere una colonia sul pianeta rosso ci serve, però, molta più energia. La risposta a questa necessità è estrarla dagli atomi. Per farlo è necessario disporre la nostra colonia di piccoli reattori nucleari, cioè delle strutture opportunamente schermate in cui facilitare le reazioni nucleari in combustibili come l’uranio, il plutonio e il torio, in modo che rilascino molta più energia di quella generata dal loro lento decadimento spontaneo. Nello specifico il processo cui vanno incontro si chiama fissione, cioè la separazione in due parti del nucleo atomico. Il calore generato viene poi convertito in energia elettrica.
All’inizio si dovranno importare dalla Terra i combustibili nucleari, ma in un tempo successivo sarà possibile estrarli su Marte esattamente come si fa sul nostro pianeta (bisogna prima scoprire dove trovarli). Il vantaggio delle reazioni nucleari è che da piccole quantità di materia prima si possono estrarre grandi quantità di energia. Inoltre i reattori hanno una durata molto maggiore rispetto ai pannelli solari o alle turbine eoliche.
Vi consiglio la visione di questo breve video che parla di una ricerca della NASA riguardo all’utilizzo di reattori nucleari (in cui avviene la reazione di fissione) per lunghe missioni nello spazio o per la colonizzazione di altri corpi celesti, incluso Marte.
Adesso che abbiamo l’energia, possiamo procurarci l’acqua, ma per colonizzare Marte ci servono tante altre cose. La prossima della nostra lista è l’ossigeno (dovremo pur respirare!), ma di questo parlerò nel prossimo articolo.
Tutte le foto di Marte sono della NASA. Fate clic sulle immagini per vederle nelle dimensioni originali.
Fino al 7 gennaio 2018, “Il mentore”, il primo libro della trilogia del detective Shaw, è disponibile in ebook su Amazon e Google Play ad appena 0,99 €!
Ambientata nella Londra odierna tra il 2014 e il 2017, la trilogia del detective Eric Shaw ha come protagonista un caposquadra della sezione scientifica di Scotland Yard, che si trova ad affrontare un periodo cruciale della propria vita. L’eccessiva dedizione al lavoro ha causato il fallimento del suo matrimonio e l’ha trasformato in un poliziotto pronto a infrangere più di una regola pur di soddisfare la sua ossessione di assicurare i criminali alla giustizia. Il suo già precario equilibrio viene minato da una criminologa della sua squadra, molto più giovane di lui, Adele Pennington, per cui prova dei sentimenti che lui stesso considera inappropriati vista la differenza d’età, e da una serie di delitti sui quali indaga insieme alla figlioccia Miriam Leroux, detective della Omicidi. Essi mostrano delle somiglianze con un caso irrisolto del 1994, nell’ambito del quale lo stesso Eric aveva tratto in salvo da una scena del crimine una bambina di sette anni, unica testimone del massacro della propria famiglia.
Di Carla (del 30/12/2017 @ 09:30:00, in Propositi, linkato 2524 volte)
Come di consuetudine, alla fine di dicembre mi ritrovo a tirare le somme dell’anno appena trascorso e a pormi degli obiettivi per quello futuro.
Negli anni passati è stato relativamente semplice scrivere questo articolo, poiché molti dei progetti che avrei intrapreso dipendevano da fattori sotto il mio completo controllo. Già dall’anno scorso, però, ho dovuto limitare in parte i miei propositi, in quanto non sapevo se alcune cose che erano in ballo sarebbero andate in porto e quindi non ero in grado di programmare niente di specifico dopo il mese di maggio. Adesso per il 2018 sarà ancora più complicato per via del trascinarsi di alcune faccende in sospeso, una delle quali si è conclusa proprio all’inizio di dicembre, e quindi in questi prossimi mesi forse riuscirò a capire un po’ meglio in che direzione incanalare i miei sforzi. Vi sono però dei punti fermi: alcuni propositi su cui ho le idee chiare.
