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 I personaggi di "Deserto rosso"... di Carla
 

“Mi chiedo cosa si provi a possedere un corpo.”
Ophir. Codice vivente

 

Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Carla (del 17/01/2019 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1988 volte)


 Grandi premesse, ma trama ricca di difetti messi in luce dal finale

Ho amato questo libro fino a prima dell’ultimo capitolo, poi tutto è crollato. Sono stata catturata dall’ambientazione di Londra poco prima della Prima Guerra Mondiale, durante e dopo di essa. La ricostruzione storica è così accurata che riporta in vita quel periodo nella mente del lettore.
Ho trovato particolarmente interessate il modo in cui viene rappresentata la mentalità delle persone, soprattutto il modo in cui le donne tendevano a sentirsi insicure, inferiori, per il semplice fatto di essere donne, aggravato nel caso di una delle due protagoniste (Grace) dalla classe sociale.
Nonostante il personaggio di Beatrice sia entrata a far parte delle suffragette, manca della sicurezza di sé che ci si attende da una “rivoluzionaria”. Si sente continuamente fuori posto, attanagliata dalla paura che la spinge a desiderare di scappare per tornare alla tranquillità della sua tediosa vita da ricca, ma allo stesso tempo non scappa, per timore di quella stessa tranquillità, che la fa sentire inutile. Ciò che la muove non è idealismo, ma la ricerca dell’emozione che manca alla sua quotidianità. È molto lontana della donna forte che costituisce la tipica eroina dei romanzi e ciò la rende per certi versi realistica.
Ma ciò che mi ha incollato alle pagine del libro è il modo imprevisto con cui i personaggi si trovano a interagire nella storia. La curiosità di scoprire cosa sarebbe accaduto dopo mi spingeva a leggere un capitolo dopo l’altro.
E durante tale lettura non erano poche le cose che mi infastidivano, ma che mettevo da parte pregustando la scoperta dell’evento successivo.
Tra queste c’è il personaggio di Grace, così remissivo che ho avuto difficoltà a immaginarla come un’adulta. Mi pareva sempre di vedere una bambina timorosa, debole.
Altro elemento di fastidio sono le numerose coincidenze. Va bene che ci sia una coincidenza in una storia. D’altronde è finzione. Ma, quando iniziano a essere due, diventano poco credibili.
Discorso analogo per gli eventi tragici, legati a elementi di pura sfortuna, che sanno tanto di forzatura per portare la storia verso una certa direzione. Il che andrebbe anche bene, se il risultato fosse soddisfacente.
A ciò si aggiunge un altro elemento forzato: i personaggi prendono delle decisioni importanti che avranno conseguenze sulla loro vita in un attimo per effetto del capriccio del momento o di un equivoco che nella realtà verrebbe facilmente chiarito. Ciò le rende del tutto irrealistiche.
Anche su questo ci si potrebbe passare sopra, se la storia si concludesse con un finale che dà un senso a tutto e soddisfa il lettore.
Ma così non è.
Le coincidenze che emergono agli occhi del lettore lentamente lungo tutto il libro vengono rivelate a Beatrice in un attimo, nell’ultimissima scena. Lo stesso fatto che lei arrivi a comprendere tutto da pochi elementi è in contrasto con la totale mancanza di intuito mostrata durante il romanzo, quella che l’ha resa vittima di enormi incomprensioni. A dirla tutta, non credo che neppure una persona tanto perspicace avrebbe potuto giungere alle stesse conclusioni in un secondo da sola senza neppure fare una domanda.
Quell’intera scena è a dir poco improbabile e ha fatto crollare quella sospensione di incredulità cui fino a quel momento mi ero aggrappata pur di dare un giudizio positivo al libro, alla cui lettura ogni sera tornavo con trepidazione.
Il colpo di grazia, poi, è stato il fatto che il libro sia finito lì, senza che venisse mostrato nulla delle conseguenze di quella rivelazione, quasi fosse un cliffhanger, che però non è stato seguito da un altro capitolo né da un seguito del romanzo. Bastava davvero poco per trasformarlo in un finale aperto, in grado di lasciare al lettore almeno la scelta di immaginare da sé cosa sarebbe avvenuto dopo. E invece non è stato fatto.
In un istante, di fronte a quel finale improvviso e insulso, tutto si è frantumato e i difetti del libro mi sono diventati chiari. Il peggiore di tutti è la mancanza di una vera crescita interiore dei personaggi, che rimangono cristallizzati nei loro difetti, senza dare alcun reale senso alla propria esistenza all’interno della storia.
Sì, perché alla fine ti ritrovi a domandarti: che storia è questa? Che cosa vuole davvero raccontare?
I personaggi sembrano burattini utilizzati soltanto per mostrare un periodo storico, senza che svolgano il loro ruolo principale: essere il motivo per cui si racconta una storia.

