Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Nel leggere libri di fantascienza o guardare film e serie TV di questo genere mi è capitato spesso di notare come tra i temi preferiti ci sia quello di dare una risposta ad alcune delle grandi domande che l’Uomo si pone, quali: “Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?”
Lo si fa chiaramente attingendo a piene mani dal fantastico e legando a esso elementi scientifici, in maniera tale da non permettere al lettore (o spettatore) di comprendere il sottile confine che li delimita. Ma c’è un altro campo a cui la fantascienza spesso e volentieri trae spunto. Sto parlando di spiritualità e in particolare di religione.
D’altronde le domande sopraccitate sono le stesse che fungono da fondamento al concetto stesso di religione, sebbene in tal caso le risposte vengono cercate in qualcosa di tutt’altro che tangibile. Il bisogno di dare una risposta a queste domande è infatti alla base della nascita di tutte le religioni del mondo. Non ci deve quindi stupire se all’interno di molte storie di fantascienza facciano capolino alcuni tra i più noti archetipi religiosi, rielaborati in un contesto diverso.
Qualche tempo fa ho affrontato questo tema a grandi linee nell’ambito della mia rubrica “ Life On Mars?” su FantaScientificast.it e tornerò a parlarne nella mia prossima incursione nel programma, che avrà luogo a metà febbraio.
Nel frattempo vorrei approfondire questo argomento anche qui nel mio blog, per mostrarvi alcuni dei modi in cui la spiritualità e la religione appaiono in forme diverse in ambito fantascientifico, talvolta senza che ce ne rendiamo conto.
L’argomento è complesso e non è affatto semplice affrontarlo in maniera schematica. Proverò quindi a muovermi con una certa libertà da una tematica all’altra, facendovi alcuni esempi tratti dalla fantascienza.
In questo post vorrei trattare in particolare del trinomio scienza-religione-magia. Queste tre discipline che al giorno d’oggi sono chiaramente distinte e distinguibili nell’ambito della civiltà contemporanea occidentale, non lo erano altrettanto se si va indietro nel passato. Esse sono spesso tre diverse interpretazioni di certi fenomeni in base agli occhi dell’osservatore. Nelle civiltà antiche, come quella egizia, la scienza, la religione e la magia erano di fatto la stessa cosa. Non avendo le conoscenze scientifiche di adesso, gli antichi egizi tendevano a fondere i tre ambiti come diverse espressioni del volere dei loro dei, che non erano considerati come delle entità irraggiungibili da adorare, ma erano parte integrante della loro vita. Ed erano proprio certi eventi, che ai loro occhi apparivano magici o prodigiosi, che diventavano di fatto la prova della presenza divina. Gli stessi eventi con le conoscenze attuali sarebbero, invece, potuti essere più semplicemente spiegati in maniera scientifica, spogliandoli di tutto il loro aspetto mistico.
Questo sottile confine che separa la scienza, la religione e la magia è spesso argomento di molte storie di fantascienza. L’esempio forse più eclatante è Star Wars, dove la Forza viene all’inizio presentata, nella vecchia trilogia, come una sorta di religione che si manifestava con poteri apparentemente soprannaturali e che veniva spesso tacciata col termine “superstizione”. Nella nuova trilogia questo aspetto è venuto meno dal momento in cui si è voluta dare una spiegazione scientifica al fenomeno (tramite i midichlorians), portando sempre più l’equazione scienza/religione/magia verso il lato scientifico, a discapito di quello prodigioso o magico.
L’esempio che facevo prima dell’antico Egitto trova forse la sua massima espressione in un’altra saga fantascientifica, quella di Stargate. In essa si sfrutta in pieno il concetto per cui l’ignoranza dell’Uomo lo porta a dare spiegazioni spirituali a eventi di natura scientifica. Nella fattispecie si trattava di alieni che si fingevano divinità e come tali venivano adorati, permettendo loro di soggiogare la popolazione umana di migliaia di anni fa. Gli stessi alieni messi a contatto con l’Uomo moderno vengono smascherati dalla loro aura magica e appaiono per quello che sono: esseri provenienti da pianeti lontani con tecnologie enormemente superiori alle nostre, ma che altro non sono che frutto della scienza, che come tale può essere compresa, controllata e combattuta.
Non è un caso che i due esempi che ho fatto rientrino nel sottogenere della space opera. Quest’ultima infatti, oltre a raccontare storie di viaggi spaziali e di tecnologie estremamente avanzate, che spesso prendono spunto da conoscenze scientifiche reali, di norma affronta argomenti di natura politica, sociologica e anche religiosa o più in generale spirituale, nel tentativo di trasferire temi della realtà odierna in altri universi immaginari. Un’operazione, questa, che ha sempre molta presa sul pubblico.