- ho completato la stesura di “Oltre il limite” (il libro finale della trilogia del detective Eric Shaw), ho fatto l’editing del libro e l’ho pubblicato il 21 maggio;
- mi sono fermata per circa un mese dopo il completamento della prima stesura di questo libro, ma non posso proprio dire di aver ricaricato del tutto le batterie, perché sono stata abbastanza presa da questioni familiari e persino di salute (mi è venuta l’allergia agli acari);
- ho cercato di impegnarmi per promuovere la trilogia del detective Eric Shaw tramite eventi offline, iniziando con una presentazione in piena regola a Carbonia a pochi giorni dall’uscita dell’ultimo libro. È stato un evento molto divertente e con un’ottima affluenza di pubblico. Purtroppo non ne sono seguiti degli altri, anche se ho ricevuto diverse proposte, poiché per motivi organizzativi e/o per mancanza di tempo da parte mia non si è riusciti ancora a concretizzarle. Ma confido che si riuscirà in futuro;
- ho dedicato un po’ di tempo a FantascientifiCast, anche se solo nella prima parte dell’anno. Nella seconda non è stato possibile semplicemente perché non ho seguito nessuna nuova serie di fantascienza in TV e ho visto davvero pochi film di questo genere al cinema. Anche nell’ambito della lettura ho avuto a che fare perlopiù con libri di fantascienza vecchi di decenni. Per fortuna nel 2018 uscirà la seconda serie di “Westworld” e del docudrama “Marte”, quindi potreste tornare ad ascoltarmi (Omar Serafini permettendo!);
- ho letto circa 52 libri (dico circa, perché sto scrivendo questo articolo con un certo anticipo, ma confido di raggiungere quella quota entro il 31 dicembre);
- fino a settembre sono riuscita a programmare in anticipo i post per questo blog (e anche per quello in inglese), poi ho effettivamente lasciato perdere (tranne che per questo post), perché al momento non è una delle mie priorità. Ho una serie di articoli in corso (quella su Marte) e diverse recensioni di libri che ho letto da scrivere, ma oltre a questo ho intenzione di scrivere sul blog solo quando sento di avere qualcosa di interessante da dire, senza sforzarmi a farlo per dovere;
- credo di essere riuscita a organizzare un po’ meglio il mio tempo lavorativo. La scorsa estate me la sono goduta abbastanza, grazie anche al clima particolarmente stabile che l’ha caratterizzata. Ho anche fatto un bel viaggio (una crociera in Danimarca e Norvegia). Nei mesi autunnali sono riuscita a dedicarmi ad alcune cose che mi interessavano (ve ne parlo più avanti) e a riprendere un certo ritmo di lavoro, dopo una lunga pausa dalla scrittura di cui avevo veramente bisogno;
- infine ho fatto un bilancio dei miei primi cinque anni da self-publisher. Si tratta ovviamente di un bilancio positivo, ma allo stesso tempo è accompagnato dalla consapevolezza che in questo lasso di tempo tante cose sono cambiate nel mercato editoriale e ciò richiede lo sviluppo di nuovi approcci.
Cosa non sono riuscita a fare?
Purtroppo nel 2017 non è stato possibile ripetere l’esperienza del corso a Varese, ma sapevo già che c’era il rischio di saltare almeno un anno. Speriamo di riuscirci nel 2018.
Inoltre non ho scritto tanto, ma questa è stata una mia scelta. Ho ripreso a scrivere, molto lentamente, a novembre, con la consapevolezza che da gennaio dovrò aumentare il ritmo.
Cos’altro ho fatto o mi è successo nel 2017?
Tanto per iniziare ho trovato una agente per gestire i diritti di traduzione di alcuni dei miei libri, in particolare della trilogia del detective Eric Shaw. Sono arrivata a questa persona dopo quasi un anno e mezzo di ricerche, in cui ho avuto modo di discutere con altri agenti di una possibile collaborazione senza riuscire a trovare il giusto accordo. Mettermi a lavorare con lei mi ha portato via del tempo, necessario per preparare il materiale di cui aveva bisogno. Tra l’altro questa persona non parla italiano e non ha quindi modo di leggere alcuni dei libri che sta rappresentando, almeno finché non saranno tradotti in inglese. Ciò mi ha costretto a scrivere per lei delle sinossi molto particolareggiate. E considerate che io odio scrivere riassunti in italiano, figuratevi in inglese!
Siamo ancora all’inizio del nostro rapporto e non mi faccio grandi illusioni a proposito, ma esso comunque rappresenta un primo passo verso il mio cercare nuove vie per raggiungere più lettori in mercati linguistici in cui non potrei mai arrivare in altro modo.