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Di Carla (del 21/12/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2805 volte)


 Giovani marziani

Scritto da una studentessa di ingegneria aerospaziale che sogna di diventare astronauta, “Ad Martem 12” è un piccolo gioiello di fantascienza hard rivolto a un pubblico giovane, ma che può essere apprezzato a tutte le età. Pur con qualche licenza e semplificazione (è pur sempre un libro di narrativa, non un saggio), sullo sfondo di una tecnologia e una scienza plausibile l’autrice racconta la storia dei primi tre ragazzi nati sul pianeta rosso, che, raggiunta l’età di sedici anni, iniziano a farsi domande sulle proprie origini e sulla Terra, da cui provengono tutte le altre persone che vivono nella stazione Aresland. La storia è narrata dal punto di vista di uno di loro, Jordan, e ciò è fatto in modo tale da facilitare l’immedesimazione del lettore nel personaggio.
Sebbene io non sia più adolescente da un bel po’ di tempo, nel trovarmi a conoscere i suoi pensieri, i suoi timori e le sue sensazioni sono riuscita a recuperare una porzione di quella parte di me del passato e quindi a comprendere le sue motivazioni e le sue azioni.
I protagonisti, infatti, non sono soltanto i soliti giovani talentuosi che vanno incontro a un’avventura come farebbe un adulto, che si possono trovare nella maggior parte delle storie young adult. In loro si notano tutte le caratteristiche dell’età in cui non si è più bambini, ma allo stesso tempo non si è ancora adulti. Sono preparati, intelligenti e scaltri, ma anche ingenui, distratti e avventati, come qualsiasi adolescente. Il problema è che vivono su un pianeta deserto e letale, e il più piccolo errore potrebbe determinare la loro morte.
Tra voglia di conoscere, pericolosi incidenti e sentimenti inattesi, Jordan, Anna e Yan iniziano un viaggio per scoprire la verità sul proprio passato e soprattutto sul futuro che li attende. Con uno stile coinvolgente, nella sua curata semplicità, che riesce a tratti a essere evocativo di paesaggi di un altro mondo, la Bassani ci permette di accompagnarli e trepidare con e per loro, fino al confortante finale che sa essere profondo senza scadere nella banalità.

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Di Carla (del 24/11/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2051 volte)


 Bambini pericolosi

John Wyndham è uno di quegli autori che nella loro carriera hanno esplorato un genere, in questo caso la fantascienza, in ogni possibile direzione e ogni volta hanno creato delle storie uniche e imprevedibili, tramite le quali hanno colto l’occasione per sviluppare interessanti spunti di riflessione.
Stavolta Wyndham tratta il tema dell’invasione aliena, senza mai parlare di alieni, ma solo di qualcosa che come fanno i cuculi ha messo le proprie “uova” nei “nidi” umani e da esse sono nati dei bambini, o meglio Bambini con la “b” maiuscola, dalle doti straordinarie e preoccupanti. A esso si affianca la riflessione sull’interazione tra due specie che si trovano a competere per lo stesso territorio e di cui solo una è destinata a dominare.
Un velo di inquietudine riveste ogni pagina del romanzo, senza che si raggiunga mai un’eccessiva drammaticità. Tra lunghe conversazioni caratterizzate dalla pacatezza britannica e dal tentativo di dare al tutto uno spiegazione logica, nella flebile speranza che ciò conduca a una risoluzione, e innaffiate da un ottimo tè, i protagonisti ci accolgono a Midwich, dove, in seguito a una giornata in cui gli abitanti hanno perso i sensi (chiamato Dayout), tutte le donne si sono ritrovate incinte. I bambini si riveleranno nel tempo qualcosa di altro, nonostante il loro aspetto umano, fino a diventare una minaccia, in un crescendo di tensione.
La risoluzione attesa, visto che il libro stava finendo, ma allo stesso tempo sia imprevista, per il modo improvviso con cui si realizza, che quasi ovvia, lascia spiazzati e soddisfa.
Un elemento interessante, che ho notato anche in altre sue opere, è quello del caso. La voce narrante si ritrova per caso fuori del villaggio insieme alla moglie proprio nel giorno del Dayout e quindi gli viene risparmiato un coinvolgimento diretto. Ciononostante, segue da vicino la vicenda e si ritrova di nuovo a Midwich proprio quando questa viene risolta. In tutto ciò si vede volutamente la mano dell’autore che, a mio parere, con grande divertimento, costruisce una trama perfetta, in cui ogni dettaglio ha uno scopo preciso, che, pur generando inquietudine, conferisce anche quel senso di sicurezza che suggerisce che in qualche modo tutto andrà bene. Ed è proprio la curiosità di sapere come potrà mai risolversi una situazione apparentemente impossibile che spinge il lettore a girare una pagina dopo l’altra e a completare la lettura del libro in breve tempo.