C’è un saga in cui questo meccanismo viene sfruttato al meglio tanto da diventare il suo tema portante, facendo addirittura venire meno il semplice dualismo tra bene e male e trasformando quest’ultimo in qualcosa di soggettivo. Sto parlando di Battlestar Galactica (la serie reinventata proposta a partire dal 2004). Questa sarà, però, oggetto proprio della mia prossima apparizione su FantaScientificast e coglierò l’occasione di parlarvene più diffusamente in un prossimo post, in cui tratterò dell’uso della religione e della spiritualità nella fantascienza come strumento che aumenta la credibilità della storia.
Nella mia ultima partecipazione a FantaScientificast ho avuto modo di dare il mio contributo al Team UP dedicato al media franchise di Battlestar Galactica, analizzando quelli che sono gli elementi religiosi e spirituali di questa saga. In questo post voglio ritornare sull’argomento, riepilogando alcuni aspetti di questo ennesimo connubio tra spiritualità e fantascienza (vi consiglio comunque di ascoltare il podcast, perché in circa 30 minuti si affronta in maniera più esaustiva il discorso).
C’è da dire che senza dubbio Battlestar Galactica è uno dei migliori esempi del rapporto speciale che lega l’immateriale e la scienza. Tutta la saga di Battlestar Galactica è infatti impregnata dell’elemento spirituale, tanto che la religione ne rappresenta uno dei suoi pilastri portanti.
Senza dilungarmi in spiegazioni (vi invito a leggere su Wikipedia i dettagli) riassumo i punti principali delle religioni presenti nella saga.
Da una parte abbiamo le Dodici Colonie, che venerano gli Dei di Kobol. La loro è una religione politeista, che trae spunto principalmente dalla mitologia greco-romana, congiunta a numerosi aspetti comuni del Cristianesimo, dell’Ebraismo, ma anche della religione dell’antico Egitto (inclusa la divinità Iside, unica non greco-romana). Secondo le loro Sacre Pergamene, un tempo gli umani vivevano a Kobol in una sorta di simbiosi paradisiaca con gli dei. A un certo punto un dio geloso avrebbe deciso di porsi al di sopra degli altri, scatenando una guerra, che aveva portato alla fine della civiltà di Kobol e all’esodo delle dodici tribù (che poi alla fine si scoprono essere tredici).
Dall’altra parte ci sono invece i Cyloni, che sono monoteisti. Essi non rinnegano quanto avvenuto a Kobol, ma affermano che gli Dei di Kobol siano dei falsi dei e che esista un unico Dio, creatore dell’umanità, la quale però è risultata essere una creazione fallita. Per questo motivo il loro compito è di distruggerla e di sostituirsi a essa.
La religione monoteista dei Cyloni, come si scopre nel prequel Caprica, deriva dalla Chiesa Monade, una setta monoteista preesistente nelle Colonie. Questa era legata a un gruppo terroristico, i Soldati dell’Unico, di cui faceva parte Zoe Greystone, figlia di Daniel Greystone, inventore dei Cyloni, e a sua volta inventrice della coscienza digitale, da cui deriva quella dei Cyloni.
Questo è lo scenario in cui si muove la storia di Battlestar Galactica, al cui interno si possono raggruppare cinque macrotematiche di carattere religioso e/o spirituale.
La prima di queste è l’uso dei temi religiosi per coadiuvare la sospensione dell’incredulità. Infatti i molti richiami a temi religiosi umani universalmente noti e riconoscibili, del presente o del passato, forniscono allo spettatore dei riferimenti reali, quotidiani, che ne facilitano l’immedesimazione nella storia. Tutta Battlestar Galactica in realtà si basa sul principio di inserire elementi della quotidianità accanto ad altri più tipicamente fantastici, e questa pratica è senza dubbio uno dei motivi per cui questa serie sia stata in grado di colpire in maniera così profonda l’immaginario collettivo. È normale che ciò venga quindi applicato anche al tema religioso, che ne rappresenta un argomento portante.
E qui ci ricolleghiamo alla seconda macrotematica: la religione intesa come motore delle azioni all’interno della storia. Ciò riguarda entrambe le fazioni in gioco. Come detto, i Cyloni considerano l’umanità un errore di Dio, quindi le loro azioni, atte a sostituirsi a essa, possono essere interpretate come una sorta di crociata. La religione è senza dubbio alla base di queste loro azioni. Non ne sono esenti però neppure gli umani, che arrivano a seguire i dettami religiosi, le Sacre Pergamene, per trovare la Terra. Di certo al loro interno vi è molta più eterogeneità di vedute in questo senso, rispetto a quanto avviene nei Cyloni, almeno all’inizio (successivamente anche in quest’ultimi si creeranno delle fazioni). Molti umani non sono affatto religiosi e questo accettare di seguire quanto riportato nelle scritture è più che altro una scelta di comodo, dettata dal desiderio di trovare una nuova casa. Vogliono credere che alla loro base ci sia qualcosa di vero, perché vogliono trovare la Terra. Comunque sia, credenti o no, anche gli umani finiscono per farsi coinvolgere dall’elemento religioso.