Il secondo evento importante, che è anche il più recente (avvenuto in maniera definitiva solo all’inizio di dicembre), è stato la restituzione dei diritti di traduzione in inglese de “Il mentore” (primo libro della trilogia del detective Shaw) da parte di Amazon Publishing. Ve ne ho parlato qualche tempo fa.
Ciò mi ha posto improvvisamente di fronte a nuove scelte e potenziali opportunità.
Nei mesi scorsi, nell’attesa che ciò avvenisse, ho deciso di riprendere a studiare in maniera specifica alcuni aspetti della lingua inglese. Ho iniziato a studiare questa lingua da bambina e la uso per lavoro e nella vita privata in maniera costante da una ventina d’anni (da quando ho accesso a internet). Inoltre ho già tradotto altri miei libri in inglese (la serie di “Deserto rosso” e “Affinità d’intenti”). Ma adesso con la restituzione dei diritti de “Il mentore” e con la collaborazione con una agente britannica ho necessità di fare un ulteriore salto di qualità.
E poi, diciamo la verità, tutto ciò mi diverte parecchio, poiché implica esercitarmi con un lingua straniera (cosa che amo, tanto che se potessi non farei altro tutto il giorno!), oltre che leggere libri, guardare film e serie TV con la scusa che mi serve per migliorare le mie capacità di scrittura e quelle di ascolto.
Così, dopo qualche mese di solo studio (chiamiamolo così), sono tornata a tradurre in inglese: ho iniziato una nuova traduzione de “Il mentore”.
Nel 2017 inoltre ho seguito ben nove MOOCs, vale a dire corsi online aperti su larga scala (Mass Open Online Courses), grazie ai quali ho imparato diverse cose che mi saranno più o meno direttamente utili per il mio lavoro. Alcuni sono stati una forma di ricerca per progetti letterari futuri, altri sono serviti per migliorare il mio inglese, altri per ampliare le mie conoscenze nell’ambito della narrativa e della scrittura in generale, infine altri per aggiungerne di nuove alla mia preparazione scientifica. Tra questi senza dubbio il più interessante (e lungo: otto settimane) è stato “Moons”, un corso sulle lune del Sistema Solare organizzato su FutureLearn da The Open University.
Non paga di tutto ciò, mi sono iscritta già ad altri cinque corsi per il 2018 e tendo a pensare che se ne aggiungeranno degli altri.
Anche se quest’anno non ho scritto molto, non significa che non abbia creato nuove storie. Ho infatti scritto appunti, abbozzi di outline e talvolta outline complete per nove futuri progetti letterari. Tra questi c’è anche un breve prequel (una novella) della trilogia del detective Shaw, di cui ho già una outline completa, anche se non so ancora se/quando scriverò il libro. È solo una questione di decidersi a scriverlo.
Oltre a questi nove progetti, c’è poi quello di “Sirius. In caduta libera”, di cui però vi parlerò nei propositi per il nuovo anno.
Tra le nuove esperienze del 2017 c’è poi Wattpad. In realtà ho un account sul sito già da un paio di anni e in passato ci tenevo soltanto un’anteprima di due libri in inglese. Da ottobre scorso ho iniziato a interessarmi al pubblico italiano e, per curiosità, ho iniziato a pubblicare a puntate la mia vecchia fan fiction “La morte è soltanto il principio” (la pubblicazione è stata completata poco prima di Natale). È stato un modo anche per revisionarla per l’ennesima volta e vedere se potevo sfruttarla per trovare qualche altro lettore.
Non credo che userei mai Wattpad per scrivere un progetto in corso a puntate, ma potrebbe essere uno strumento interessante per fare qualche esperimento promozionale.
Infine, ma non meno importante, ho iniziato a scrivere “Self-publishing lab: Il mestiere dell’autoeditore”, un libro basato sul corso di self-publishing che ho tenuto all’Università degli Studi dell’Insubria nel 2016.
Insomma, alla fine non si può dire che nel 2017 mi sia girata i pollici, vero?