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Di Carla (del 13/06/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2868 volte)

 Scontro tra culture
 
In genere cerco di evitare di leggere i libri di Crichton di cui ho visto il film. Preferisco lasciarli per ultimi, quando, ahimè, non me ne saranno rimasti altri. Stavolta, però, ho fatto un’eccezione, anche perché sono passati davvero tanti anni da quando ho visto “Sol Levante” al cinema. Non ricordavo esattamente la trama ed è stato bello riscoprirla tra le pagine di questo romanzo, anche se alcuni dettagli mi sono venuti in mente man mano.
Devo ammettere che durante la lettura mi sono spesso ritrovata a immaginare Sean Connery e Wesley Snipes nel ruolo dei personaggi principali ed è stata un’ottima sensazione. È stato come rivivere quel film, ma in maniera molto più diluita e approfondita.
La storia in sé tratta dell’omicidio di una giovane prostituta d’alto bordo in un grattacielo di Los Angeles appartenente a una grossa azienda giapponese, avvenuto in contemporanea con un’importante festa che coinvolgeva numerosi personaggi famosi (alcuni reali, che sono nominati dall’autore, anche se non si vedono mai in scena). Il gioco di inganni, l’elemento tecnologico e il susseguirsi di eventi (la storia in pratica si svolge in due giorni) ricchi di colpi di scena lo rendono un romanzo di rapida lettura, nonostante la lunghezza. Ma ciò che lo rende ancora più interessante è tutto quello che nel film, per ovvi motivi di spazio, non poteva che essere accennato: la guerra tecnologica tra gli USA e il Giappone negli anni ’90. Crichton, mescolando realtà e fantasia, ci fa addentrare nelle pratiche industriali nipponiche e nella stessa cultura del sol levante. Lo fa in particolare attraverso il personaggio di Connor, poliziotto esperto con un rapporto di amore-odio nei confronti del Giappone, fatto di comprensione e rispetto delle sue regole nonostante ciò non corrisponda a una totale accettazione né tanto meno approvazione delle stesse, che guida il protagonista, Smith, in un difficile caso che tutti, per un motivo o per l’altro, vogliono chiudere al più presto possibile. Si tratta della morte di una donna di “nessuna importanza”, come viene definita dai personaggi nipponici, ma che in qualche modo è in grado di stravolgere molte altre vite, forse addirittura anche quella di Smith.
Molto interessanti anche gli aspetti tecnici relativi alla manomissione dei video di sorveglianza, nonostante adesso con l’avvento della registrazione diretta su file appaiano obsoleti.
Nel complesso anche in questo romanzo Michael Crichton riesce a unire una trama che ti incolla alle pagine del libro con approfondimenti di valore, in grado di lasciare un segno ben oltre il tempo stesso dedicato alla lettura.
 
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Di Carla (del 01/06/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2723 volte)

 Un finale perfetto
 
Dopo diversi mesi torno a leggere le storie di Harry Bosch nate dalla penna di Michael Connelly e lo faccio col quinto libro della serie, che è ormai vecchio di vent’anni.
Stavolta Bosch si trova a dover risolvere l’omicidio di un produttore cinematografico che viene trovato morto nel bagagliaio della propria auto. La modalità sembra quella della tipica esecuzione mafiosa, che viene appunto chiamata in gergo “Musica dura”, come il titolo del libro, ma la realtà sarà molto più complessa di ciò che appare ovvio all’inizio delle indagini.
Come sempre, Connelly ci mostra la faccia ambigua delle investigazioni di polizia a Los Angeles e, in questo caso, anche in una Las Vegas che cerca di ripulire la propria immagine dall’influenza negativa dell’ormai passato dominio completo da parte della Mafia sulla città. C’è però ancora un boss che la polizia non vede l’ora di eliminare, Joey Marks, e tra lui e la vittima ci sono dei legami. Ma la soluzione del delitto potrebbe trovarsi altrove.
Qua e là c’è qualche coincidenza di troppo, che permette al protagonista di portare avanti il proprio lavoro e di non lasciarci la pelle.
È stato bello rivedere la Las Vegas di quei tempi nelle pagine di questo romanzo, la stessa che ho avuto modo di vedere con i miei occhi pochi anni prima della sua pubblicazione. Quando Bosch descrive la hall del Mirage con le tigri bianche dietro il vetro blindato e gli squali nell’acquario, mi sono ritrovata lì osservare con meraviglia le medesime cose. Ciò mi ha permesso ancora di più di immedesimarmi nel suo punto di vista e di sperimentare la storia come se fosse reale.
Al di là dell’investigazione, però, ciò che mi è piaciuto di più di questo libro è il ritorno di un personaggio del passato di Bosch che ha un ruolo importante nel suo svolgimento e soprattutto nell’epilogo. Peccato che la personalità e il punto di vista dello stesso Bosch sia preponderante, rendendo questo personaggio meno tridimensionale di come era apparso nell’altro libro in cui si era visto. In generale Bosch dà minimo spazio agli altri personaggi, invade tutta la scena, rendendo tutti gli altri semplicemente degli strumenti asserviti alla trama.
Il finale è assolutamente perfetto, come lui stesso dice, senza la solita amarezza o incertezza che caratterizzava i precedenti. Nel leggerlo mi è venuto da pensare che l’autore avesse intenzione di concludere qui le sue vicende e che solo successivamente abbia deciso di andare avanti, magari su insistenza dell’editore.
Per quanto mi riguarda, se non avessi già il successivo, potrei fermarmi qui ed esserne completamente soddisfatta. Di certo aspetterò ancora diversi mesi prima di proseguire con la lettura.
Consiglio a tutti gli amanti dei crime thriller la lettura di questo libro, ma per apprezzarlo veramente dovete leggere i quattro precedenti, poiché il cuore di questi romanzi è indiscutibilmente il personaggio di Bosch, di cui l’autore ogni volta ci mostra qualche nuovo aspetto facendocene sperimentare l’evoluzione attraverso il suo punto di vista.
 