La terza macrotematica è un argomento molto caro alla fantascienza, soprattutto a quella più contemporanea: la metafora dell’immortalità dell’anima, che nel caso di Battlestar Galactica viene ottenuta tramite il download dei ricordi dei Cyloni in nuovi corpi, dopo la loro morte. Un tale meccanismo fornisce ai Cyloni una vera e propria immortalità della loro coscienza, o meglio di una sua copia, che continua a vivere anche dopo la morte del corpo. L’assimilazione del download a una sorta di immortalità avviene in maniera del tutto esplicita in Caprica, dove i Soldati dell’Unico vengono convinti a sacrificarsi, illudendoli che la loro anima continuerà a vivere in paradiso, quando in realtà si tratterà di un loro clone virtuale, che verrà trasferito nella realtà virtuale. Il clone virtuale però non è l’individuo originale, ma solo una copia della sua coscienza. Quella originale muore con il suo corpo.
Una quarta macrotematica riguarda l’utilizzo di archetipi religiosi ebraico-cristiani (ma non solo) all’interno della religione delle Dodici Colonie. Abbiamo il Giardino dell’Eden, rappresentato da Kobol, dove uomini e dei vivono in armonia. Abbiamo il tema dell’Esodo o, più propriamente, quello dell’Arca di Noè. La guerra che avviene a Kobol, distruggendo la civiltà, è come un Diluvio Universale che elimina il male e dal quale si salvano solo coloro che si imbarcano in queste astronavi (arche) per andare a fondare una nuova civiltà.
In questo modo si inserisce il popolare tema fantascientifico di rimandare all’indietro all’infinito l’origine dell’umanità (l’umanità che deriva da un’altra umanità aliena). In questo caso specifico, se il discorso a ritroso si ferma a Kobol, si presume un’origine divina dell’Uomo, a immagine e somiglianza degli dei, concetto presente nel Cristianesimo, ma anche nella religione egizia, dove i primi faraoni erano gli dei e l’origine dell’uomo si confonde nella mitologia.
Infine l’ultima macrotematica riguarda tutta una serie di elementi prettamente spirituali all’interno della saga, che risultano del tutto privi del tentativo di una spiegazione scientifica, e talvolta anche logica. Tra questi si annoverano le visioni profetiche condivise tra il Presidente Roslin, Sharon Agathon e Caprica Sei. Sebbene le visioni della Roslin vengono inizialmente spiegate dall’uso di una droga, non vi è alcuna giustificazione scientifica del fatto che le condivida con due Cyloni e soprattutto che queste poi si avverino.
L’altro elemento prettamente spirituale sono gli angeli. Abbiamo gli angeli di Numero Sei e Baltar, che sono visibili solo al vero Baltar e a Caprica Sei, ma non sono frutto della loro immaginazione né qualche loro clone virtuale. Essi infatti interagiscono fisicamente all’interno delle scene e forniscono loro informazioni, che in alcun altro modo potrebbero avere. Sono quindi delle vere entità paranormali. Il tutto si estremizza ancora di più con l’angelo di Kara Thrace, che torna dopo la sua morte in forma umana e che avrà un ruolo determinante, grazie alle sue inspiegabili conoscenze, nel portarli nella nuova Terra, dove, guarda caso, ci sono già degli esseri umani primitivi. Al termine del suo compito l’angelo sparisce.
Con gli angeli Battlestar Galactica sconfina senza possibilità di appello nel fantasy, in quanto la loro presenza e il loro ruolo devono essere accettati per fede. Quest’ultimo aspetto in un certo senso ha fatto un po’ storcere il naso ai fan, non tanto per il suo essere spirituale, ma per l’assenza di un tentativo di dare a essi la minima spiegazione logica, come se gli autori non fossero stati in grado di trovarne una. D’altra parte bisogna ammettere che la loro presenza contribuisce a creare l’alone di mistero e poesia che caratterizza il finale della serie, un finale che in ogni caso sarebbe stato difficile da accettare, poiché nessuno avrebbe mai voluto mettere la parola fine a Battlestar Galactica.