E adesso eccovi i miei propositi per il 2018:
1) scrivere e pubblicare “Sirius. In caduta libera”, la quarta parte del ciclo dell’Aurora. Inizierò a scriverlo subito dopo il periodo natalizio e ho intenzione di pubblicarlo, come previsto, il 30 novembre. A proposito di questo libro vi parlerò più diffusamente più avanti, quando sarò a buon punto con la stesura. Per adesso vi dico solo che è ambientato circa cinque anni prima de “L’isola di Gaia”, che ha come voce narrante principale il personaggio di Hassan Qabbani e che la storia si svolge per gran parte nell’orbita terrestre;
2) finire di tradurre in inglese “Il mentore” entro i primi mesi dell’anno (incluso il processo di editing e proofreading). Questo progetto è prioritario, poiché vorrei al più presto averlo a disposizione della sua versione definitiva per valutare le varie opportunità di ripubblicazione e concomitante promozione della trilogia sul mercato inglese. A tal proposito, vorrei anche riuscire a portarmi avanti con la traduzione dei due successivi (magari completare quella del secondo), ma su di essi non mi pongo al momento delle scadenze;
3) completare la prima stesura di “Self-publishing lab: Il mestiere dell’autoeditore”. Il massimo sarebbe riuscire ad arrivare, se non alla pubblicazione, almeno alla sua stesura definitiva, ma anche qui non metto delle scadenze. Si tratta del primo libro di non-fiction che scrivo e richiede da parte mia un’attenzione diversa nei riguardi sia del contenuto che, soprattutto, della confezionamento. Quando l’avrò completato, programmerò i dettagli della sua pubblicazione e promozione;
4) leggere libri più lunghi. Negli anni passati ho stabilito che avrei letto in media un libro alla settimana. Mi rendo conto che questo proposito non fa per me, poiché mi costringe a leggere numerosi libri brevi o non particolarmente lunghi pur di raggiungere l’obiettivo. Non credo che abbia senso. Come lettrice il mio romanzo ideale ha almeno 400 pagine, ma se ne ha il doppio o anche di più, ed è un bel libro, diventa addirittura perfetto, poiché per forza di cose racconta delle storie più complesse. E io amo le storie complesse. Perciò ho deciso di non pormi un minimo di libri all’anno, bensì un minimo di lunghezza (per esempio, 400 pagine in media) per circa l’80% dei libri che leggerò nel 2018. Inoltre tra questi almeno un terzo sarà costituito da romanzi in inglese britannico, poiché si tratta della variante in cui sto traducendo i miei libri.
Questo è tutto: solo quattro propositi, ma tutti importanti e sotto il mio pieno controllo, salvo cause di forza maggiore.
Che ne pensate?
Ovviamente ho altri progetti, ma preferisco parlarvene quando avrò deciso a quale dare la priorità.
Come di consueto, voglio concludere questo articolo ringraziando tutti i miei cari, i miei amici, i miei collaboratori e i miei lettori. Con voi, grazie a voi e anche per voi affronto questo lavoro con determinazione e passione. E i miei risultati sono anche un po’ vostri.
Grazie di cuore.
Auguro a tutti voi un 2018 pieno di soddisfazioni e, se si va, sarei felice di conoscere i vostri propositi nei commenti a questo articolo o sui vari social network in cui lo condividerò. Buona fine e buon inizio!
Di Carla (del 06/03/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2789 volte)
Ben strutturato, ma non memorabile. Traduzione scadente
Nel recensire questo libro mi trovo a dover fare una distinzione tra la mia opinione sul libro in sé e quella sull’edizione che ho letto, vale a dire quella italiana cartacea della Newton Compton. Dico subito che nel voto non ho considerato l’edizione, poiché avrebbe rischiato di dimezzarlo.
“Artemis” è un technothriller con una componente scientifica ben curata, come d’altronde mi attendevo da Weir. Se volessi fare un paragone con i libri di altri autori, il primo nome che mi viene in mente è Crichton (scusami, maestro!), per il fatto che tutta la storia è asservita all’intenzione di parlare al lettore di scienza. La somiglianza però finisce qui.
I libri di Crichton, infatti, tendevano a girare intorno a un grande tema scientifico, magari con risvolti morali, senza preoccuparsi di descrivere per forza delle tecnologie reali o plausibili (a volte bastava soltanto che lo sembrassero), ma soprattutto avevano un tono drammatico e spesso di denuncia. I libri di Weir, invece, fanno ridere, letteralmente. I suoi protagonisti non si prendono troppo sul serio e hanno sempre la battuta pronta, talvolta rivolta al lettore, anche in situazioni di vita o di morte (di altri o propria). È evidente che l’autore si diverte a metterli nei guai per poi trovare un modo da nerd per tirarceli fuori. Unendo questi due aspetti, abbiamo a che fare con dei novelli MacGyver che utilizzano le proprie conoscenze e i pochi mezzi a disposizione per risolvere situazioni disperate. In questo senso “Artemis” assomiglia molto a “The Martian”.