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Di Carla (del 25/05/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2091 volte)

 Cospirazione sulla Luna
 
Prima di leggere un romanzo viene spontaneo guardare la copertina e, in base all’immagine e all’eventuale slogan, farsi una vaga idea della trama. Ed è bello che almeno in parte questa idea venga rispettata, in caso contrario c’è il rischio di incappare in qualcosa che non si voleva affatto leggere. Peccato che ciò che la copertina di “Gunpowder Moon” suggerisce non abbia nulla a che vedere col contenuto del libro. Vi è rappresentato il casco di una tuta spaziale con un foro sulla visiera, mentre la tuta di un altro astronauta è visibile nel riflesso, il tutto in un ambiente lunare. Inoltre lo slogan parla di un fantomatico “primo omicidio sulla Luna”.
Se vi aspettate di “vedere” (con gli occhi della mente) all’interno del romanzo il cattivo di turno sparare e così uccidere qualcuno in un paesaggio lunare, rimarrete delusi. Qualcuno viene effettivamente ucciso, ma nessuno gli spara. E la stessa parola “murder” usata nello slogan suggerisce qualcosa di molto più personale di una esplosione dolosa che provoca la morte di un personaggio a causa dell’esposizione al vuoto. Per quest’ultima situazione la parola più adatta è attentato. Il fatto che poi dietro ci sia una cospirazione il cui scopo è scatenare una guerra nel nostro satellite mette in evidenza come l’omicidio sia un tema a dir poco marginale all’interno del romanzo.
Il problema di queste scelte insensate di marketing da parte degli editori (e in questo caso parliamo della Harper Collins) è che attirano i lettori sbagliati e respingono quelli giusti.
“Gunpowder Moon” in realtà è un romanzo di fantascienza hard con risvolti militari e politici, ambientato in un futuro abbastanza pessimistico (quasi post-apocalittico). C’è qualche ottima scena d’azione, come quella che costituisce il climax del romanzo. La parte scientifica relativa alla Luna è abbastanza accurata (con le dovute licenze) e interessante, ed è ben sostenuta da una prosa evocativa. L’autore poi è bravissimo nel world building, sebbene io non apprezzi una tale visione pessimistica del futuro. Inoltre il personaggio principale, Dechert, non è affatto male, nonostante alcuni elementi che tendono a farlo scivolare nel cliché.
Ma, a parte le scelte di marketing completamente sbagliate, forse l’unico vero problema di questo libro è il ritmo lento. Ci si ritrova a leggere scene lunghissime con lunghi dialoghi e riflessioni del protagonista, in cui succede qualcosa solo bell'ultima parte e poi vengono interrotte alla fine del capitolo (in genere costituito da una o massimo due scene) allo scopo di indurre il lettore a leggere il successivo (una cosa che io trovo estremamente irritante). Nella prima metà del libro credo di aver contato cinque eventi in tutto che portano avanti la storia e ovviamente le scene sono molte di più di cinque. Mi sono spesso sorpresa a desiderare che finisse il capitolo, per interrompere la lettura e passare all’altro libro che stavo leggendo in parallelo. E questa non è una buona cosa.
Si ha una leggera accelerata nella seconda parte, anche se qualche flashback che non aggiunge nulla né alla storia né veramente alla caratterizzazione del protagonista tormentato (avevo già inquadrato il tipo) è riuscito comunque a spezzare la mia concentrazione nella lettura e a farmi decidere di interromperla.
Insomma, ho avuto l’impressione di leggere un libro più lungo di quello che è in realtà.
Il climax, però, come dicevo prima, è ottimo. L’identità del cattivo non era difficilissima da individuare, ma l’autore ha avuto alcune ottime idee su come tirare fuori dei guai i personaggi principali.
Nell’epilogo purtroppo il ritmo scende di nuovo e l’autore ancora una volta cede alla tentazione di fare uso di qualche spiegone di troppo.
A salvare tutto, compreso il mio giudizio, è l’ultima pagina. Ovviamente non posso accennare nulla a proposito, tranne che dà una certa soddisfazione.
 