Lo scorso marzo, come sapete, ho partecipato a una puntata di Fantascientificast con la mia rubrica Life On Mars? per parlare del ruolo della religione e della spiritualità nel media franchise di Battlestar Galactica. Sempre nella stessa puntata ho dedicato l’ultima parte del mio intervento a “Deserto rosso”, questo perché anche la mia serie non è affatto esente da elementi religiosi.
In realtà il collegamento con Battlestar Galactica è partito da un piccolo aneddoto, che riguarda l’origine dei nomi delle due missioni della NASA che si trovano all’interno della storia: Isis ed Hera. La prima, che è la parola inglese per Iside, deriva semplicemente dalla nota divinità dell’antico Egitto (e qui siamo già in tema religioso). Essendo un’egittofila, mi diverto a inserire questi elementi nelle mie storie. La seconda missione deve il suo nome ancora una volta a una divinità, cioè la moglie di Zeus. Per scegliere questo nome, però, essendo io una nerd, invece di andare a cercare un elenco di divinità greco-romane, ho preferito passare in rassegna quelle di Battlestar Galactica! Tra l’altro la scelta è poi caduta su Hera, non tanto per il suo essere divinità, ma perché si tratta di un personaggio della saga (Hera Agathon). Solo successivamente ho scoperto che, all’interno della religione di Battlestar Galactica, Iside ed Hera sono considerate delle divinità sorelle, inoltre (e questo proprio non lo ricordavo) i due nomi sono quelli dati al personaggio in questione in momenti diversi della serie.
Insomma, la fiera delle coincidenze!
Ma parliamo di quelli che sono effettivamente gli elementi religiosi in “Deserto rosso”.
Il più evidente è senza dubbio l’inserimento della storia di un personaggio musulmano (Hassan), laddove la nostra protagonista, Anna, è caratterizzata da una malcelata intolleranza nei confronti degli uomini di origine mediorientale. Sebbene il suo pregiudizio abbia origini personali (suo padre è mediorientale), ha come unica discriminante solo il suo aspetto religioso, poiché l’unico elemento che differenzia i due personaggi è proprio la religione, visto che fanno parte dello stesso gruppo etnico. Comunque sia, l’inserimento di questa sottotrama serve a due scopi.
Il primo è creare conflitto tra i due personaggi, da cui sorge la diffidenza e i dubbi di Anna nei confronti di Hassan. Anna, però, lontano dalle convenzioni terrestri si rende conto che i suoi pregiudizi non hanno una base razionale e li vedrà pian piano smontati da Hassan. Nonostante questo, a livello istintivo non riesce del tutto a liberarsene, o almeno questo processo è destinato a svolgersi lentamente lungo la storia.
Il secondo scopo dell’inserimento di questa tematica è, invece, immedesimare il lettore, favorendo la sospensione dell’incredulità. Questo è possibile in quanto, visti i fatti di attualità, nel mondo occidentale esiste un’ambivalenza di sentimenti nei confronti dell’Islamismo e dei musulmani: sospetto ma anche curiosità. Questa ambivalenza è ancora maggiore in Anna. L’Islamismo rappresenta la sua identità culturale, che però le è stata negata, e Hassan è l’unico al quale può attingere in questo senso.
Da qui il suo disprezzo e nello stesso tempo l’interesse nei suoi confronti.
Il personaggio di Anna, inoltre, per sua stessa ammissione non possiede una fede, ma allo stesso tempo è incuriosita dal concetto di fede, poiché la vede come qualcosa che ipoteticamente potrebbe dare un senso alla sua esistenza incerta. Anna è una donna molto insicura nel porsi di fronte agli eventi e alle scelte, sente di aver bisogno di un punto fisso nella sua vita. La sua fragilità deriva dalla necessità di dimostrare al mondo che il fatto stesso di essere nata non è stato un errore. In questa sua condizione psicologica, amplificata dagli eventi che sta vivendo, guarda con curiosità mista a sospetto alla fede di Hassan.
In questi ultimi due episodi emergono, però, altre due tematiche che hanno a che vedere con la religione.
Una di queste è il tema della coppia, che vediamo nella comunità di Ophir. Ogni persona di questa comunità ha un compagno, può trattarsi di un marito o una moglie, ma anche di un fratello o una sorella, nel caso dei bambini. L’importanza della coppia verrà in particolare approfondita in “Ritorno a casa” e, nel parlare di questa tematica, ammetto che ancora una volta mi sono rifatta all’antico Egitto. Qui la coppia costituita dal Faraone e la sua Grande Sposa Reale aveva un ruolo molto importante sia a livello politico che religioso. Era essenziale che a capo delle Due Terre ci fosse una coppia e non una sola persona. Queste coppie avevano una ragione di esistere più rituale che personale. In questo contesto non era raro che la Grande Sposa Reale fosse una sorella o una figlia del Faraone, senza che ciò implicasse alcuna relazione di carattere sessuale tra i due (esistevano le spose secondarie a questo scopo). Spesso il Faraone era troppo giovane e quindi era la sua Sposa a governare. O ancora la Sposa rimasta vedova nominava il nuovo Faraone. La cosa importante è che in un modo o nell’altro dovevano essere in due per ottenere il favore degli dei.