Ci sono, però, delle grosse differenze. “Artemis” per certi versi è scritto meglio, nel senso che ha una struttura meglio studiata e caratterizzata da un ritmo della narrazione ben cadenzato che funziona alla perfezione. “The Martian”, invece, essendo nato da episodi pubblicati sul blog dell’autore, presenta gli effetti di questa serialità indisciplinata che a volte stranisce il lettore. Però proprio questo suo non essere strutturato nel modo “giusto” lo rende imprevedibile e di conseguenza più godibile.
In “Artemis”, al contrario, per quanto ci troviamo di fronte a colpi di scena imprevedibili, questi lo sono solo nella sostanza (cioè non sappiamo cosa succederà), ma non nella tempistica, poiché sono talmente inseriti nel punto giusto della storia che in qualche modo li vediamo arrivare (cioè sappiamo che stanno per accadere).
A ciò si aggiunge qualche cliché a destra e a manca e un’antieroina che alla fine si trasforma in eroina travolgendo il lettore con una scontata ondata di buonismo, la cui conseguenza è una certa dose di delusione.
Al di là di tutto questo a rendere sostanzialmente “Artemis” più debole di “The Martian” è lo spessore della trama. Nel confronto tra la storia di una giovane criminale che finisce nel mirino di criminali peggiori di lei nella prima città sulla Luna e quella di un astronauta lasciato per errore su Marte (un pianeta deserto e letale), la prima ne esce con le ossa rotte.
Nonostante ciò, “Artemis” è una lettura gradevole e divertente, con una protagonista simpatica e con tanti spunti scientifici stuzzicanti. È fatto in modo tale da piacere a più persone possibili, ma di conseguenza non per essere amato alla follia.
Discorso a parte è quello dell’edizione italiana. A parte frasi qua e là poco convincenti e qualche concetto ripetuto nella stessa frase, probabile frutto di un errore durante l’editing della traduzione (che evidentemente non è poi stata riletta da nessuno), la cosa che mi ha dato in assoluto più sui nervi è ritrovarmi per almeno una decina di volte al posto della parola corretta “silicio” (in inglese “silicon”) il falso amico “silicone” (in inglese, “silicone” con la “e”). È un errore clamoroso e imbarazzante per un libro di fantascienza pubblicato nel 2017 da un grosso editore, che mette in evidenza come lo stesso editore (la Newton Compton) abbia come minimo dato il lavoro alla persona sbagliata (non ce l’ho con la traduttrice in sé, che sicuramente è stata costretta a fare un lavoro veloce e mal pagato in un ambito che non era il suo) e non l’abbia evidentemente affiancata con un editor che avesse una minima conoscenza scientifica. Ma bastava anche solo un pizzico di buon senso.
Io posso anche capire quando un traduttore cade in un falso amico (legge una “e” che non c’è), se si tratta di un caso isolato e in cui manca il contesto necessario per comprendere esattamente il significato. Il problema qui è che gran parte della storia di questo libro ruota intorno all’industria del vetro, inoltre il termine viene utilizzato almeno una decina di volte e in ognuna di esse non manca affatto il contesto. Si dice, per esempio, che ce n’è in grande quantità sulla Luna. Vi pare normale che sulla Luna, cioè un’enorme roccia nello spazio, si trovi normalmente una grande quantità di un polimero sintetico? Che ci fa lì? Ce l’hanno messo gli alieni? In un punto, poi, lo si definisce un elemento (vi sfido a trovarlo nella tavola periodica). Infine si dice che sia la base della produzione del vetro.