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Di Carla (del 18/05/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2328 volte)

 Inusuale ma piacevole
 
Ciò che mi piace di Matheson è che ogni volta nei suoi libri riesce a tirare fuori qualcosa di originale che trascende i generi, ma allo stesso tempo ognuno di essi ha in comune con gli altri una serie di elementi legati allo stile, alle caratteristiche dei protagonisti e alla totale imprevedibilità delle storie, che rifuggono qualsiasi cliché.
“Altri regni” è una favola che mescola elementi del fantastico, romantici e storici, che non si sviluppa né finisce come ci si aspetterebbe.
Tra gli elementi che mi hanno fatto apprezzare questo romanzo c’è il tono colloquiale e spesso ironico con cui il giovane protagonista narratore si rivolge al lettore. Si crea tra i due una sorta di complicità alimentata dalla curiosità di leggere quale altra assurdità si sarà inventato nella pagina successiva.
A ciò si aggiunge la ricostruzione storica, sebbene limitata dal punto di vista del protagonista, che riesce a portarci nelle trincee della Prima Guerra Mondiale e poi in un paesino dell’Inghilterra.
E poi c’è elemento fantastico (in questo caso si parla di fate e streghe) che viene mescolato alla realtà.
Il tutto viene messo insieme con una narrazione sotto forma di resoconto, che avevo già visto in “Appuntamento nel tempo”. Rispetto a quest’ultimo “Altri regni” è meno riuscito nell’ambito della sospensione dell’incredulità. Neanche per un momento mi sono dimenticata che stavo leggendo una storiella inventata, nonostante il fatto che il protagonista ripetesse che era tutto vero. Anzi, proprio per questo motivo. Ma d’altronde penso che fosse voluto dall’autore, che, già in tarda età, scrisse questa favola in onore della moglie Ruth Ann (da cui prende il proprio nome la creatura fatata Ruthana), come dice nella dedica. E come tale deve essere considerata.
Proprio per questa sua decisione di scrivere un libro che sentiva suo, piuttosto che qualcosa che sarebbe potuto piacere al pubblico, apprezzo ancora di più questo autore. Mi spiace solo che adesso avrò un suo libro in meno da leggere.
 
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Di Carla (del 04/05/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2117 volte)

 Storia affrettata
 
Ripensando ai punti essenziali della trama, mi rendo conto che c’è della potenzialità, eppure non posso proprio dire che il libro mi abbia entusiasmato.
La trama è infatti molto lineare. I primi capitoli servono unicamente a presentare il protagonista, Ross Moran, ma niente di importante accade finché non viene spedito su una stazione spaziale e lì gli viene proposto un lavoro su un’altra stazione spaziale chiamata Borea. Tra tecnologie avanzate che si scontrano con altre a dir poco antiquate (i personaggi viaggiano nell’orbita terrestre come se niente fosse, ma usano la macchina da scrivere!), si dipana un’avventura in cui gli eventi vengono narrati in maniera molto semplicistica. Il modo in cui viene presentata la tecnologia è superficiale e vengono usate delle spiegazioni pseudo-scientifiche molto deboli. Non pare essere solo una questione di stile, poiché l’autore diventa di colpo molto più preciso nel parlare di meteorologia (o perlomeno dà questa sensazione a un profano).
Gli eventi si susseguono in fretta, in maniera che definirei improbabile. Gli stessi dialoghi, a tratti, sono poco convincenti. Il tutto è infarcito di cliché, come i militari supercattivi che non sentono ragioni, in particolare se si tratta di donne al comando.
Non posso neanche dire che il libro non mi sia piaciuto affatto. Ho trovato il protagonista simpatico. È stato bello immergersi nella sua mente e i suoi monologhi interiori sono coinvolgenti. Ci sono inoltre delle scene d’azione niente male. Ma la sensazione generale che ho provato è stata quella di eccessiva semplicità, come se fosse la prima versione di una storia che non è ancora stata del tutto sviluppata. Peccato.
 
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 Il viaggio del lettore
 
Avendo avuto l’opportunità di leggere in anteprima questo nuovo libro di marketing per autori indipendenti di David Gaughran (ho ricevuto una cosiddetta ARC, una copia fornita in anticipo ad alcuni lettori), ho pensato di cogliere l’occasione per scriverne una recensione un po’ diversa dal solito, che, oltre a parlare del libro, potesse includere alcune mie riflessioni su come il self-publishing si è evoluto nel mercato anglofono e come tale evoluzione, per la sua stessa natura, non può al momento interessare quello italiano.
 