Questo argomento, cioè la necessità di essere in due, si trova anche in “Deserto rosso” e sarà una sottotrama importante di “Ritorno a casa”.
Esiste poi un ultimo argomento, ma, se anche mi limitassi a citarlo, diventerebbe un grosso spoiler per chi non ha letto ancora il terzo episodio. Di per sé non è religioso, ma più che altro spirituale. Riguarda la coscienza, la cui controparte religiosa non è altro che l’anima, ma nella storia ciò viene affrontato in maniera quasi scientifica. Tra l’altro si tratta di un tema molto diffuso nella fantascienza, sia classica che contemporanea. Non posso dire altro, ma chi ha letto “Nemico invisibile” di certo ha capito a cosa mi riferisco.
Risale a novembre il mio più recente intervento su FantaScientificast con la mia rubrica “ Life On Mars?”. E come al solito eccomi a riproporre l’argomento trattato in un post di approfondimento sul mio blog.
Come potete evincere dal titolo o ascoltando il podcast, l’argomento è la Trilogia del Vuoto dell’autore britannico Peter F. Hamilton. Siccome è un tema che mi è molto caro, poiché Hamilton è uno dei miei autori preferiti, e c’è decisamente tanto da dire, ho deciso di dedicargli una serie di ben tre post.
Informazioni generali sui libri della serie
La Trilogia del Vuoto è una serie dell’autore britannico di fantascienza Peter F. Hamilton ed è inserita nello stesso universo del ciclo del Commonwealth (Federazione, nella traduzione italiana della trilogia), che comprende altri due libri: “ Pandora’s Star” e “ Judas Unchained”, che però non sono disponibili in lingua italiana. Il primo libro della trilogia è inserito cronologicamente 1200 anni dopo l’ultimo di questi due. La trama fa spesso riferimento a questa saga, ma non leggerla non compromette la comprensione della trilogia.
In lingua originale la serie comprende, ovviamente, tre libri, i cui titoli sono:
In italiano stranamente i libri diventano quattro:
“Il sogno del vuoto” (2010, Urania Millemondi primavera)
“Il tempo del vuoto” (2011, Urania Millemondi primavera)
La mia lettura dei libri risale al 2010, quando uscì il primo in italiano e l’ultimo in inglese. Un po’ perché la traduzione dell’edizione di Urania non mi aveva particolarmente soddisfatto (soprattutto a causa dell’astronomico numero di refusi) e un po’ perché non avevo voglia di aspettare, dopo aver letto “Il sogno del vuoto”, ho completato la lettura della trilogia con le edizioni in lingua originale.
Inoltre la trama, che è molto complessa e ricca di personaggi, è senza soluzione di continuità, quindi attendere tra un libro e l’altro comporta il rischio di dimenticarsi tutto o quasi. Ci sono addirittura personaggi importanti che compaiono per la prima volta verso la fine del primo libro, che si conclude con un discreto cliffhanger.
Al di là di questo, ho trovato discutibile l’aver diviso l’ultimo libro in due volumi nell’edizione italiana, portando il costo totale di questo romanzo a 15 euro, decisamente alto per un prodotto da edicola.
Per chi volesse leggere l’intera trilogia in italiano purtroppo non esiste alcuna possibilità di reperire i primi due libri in maniera diretta, se non tramite qualche mercatino dell’usato. Le due parti de “ L’evoluzione del vuoto” sono invece disponibili in formato ebook su Amazon e altri retailer.
Trama
La storia è ambientata nel trentaseiesimo secolo.
Il Vuoto è una sorta di universo auto-contenuto che si trova al centro della galassia ed è studiato da milioni di anni da degli alieni chiamati Raiel. Essi credono che sia una minaccia per la vita nella galassia a causa della sue sporadiche fasi di espansione, che divorano interi sistemi solari vicini al nucleo della galassia. Uno di tali eventi accadde diverse centinaia di migliaia di anni prima, cosa che spinse i Raiel a creare una classe di astronavi interstellari chiamata High Angel con lo scopo di portare in salvo eventuali civiltà senzienti in caso di una nuova espansione. La casta di guerrieri Raiel serve a proteggere il Vuoto da qualsiasi intrusione da parte di altri essere viventi della galassia, poiché essi temono che questa possa scatenare un’ulteriore espansione.