Ora, magari non tutti sanno che il silicio è l’elemento chimico numero 14 della tavola periodica e magari non sanno o non si ricordano che è da esso che si produce il vetro, ma è possibile che nessuna delle persone che hanno lavorato alla traduzione abbia mai sentito parlare del silicone? Non lo credo possibile. È più probabile che questo errore sia dovuto a trascuratezza. Erano convinti che “silicon” volesse dire “silicone” e, nonostante qualcosa evidentemente non tornasse (il buon senso deve aver tentato di far sentire la propria voce), sono andati dritti per la loro strada, perché, a quanto pare, controllare un termine sul dizionario era troppo faticoso, perché in fondo era “solo” un prodotto editoriale di massa (grave errore, visto che parliamo di fantascienza), perché avevano troppo lavoro da fare e forse perché a loro non importava più di tanto che tutto fosse corretto.
Ho saputo che l’errore è poi stato corretto nell’edizione digitale, ma ciò non riduce minimamente la sua gravità, considerando che tra l’altro quella cartacea costa molto di più. E lì ci rimarrà finché non finiranno tutte le copie già stampate (speriamo che provvedano a eliminarlo nelle ristampe).
Alla luce di ciò mi chiedo quante altre frasi siano state interpretate in maniera errata durante la traduzione e successiva correzione. In altre parole: che libro ho letto?
Infine mi chiedo: questo libro nell’edizione originale ha davvero un linguaggio tanto più pulito rispetto a “The Martian” (che ho letto in versione originale e che è tempestato da innumerevoli varianti e usi diversi della parola “fuck” a partire proprio dalla frase di apertura)?
Di Carla (del 16/03/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1744 volte)
Un interessante presente e futuro alternativo
Nel 1959, quando questo libro venne pubblicato per la prima volta, non eravamo ancora andati sulla Luna (ci saremmo andati ben dieci anni dopo) e la conquista dello spazio era vista come una normale estensione della cosiddetta guerra fredda. Questo scenario tutt’altro che ottimistico fa da sfondo alla storia di una famiglia di astronauti che si dipana per duecento anni. Il pessimismo di Wyndham, che avevo già visto nel suo romanzo post-apocalittico “Il giorno dei trifidi”, contrasta con l’ottimismo di molti altri autori della fantascienza ormai definita classica che immaginavano gli essere umani viaggiare nello spazio a distanza di pochi decenni e che, se fossero ancora vivi, sarebbero delusi di sapere che non siamo ancora neppure arrivati di persona su Marte. Al contrario, in “Uomini e stelle” la conquista dello spazio procede lentamente, molto più che nella realtà, ed è legata a doppio filo a eventi di natura bellica. Con salti di cinquant’anni, l’autore ci racconta quattro avventure spaziali di uomini appartenenti alla famiglia Troon (inglesi, come l’autore), cui si aggiunge quella in aviazione del nonno del primo di questi astronauti. Attraverso le loro storie ci viene illustrato un futuro grigio che per noi è, fortunatamente, alternativo, in cui l’astronautica è lo strumento di una guerra distruttiva che porta a stravolgere gli equilibri politici del nostro pianeta. Ogni storia reca con sé un atmosfera cupa e si risolve in un finale deprimente, fatta eccezione per l’ultima, che termina con una nota positiva. L’esercizio speculativo di Wyndham sembra quasi un monito agli uomini del suo tempo. È come se l’autore avesse sublimato i suoi peggiori timori all’interno di questo romanzo nel tentativo di trovare, alla fine del tunnel, una luce di speranza. Per riuscire ad apprezzarlo oggi, soprattutto alla luce delle attuali conoscenze scientifiche che evidenziano l’ingenuità della scienza narrata nel romanzo, bisogna provare a mettersi nei panni dell’autore, che a poco più di un decennio dall’inizio della guerra fredda teme per il futuro del mondo e prova a immaginare cosa succederebbe, se i suoi peggiori timori si realizzassero. Leggere questo romanzo in un certo senso mi ha fatto sentire bene, poiché i presupposti su cui si basa non esistono più e il suo sviluppo drammatico al giorno d’oggi sembra addirittura assurdo, ma allo stesso tempo mi ha indotto a riflettere su come la percezione del mondo e del futuro possa cambiare drasticamente col passare dei decenni.
Di Carla (del 24/03/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2259 volte)
Storia complessa e godibile con un inizio un po’ lento
Questa novella è il primo libro di una serie di thriller che ha come protagonista Frank Bowen. Per quanto si tratti di uno scritto breve che viene offerto gratuitamente per invogliare alla lettura dei successivi, è del tutto autoconclusivo e funziona bene anche come libro singolo. Inoltre il testo è molto ben curato. Non ho notato refusi né errori di altro tipo (se ce ne sono, devono essere proprio pochi).