Prima di tutto, anche questo libro conferma ciò che penso dell’autore. A differenza di altri che pubblicano libri sul self-publishing, Gaughran riduce al minimo gli aspetti autoreferenziali, portando anche esempi concreti di altri autori e cercando di prendere in considerazione le problematiche di un autore qualsiasi. Ovviamente si basa sulla propria esperienza, ma non necessariamente come autore. Infatti, più avanti nel libro scopriamo che lavora come consulente per un altro autore (con caratteristiche completamente diverse dalle sue, poiché scrive fantascienza e pubblica in esclusiva su Amazon), inoltre è costantemente interessato a ricevere feedback da altri, poiché avere sempre del contenuto interessante da proporre nella newsletter fa parte della sua strategia.
 
Un’altra sua caratteristica è che i suoi libri non sono un elenco schematico di fatti più o meno noti intervallati da tentativi di motivare gli altri autori, in cui abbondano elenchi, schemi e figure che ne aumentano la lunghezza, e ripetizioni sia nello stesso libro che in altri simili. I suoi libri sono solo testuali e sono scritti in una prosa discorsiva che li rende davvero “avvincenti”, senza dare l’impressione che ti stia prendendo per i fondelli. Riesce a sviluppare gli argomenti in un modo che non sembra affatto schematico (ma ovviamente dietro c’è un outlining ben preciso), come se ti stesse facendo un discorso a braccio. È sintetico, arriva dritto al punto e dice chiaramente come stanno le cose (anche quando si tratta di cose non piacevoli). Per questo motivo i suoi libri sono corti, ma non certo perché ci siano poche informazioni.
 
Per via di questa sua peculiarità nello scrivere, forse il modo migliore per fruire di questo suo libro è prendere nota dei passaggi interessanti durante la lettura o magari mettere un segnalibro sul Kindle per poi tornarci in seguito. Così il lettore si crea il suo schema personale che elenca solo quegli aspetti che gli sono utili, invece di doversi adattare allo schema e agli elenchi puntati di altri.
 
Ma veniamo al contenuto.
Partiamo proprio dal titolo del libro: da sconosciuti a superfan. Il libro parla proprio di questo: in che modo uno sconosciuto arriva a un libro, decide di comprarlo, lo legge (fino alla fine, cosa tutt’altro che scontata) e magari ne compra un altro e/o decide di iscriversi a una mailing list e/o parla agli altri del libro, in pratica diventa un superfan. Il cuore del libro non è spiegare come fare in modo che ciò accada, ma proprio spiegare come accade, vale a dire quale è il viaggio del lettore e in quale parte del viaggio dei nostri potenziali lettori c’è un problema tale da interromperlo.
Il problema, secondo Gaughran, non è la discoverability, poiché chiunque può “comprare traffico” (indirizzare della pubblicità) verso la pagina del prodotto di un libro (si concentra soprattutto su Amazon), bensì inviarci il traffico giusto, cioè scegliere il target giusto, fargli trovare la giusta accoglienza, il libro giusto che abbia voglia non solo di acquistare, ma anche di iniziare a leggere, finire di leggere (il 40% dei lettori abbandona un libro iniziato) e indurlo a fare delle cose dopo la lettura.
In realtà, se ci pensiamo bene, dice tutta una serie di cose che già sappiamo, ma lo fa in una maniera tale da farcele guardare da una nuova prospettiva e dare a tutte queste un senso logico.

Dopo aver descritto il viaggio del lettore, fa un analisi dei sintomi che permettono a noi autori di capire in quali fasi di questo viaggio stiamo sbagliando.
Stiamo scegliendo un target sbagliato per la pubblicità? Ci sono dei problemi nella descrizione, nella copertina, nel prezzo? C’è qualche problema dentro il libro? O nelle sezioni poste all’inizio o alla fine?
Infine cerca di spiegarci come risolvere questi problemi. Questa ovviamente è la parte più corta, poiché lui è costretto a parlare in generale e, invece, ogni libro è un caso a sé, ma riesce comunque a fornire dei consigli utili.
Il più importante è quello di muoversi al contrario nel sistemare i problemi che possono bloccare il viaggio del lettore: cioè partire dal migliorare il libro, poi spostarsi alla pagina del prodotto e infine sistemare le pubblicità che usiamo per mandare potenziali lettori verso il libro.
 