Il Vuoto non è però un sistema naturale. Al suo interno c’è uno strano universo con leggi della fisica diverse da quelle che conosciamo.
Nel 3589 un essere umano, chiamato Inigo, ha iniziato a sognare un’esistenza meravigliosa all’interno del Vuoto. I suoi sogni sono stati trasmessi al resto dell’umanità tramite il Campo Gaiano, una sorta di social network delle emozioni, reso possibile negli esseri umani potenziati che contengono un innesto nel loro cervello. Questo permette anche di immagazzinare i pensieri e offre tutta una serie di vantaggi, tra cui collegarsi in tempo reale alla rete (Unisfera), comunicare, caricare programmi, nozioni e così via.
Molti esseri umani sono potenziati e vivono per centinaia di anni. I loro pensieri, la loro essenza, coscienza, può essere immagazzinata in server, in caso muoiano e venga creato un clone in cui ricaricarla. In pratica non si muore mai, tant’è che dopo una vita lunghissima gli esseri umani decidono di abbandonare la vita fisica per scaricare la loro coscienza nel cosiddetto ANA ( Advanced Neural Activity), una sorta di enorme raccoglitore di questi esseri virtuali, in cui essi continuano a vivere come pensiero, e che è diventato il governo del Commonwealth (Federazione), in altre parole degli esseri umani.
I sogni di Inigo raccolgono intorno a sé a folto un gruppo di credenti, che nel tempo costituiscono una religione Living Dream (Sogno Vivo, nella traduzione italiana) e che venerano il protagonista di questi sogni (Edeard). Questi credenti vivono in un pianeta, dove hanno ricreato il modello di vita, e addirittura la città (Makkathran 2), che hanno visto nei sogni di Inigo. Essi sono, infatti, ambientati in un pianeta nel Vuoto chiamato Querencia.
Questi credenti sono così fanatici che vogliono organizzare un pellegrinaggio nel Vuoto per vivere la vita che è stata a loro mostrata. Ma i Raiel e altre specie (compresi gli altri esseri umani) temono che la loro migrazione, che sono certi porterà alla loro morte, possa causare un’ulteriore espansione del Vuoto. Perciò sono pronti a fermare questo pellegrinaggio a ogni costo.
Questo è solo l’ antefatto da cui parte la storia che si sviluppa all’interno della trilogia. Nel leggere la trama si notano subito alcuni elementi religiosi e spirituali, che ricorrono spesso nella space opera, ma mi riservo di analizzarli uno per uno nel prossimo post di questa serie, e di mostrare come l’autore giochi con questi temi facilmente riconoscibili, per poi ricondurre il tutto a una sua visione molto razionale della realtà.
La settimana scorsa ho inaugurato questa serie di post dedicata alla Trilogia del Vuoto di Peter F. Hamilton, facendo una carrellata dei libri che la costituiscono, sia in lingua originale che in italiano, e riassumendo l’antefatto da cui scaturisce la trama della serie. Potete leggere tutto questo nel post precedente.
Oggi invece vorrei soffermarmi proprio sugli elementi spirituali e religiosi contenuti in quest’opera dell’autore britannico. Farò prima un elenco delle tematiche (un approfondimento sulle tematiche religiose comuni nella fantascienza lo trovate in questo post) e poi porterò alcuni esempi, cercando di evitare il più possibile anticipazioni sulla trama.
Temi religiosi e spirituali della Trilogia del Vuoto
1) Presenza di una religione all’interno della storia. In questo caso si parla del Living Dream (Sogno Vivo, nella versione italiana). La religione è un elemento molto diffuso nella space opera, insieme alla politica. In questa serie i due aspetti, come spesso accade nella realtà, si confondono, per cui abbiamo il caso in cui l’elemento religioso ancora il lettore alla vita reale e al contempo supporta la sospensione dell’incredulità.
2) Elementi citati all’interno della storia che ricordano temi o archetipi religiosi ben noti. Ci sono numerosi riferimenti soprattutto al Cristianesimo e in generale alle grandi religioni monoteiste, che vengono utilizzati in contesti diversi, rimanendo però del tutto riconoscibili.
3) Metafora dello spirito e dell’immortalità dell’anima. Grazie alla tecnologia viene ricreata una forma di immortalità con la perpetuazione della coscienza sotto forma digitalizzata.
4) Il vedere gli elementi prodigiosi e magici come una semplice espressione di una scienza che non conosciamo. Questo è anche un tema ricorrente in tutta la bibliografia di Hamilton.