La storia si svolge negli anni 90 nel periodo precedente alla restituzione di Hong Kong alla Cina, mentre l’attenzione dei media è concentrata sulla guerra in Iraq. L’ambientazione internazionale abbastanza varia e ben descritta e i dettagli degli intrighi e delle procedure che coinvolgono le varie agenzie di intelligence sono segno di un notevole sforzo di ricerca che quasi stupisce, trattandosi di un testo così breve.
La trama non è eccessivamente originale e ci sono alcuni aspetti abbastanza prevedibili, tra cui il finale, ma è dotata di alcuni colpi di scena inattesi, che mantengono vivo l’interesse, e delle scene d’azione ben descritte.
Alcune parti sono forse un po’ lente. L’inizio in particolare è sotto tono e non ti fa venire la voglia di andare avanti. Se non fosse stato un libro così corto, probabilmente mi sarei subito fermata. Sono però contenta di non averlo fatto.
Infine ammetto di aver avuto qualche difficoltà nel ricordarmi i vari personaggi, forse perché sono tanti e vengono tratteggiati in maniera molto rapida. Secondo me, in questo libro c’era materiale per scrivere qualcosa di molto più lungo che avrebbe permesso di sviluppare meglio i personaggi secondari, rendendoli più interessanti e memorabili. Ciò avrebbe giovato alla storia nel suo complesso.
È stata comunque una buona lettura che mi sento di consigliare.
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Di Carla (del 30/03/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2420 volte)
Anche in Islanda la gente uccide
A metà strada tra il crime thriller e il giallo, questo romanzo di Michael Ridpath è il primo della sua serie ambientata in Islanda e che vede come protagonista il detective Magnus Jonson (o, meglio, Ragnarsson).
Minacciato di morte dal capo di una gang contro cui deve testimoniare, Magnus, un detective della Omicidi di Boston, viene inviato in Islanda, paese di cui è originario, per collaborare per un breve periodo con la polizia locale e nel contempo stare al sicuro fino al processo. Viene così coinvolto nelle indagini sull’omicidio di un professore universitario che pare aver fatto un’importante scoperta relativa a una saga islandese perduta che avrebbe ispirato Tolkien nella stesura de “Il signore degli anelli”.
In una Islanda in cui la leggenda e la realtà, ben evocata dalla splendida prosa dell’autore, si confondono, ci viene raccontata una storia fatta di indagini, interrogatori e deduzioni, che occupano gran parte del libro, rendendolo perlopiù un giallo. A ciò si aggiunge la vicenda personale di Magnus, che rimane però abbastanza marginale.
Devo dire che individuare l’assassino non è stato eccessivamente difficile. Come al solito in questi libri, più l’interesse si concentra su un personaggio, più diventa chiaro che non è l’assassino, per cui andando per esclusione si arriva alla soluzione prima del protagonista.
A dire la verità mentre leggevo questo libro poco mi importava di scoprire chi avesse ucciso il professore. Ero troppo concentrata nell’ammirare l’Islanda evocata dall’autore, tra vulcani, cascate, laghi e fattorie, e nell’apprezzare la sua capacità di inserire in maniera credibile “Il signore degli anelli” in quei contesti. Credo che l’idea di partenza di voler immaginare un legame tra questo famoso libro e una fantomatica saga perduta sia di per sé geniale e valga la lettura del romanzo.
Ho apprezzato poi tantissimo il lavoro di ricerca dell’autore. Il fatto stesso che non sia islandese (è britannico) l’ha spinto a chiarire tanti piccoli aspetti che un autore del posto avrebbe dato per scontati e ciò ha reso il libro ancora più interessante per chi come me è incuriosito dalla cosiddetta terra del fuoco e del ghiaccio.
Nel complesso ho trovato questo romanzo una lettura coinvolgente e ricca di informazioni, una di quelle che, oltre a divertirti, ti insegnano qualcosa.
Di Carla (del 05/04/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2446 volte)
Abuso e follia
“Scomparsi” vuole essere un romanzo di genere, nello specifico un thriller psicologico, ma allo stesso tempo affronta il tema dell’abuso sulle donne, che lo incasellerebbe all’interno della cosiddetta narrativa non di genere o letteraria. Il risultato di questa unione non è del tutto felice. Il lettore non sa esattamente cosa attendersi e per certi versi vede deluse le proprie aspettative, e per altri rimane piacevolmente sorpreso. Il rischio però è quello di perderlo ben prima della fine del libro.