La questione di base è che dà per scontato che siamo in grado e disposti a spendere di continuo delle cifre sostanziose in pubblicità, poiché in caso contrario non arriveremo mai a nulla.
Questa è anche la triste verità dell’attuale situazione. Possiamo scordarci i casi eclatanti come John Locke (ve lo ricordate?) o più recentemente Andy Weir (che adesso è pubblicato da un grosso editore), che sono riusciti a vendere tantissimo solo scrivendo tanti libri a 99 cent (nel primo caso) o sfruttando i contatti creati sul proprio blog (nel secondo caso). Questi due, e altri simili, hanno raggiunto subito il successo, perché sono stati tra i primi a fare qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima. Sono stati pionieri in un nuovo mercato e si sono trovati così nelle condizioni di sfruttare al massimo, e quasi del tutto casualmente, le opportunità offerte dall’algoritmo di Amazon,che suggerisce nuovi libri da acquistare ai suoi clienti.
Adesso per arrivare in alto bisogna spendere tanto e continuare a farlo. Se lo fai male, vai in perdita. Se ti fermi, le vendite crollano.

Mi rendo perfettamente conto che Gaughran ha ragione, ma anche che questa nella maggior parte dei nostri casi non è una via percorribile (poiché per esempio qui in Italia come privati non possiamo dedurre quelle spese né possiamo pensare di aprire una casa editrice solo per i nostri libri, quindi anche ottimizzando al meglio le pubblicità è già un’utopia andare in pari; per non parlare del fatto che magari queste spese non ce le possiamo proprio permettere) o semplicemente non esistono i mezzi per seguirla (nel mercato italiano l’unico strumento pubblicitario utile in questo senso è Facebook, che però è troppo generico e poco efficiente nel profilare i lettori).
Quindi ciò che è riportato nel libro è utile quasi esclusivamente per i mercati anglosassoni.
 
Nello specifico Gaughran fa molto affidamento sull’uso alle pubblicità di Bookbub (da non confondere con i featured deals), che danno dei risultati molto migliori rispetto alle pubblicità di Facebook e a quelle di Amazon.
Queste ultime sono disponibili solo sul mercato USA (ovviamente solo su Amazon), e sono anche le più scadenti in quanto a risultati. E infatti ne accenna appena.
Quelle su Facebook sono le uniche applicabili a qualsiasi mercato, incluso quello italiano, ed è un peccato che non vengano approfondite in questo libro. Ma il punto è che l’autore non lo fa proprio perché le considera poco efficaci.
Le pubblicità di Bookbub invece possono essere usate per raggiungere qualsiasi lettore in USA, UK, Canada, Australia e anche in India. Inoltre si possono creare manualmente dei link a qualsiasi retailer o sito in generale, scegliendo la combinazione paese-link che si preferisce.
 
A proposito dei suggerimenti che dà, ci sono due aspetti che ho trovato interessanti.
Il primo riguarda i libri non presenti in Kindle Unlimited (KU). Secondo Gaughran, gli autori di questi libri non devono fissarsi con Amazon, poiché non hanno nessuna possibilità di scalare le classifiche. Ciò che conta è che alla fine della fiera, sommando tutte le sorgenti di guadagno, arrivino a una cifra totale interessante. A questo scopo possono utilizzare le pubblicità di Bookbub indirizzandole a mercati più piccoli, in cui c’è meno concorrenza e soprattutto ci sono poche offerte scontate (a differenza di quanto accade su Amazon), come, per esempio, Kobo o Apple in Australia.
Il secondo riguarda Amazon e i libri in KU (vi ricordo che per farne parte bisogna pubblicare in esclusiva su Amazon), che di fatto guadagnano bene non direttamente tramite la pubblicità, ma attraverso l’ondata di pagine lette che appaiono dopo circa una settimana. In pratica, secondo lui, chi è su KU deve essere molto aggressivo con la pubblicità (spendere ancora più soldi), ma farlo per soli cinque giorni e poi raccogliere i frutti per il resto del mese. Quindi riprendere da capo il mese successivo, senza mai fermarsi.

A questo proposito c’è una mezza contraddizione quando dice che questo sistema si può applicare in parte anche con i libri non su KU, perché tanto guadagneranno sempre di più da Amazon. Solo che questi ultimi non hanno le pagine lette, quindi c’è il forte rischio di andare in perdita.
Di fatto l’argomento non viene approfondito e per i non-KU resta solo: il consiglio di fare pubblicità sugli altri store e quello di usare la mailing list, inviando spesso materiale utile agli iscritti. Questo è ciò che fa lui, ma diventa un po’ difficile se pubblichi narrativa. Che devo scrivere ai lettori? Quando dovrei trovare il tempo per farlo? Ma, soprattutto, siamo sicuri che a loro freghi qualcosa?
Inoltre, se un lettore è già nella tua mailing list, vuol dire che ha portato a termine il suo viaggio, quindi in realtà questo consiglio non è una soluzione al problema di partenza.
 