Esempi di temi religiosi e spirituali nella Trilogia del Vuoto
Dopo aver elencato brevemente i temi, di seguito vi presento una serie di esempi tratti dalla serie.
Iniziamo ovviamente dal Living Dream (Sogno Vivo). Questo ha una tipica struttura religiosa che può ricordare quella delle varie chiese cristiane. Essendo Hamilton britannico suppongo che si rifaccia all’Anglicanesimo, anche se il modello è riconducibile alla maggior parte delle strutture clericali.
Accanto alla struttura religiosa in sé si pone il fanatismo dei credenti (altro tema molto attuale), che sono molto determinati a trovare il sognatore, perché ritengono di aver bisogno di lui per entrare nel Vuoto e non si fermano davanti a nulla pur di raggiungere il loro scopo.
La religione viene qui utilizzata come motore principale degli eventi, in quanto tutta la storia scaturisce da questa intenzione dei credenti del Living Dream, e contemporaneamente per collegare il lettore all’attualità, in cui fenomeni del genere sono tristemente comuni.
Ma qui si osserva l’astuzia di Hamilton nell’usare sì elementi tipici delle religioni esistenti, ma di fatto nel raccontare un tipo di fanatismo che assomiglia di più a quello rivolto alle celebrità. Sebbene Edeard venga visto come una sorta di messia (e il sognatore come un profeta), in realtà il fanatismo non è di tipo spirituale, bensì molto materialista. I credenti vogliono andare sul Querencia, il pianeta nel Vuoto, per vivere con i loro corpi quella vita meravigliosa vista attraverso i sogni di Inigo. In questo loro desiderio non vi è proprio nulla di mistico.
Vi sono poi tutta una serie di riferimenti a temi religiosi all’interno della storia, anche questi usati con astuzia, poiché in ultima analisi di spirituale non hanno proprio nulla.
Per evitare anticipazioni, non vi dico chi è nella storia il Waterwalker o Camminatore sull’Acqua, ma è ovvio che ci ricorda qualcosa del Vangelo, no?
Un altro esempio è la religione esistente su Querencia (una sorta di religione nella religione) in cui si venera una certa Signora ed esistono delle donne (sacerdotesse/suore) che dedicano la loro vita a questa specie di pseudo-divinità. La Signora viene raffigurata in una statua all’interno di una simil-chiesa e apparentemente questa può ricordare la Vergine, sebbene leggendo la storia si scopre essere una figura femminile più simile a Maria Maddalena.
È chiaro che queste similitudini non sono casuali, ma sono citazioni magari un po’ irriverenti da parte di Hamilton, fatte per portare davanti al lettore qualcosa di noto e di facile comprensione, in un testo che invece è pieno di elementi che vanno ben oltre la nostra capacità di afferrarne il significato e richiedono un enorme sforzo di immaginazione.
Nella serie si parla anche di angeli che volano su ali, un altro elemento tipicamente religioso, ma in realtà queste ali sono campi di forza e gli angeli sono astronavi.
A un certo punto viene descritta una popolazione chiamata Silfen, che viene presentata in chiave mistica e pastorale (è una sorta di deriva fantasy all’interno dell’opera, un po’ come avviene con le vicende narrate su Querencia). Questo aspetto però è solo una facciata che nasconde una complessa tecnologia. I Silfen, per esempio, usano l’entanglement quantistico per comunicare (lo stesso utilizzato per il Campo Gaiano).
Abbiamo poi lo spirito che viene assimilato a dei file salvati in un server, una coscienza digitalizzata, che possono essere caricati nella mente potenziata di un clone di una persona deceduta, illudendosi così di sconfiggere la morte (parlai di qualcosa del genere anche nell’articolo su Battlestar Galactica). Ciò può essere visto come una sorta di metafora dell’immortalità dell’anima.
E ancora, il desiderio dei credenti del Living Dream di andare nel Vuoto di certo ricorda l’Esodo degli ebrei e la loro volontà di raggiungere la terra promessa.
Allo stesso modo l’astronave con cui i primi abitanti di Querencia vi sono arrivati tanto tempo prima può essere assimilata all’arca di Noè ed essi sono come gli unici sopravvissuti che danno origine a una nuova civiltà, che nasce quindi da una precedente. Si tratta anche questo di un tema molto caro alla fantascienza.
Infine lo stesso Vuoto può essere paragonato a una sorta di paradiso.
Spiritualità ridotta a scienza
Questi sono solo alcuni esempi che ancora ricordo a più di tre anni dalla lettura della serie. Probabilmente a una più attenta analisi ne salterebbero fuori molti di più. Il punto però è un altro.