Ammetto che all’inizio della lettura di questo libro sono andata molto veloce. Ciò avviene quando trovo la storia lenta e me ne voglio liberare. Per circa metà delle pagine in pratica non succede nulla. La protagonista riversa addosso al lettore il proprio delirio, in prima persona al presente. Visto il contesto (due persone sono scomparse), il suo comportamento non ha il minimo senso. Ogni mio tentativo di sospendere la mia incredulità viene messo a dura prova, pagina dopo pagina.
Ora, in un libro di narrativa non di genere può capitare che non accada nulla, anche in tutto il libro, ma non in un thriller. Da qui deriva il mio disorientamento.
Il fatto che la quarta di copertina anticipi il primo flebile colpo di scena, che avviene a circa un terzo del libro, di certo non aiuta.
Quando finalmente, nella seconda parte, le cose iniziano a muoversi, la lettura si fa più interessante e saltano fuori alcune idee e cambi di direzione inattesi. Grazie a questi ho deciso di dare comunque quattro stelle. Restano però una serie di problemi.
Oltre l’inizio lentissimo e improbabile, ho trovato insopportabile (oltre che sciatto) l’uso del punto di vista in prima persona per tre personaggi diversi. Crea inutilmente confusione. E poi c’è il finale che, invece di raggiungere il culmine, a un certo punto si sgonfia. Neppure l’ultimo elemento che dovrebbe fungere da colpo di scena definitivo riesce a risollevarlo, poiché si tratta di una decisione
difficilmente realizzabile da parte di uno dei personaggi.
In poche parole, “Scomparsi” ha il pregio di raccontare una storia potenzialmente in grado di stupire e coinvolgere dal punto di vista emotivo, ma non riesce del tutto a farlo per via del ritmo molto lento e dell’inverosimiglianza che caratterizzano buona parte degli eventi narrati.
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Di Carla (del 12/04/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1909 volte)
Danzando nel vuoto
La trama di questo libro di certo non manca di originalità, visto che tenta di narrare di danza, cosa già di per sé difficile, ma soprattutto di farlo in un contesto fantascientifico. Il romanzo racconta la storia di Shara, una ballerina di talento che non potrà mai diventare famosa per via delle sue peculiarità fisiche (non ha un corpo minuto e slanciato) e che quindi si inventa un nuovo tipo di danza in assenza di gravità: una danza stellare.
E per certi versi il tentativo riesce anche abbastanza bene. Nelle scene in cui la voce narrante, il cameraman (ed ex-ballerino) Charlie, descrive le coreografie di Shara, per esempio, si ha quasi l’impressione di vederla danzare attraverso le riprese da lui filmate. La prosa dell’autore (anzi, degli autori) è qui evocativa e coinvolgente. Lo stesso fatto di prendere in mano un libro di fantascienza e ritrovarsi a leggere di danza è strano, ma in senso buono. Finché l’aspetto fantascientifico rimane in secondo piano, anzi, la lettura è piacevole e rimane viva la curiosità di sapere come andrà a finire.
I problemi nascono quando la fantascienza si rifà sotto e manda in frantumi tutta la poesia.
Purtroppo il romanzo risente non poco dell’essere scritto oltre quaranta anni fa. Non è solo un problema di anacronismi tecnologici, che come sempre sono inevitabili in libri che cercano di raccontare il futuro. A essi si aggiungono, infatti, numerose imprecisioni scientifiche. Alcune sono probabilmente dovute al fatto che a quei tempi si avevano poche conoscenze sugli effetti sul corpo umano dell’esposizione alla microgravità per lunghi periodi, ma per altre non ci si può appellare a un tale tipo di scusa, perché riguardano concetti abbastanza semplici di fisica. Non so se questi ultimi errori siano dovuti a licenze artistiche da parte degli autori o se siano frutto di una scarsa ricerca. Il problema è che su alcune di queste imprecisioni si basano dei punti di svolta essenziali della trama, che di conseguenza finisce per perdere di credibilità.
Si tratta comunque di una lettura piacevole che nel complesso ho deciso di giudicare positivamente proprio in virtù della sua originalità.
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