Insomma, l’idea che mi sono fatta è questa.
Se hai i libri su KU, spendi un sacco sulla pubblicità e usa i suoi suggerimenti per migliorare il viaggio del lettore.
Se non hai i libri su KU, è un casino, a meno che non scrivi non-fiction per un pubblico di lettori in cerca di informazioni, come fa Gaughran.
In realtà è autore anche di diversi libri narrativa, ma il fatto che si sia rimesso a pubblicare non-fiction e che adesso faccia il consulente per un altro autore mette in evidenza come sia difficile avere risultati sufficienti esclusivamente con la narrativa, se allo stesso tempo non si propone un certo tipo di prodotto (una serie in determinati generi) e non si è su KU.
 
In ogni caso il mio giudizio è molto positivo (da qui le cinque stelle), perché comunque Gaughran è onesto, non promette formule magiche e dice chiaramente che c’è tanto lavoro da fare e che non è affatto così facile farlo. Inoltre il libro parla effettivamente di ciò che è promesso nel titolo, né più né meno. E infine è ben fatto, sotto ogni punto di vista, e scritto molto bene.
La sua utilità per migliorare le vendite di un libro è limitata all’autore che pubblica sul mercato anglosassone (e preferibilmente in esclusiva su Amazon), però è sicuramente uno strumento molto interessante per comprendere le modalità con cui un lettore sconosciuto diventa un fan e individuare i punti deboli presenti nei nostri prodotti editoriali che mettono a rischio il suo viaggio.
Purtroppo la discoverability resta per noi italiani ancora il problema più grosso, poiché comprare traffico non è così semplice, ma dalla nostra abbiamo il fatto che il mercato dell’editoria digitale in Italia è ancora abbastanza piccolo da permetterci di usare vie alternative per far scoprire il nostro libro. È più facile uscire dall’invisibilità. Un piccolo mercato, però, significa anche che il ritorno dal punto di vista economico tende a essere altrettanto limitato.
Allo stesso tempo c’è da considerare che il fenomeno di KU anche in Italia ha completamente cannibalizzato le classifiche e gli algoritmi di Amazon, escludendone di conseguenza i titoli che non sono venduti solo su questo store. Questi non hanno quasi più alcuna possibilità di raggiungere i vertici delle classifiche di popolarità (che sono più importanti di quelle dei libri più venduti) dei generi più popolari e affollati, né di beneficiare, se non per brevissimi periodi, dell’algoritmo che suggerisce i libri ai lettori e che, negli anni passati, ha determinato numerosi casi clamorosi di successo di cui gli stessi autori non erano in grado di individuare le cause.
 
Strangers to Superfans (ebook Kindle) su Amazon.it.
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Leggi tutte le mie recensioni e vedi la mia libreria su:
aNobii: 
http://www.anobii.com/anakina/books
Goodreads: http://www.goodreads.com/anakina
 
Di Carla (del 21/04/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2407 volte)

 Un’Islanda umida, sporca e cattiva
 
L’agente Erlendur della polizia di Reykjavík sta investigando sull’omicidio di un camionista. Sembra un banale caso di tentativo di rapina andato male, ma le indagini lo portano lontano, nel passato della vittima.
L’immagine che l’autore dà dell’Islanda è inquietante e cupa. In un autunno buio e piovoso Erlendur e i suoi colleghi raccolgono prove, interrogano e scavano, talvolta letteralmente, fino a far emergere una storia di stupri, suicidi e malattie mortali.
La stessa cupezza è presente anche nella sottotrama che coinvolge la figlia di Erlendur, Eva Lind, e quella di una ragazza che inspiegabilmente sparisce subito dopo il matrimonio. Qui abbiamo a che fare con droga e abusi.
Immerso in questa ambientazione tutt’altro che allegra, il lettore viene rapito dalla storia e cerca di seguire i ragionamenti del protagonista nel tentare di cavarne piede con un caso estremamente intricato, di quelli che nella realtà, se mai venissero risolti, impiegherebbero mesi se non anni di indagini. Qui l’autore è bravo a centellinare le informazioni e, quando il lettore crede di avere capito qualcosa, a distrarlo con un colpo di scena. E, nonostante la grande quantità di dettagli e i tanti nomi non semplicissimi da ricordare, si riesce comunque a seguire agevolmente la storia fino alla sua conclusione.
Ecco, se devo trovare qualcosa di negativo in questo libro è proprio il finale, sia quello del caso che il breve epilogo. Il primo è forse un po’ troppo drammatico (non spiego perché, per evitare lo spoiler). Il secondo, nel modo in cui viene mostrato, è un po’ troppo affrettato. Sembra quasi di leggere le frasi scritte alla fine di un film in cui si racconta cosa è accaduto successivamente ai personaggi, seguite dalla classica brevissima scena dopo i titoli di coda.
 
Sotto la città (Kindle, brossura) su Amazon.it.
Sotto la città (Kindle, brossura) su Amazon.com.

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