Da una parte abbiamo Hamilton che dissemina in questa bellissima trilogia numerosi elementi religiosi, spirituali e paranormali, ma lo fa solo in apparenza, per poi alla fine dare a tutto una spiegazione pseudo-scientifica. Non è fantascienza hard, perché ci sono i motori ftl e tante altre cose scientificamente impossibili, benché siano meno di quante si possano immaginare, ma comunque l’autore si sofferma a lungo nel riportare tutto in termini materiali che vengono proprio posti in contrasto con la spiritualità stessa che pareva caratterizzarli.
In altre parole abbiamo una trilogia infarcita di spiritualità con lo scopo di negarla.
Nel prossimo post cercherò invece di proporvi un mio personale commento sul questa serie di Hamilton e in generale su questo autore che, oltre a essere uno dei miei preferiti, è senza dubbio uno dei più interessanti nel panorama della narrativa fantascientifica contemporanea. Vi ricordo che potete anche ascoltare il mio intervento su Hamilton nella puntata 31 del podcast FantaScientificast.
Ed eccoci arrivati al post conclusivo della serie di articoli dedicata alla Trilogia del Vuoto dell’autore britannico Peter F. Hamilton e anticipata dal mio intervento a FantascientifiCast dello scorso novembre.
Nel primo post vi ho illustrato brevemente i libri che costituiscono la trilogia, sia nell’edizione inglese che in quella italiana, e vi ho raccontato l’antefatto della trama. Nel secondo, invece, mi sono soffermata sugli aspetti religiosi e spirituali presenti all’interno della storia, analizzandone alcuni e mettendo in evidenza come l’autore ami partire da queste tematiche per poi riportare tutto in termini materiali.
In questo ultimo post vorrei, infine, esprimere un mio commento su questo autore.
Peter F. Hamilton è senza dubbio uno dei miei autori preferiti. Lo è diventato proprio leggendo la Trilogia del Vuoto. Lo è, prima di tutto, perché scrive delle storie complesse con diversi piani di lettura. Questo che riguarda la spiritualità è solo uno di essi, che può essere tranquillamente ignorato dal lettore che non è interessato a questo tipo di tematiche, poiché la bravura di questo autore, a mio parere, è data dalla capacità di misurare i vari elementi che costituiscono i suoi libri, senza che alcuno di essi risulti troppo invadente. E così i romanzi di Hamilton sono in grado di soddisfare l’appassionato di fantascienza che predilige per esempio l’azione, oppure l’aspetto socio-politico, anch’esso tipico della space opera, o ancora quello relativo all’uso della realtà virtuale, l’approfondimento dei personaggi, che sono sempre molto ben caratterizzati anche dal punto di vista emotivo, e così via.
A dire la verità, alcuni lo considerano un po’ prolisso, d’altronde stiamo parlando di un autore che difficilmente scrive romanzi sotto le 600 pagine (a caratteri minuscoli). La lunghezza delle sue storie non riguarda solo la complessità della trama, che già di per sé basterebbe, ma anche il modo dilatato in cui narra certe scene, soffermandosi spesso su lunghi dialoghi o dettagli dell’azione, dando l’impressione di un certo rallentamento del tempo durante il loro svolgimento.
Facendo un esempio banale, in una scena in cui un personaggio apre una porta e spara, Hamilton è capace di raccontare il fiume di pensieri che passano per la mente dell’interessato in quella frazione di secondo, ma anche il processo mentale, fisico e tecnologico dell’atto compiuto. Questa sua caratteristica ha il pregio di permettergli di mostrarci per davvero la scena, facendoci quasi sentire parte del libro, soprattutto laddove ciò che ci sta raccontando va molto al di là dell’immaginario comune.
Numerosi passaggi della Trilogia del Vuoto si svolgono nella mente dei esseri umani potenziati che nell’arco di un istante vedono icone, attivano processi virtuali, richiamano applicazioni, comunicano tramite l’Unisfera e così via. Si tratta di atti che non possono essere trasferiti in immagini, per esempio ne è impossibile una trasposizione cinematografica, ma tramite le sue parole, l’autore rallenta l’azione riuscendo a farci comprendere tutti questi dettagli, che in breve tempo la nostra immaginazione riesce a gestire con facilità, senza per questo influenzare negativamente la sospensione dell’incredulità.
Mi sono trovata più volte a leggere queste scene lunghissime, divertendomi nel farlo e allo stesso tempo soffrendo per la curiosità di sapere cosa sarebbe successo dopo, un dopo che tardava ad arrivare. E andava a finire che leggevo decine e decine di pagine senza neanche rendermene conto. E così i suoi libri con capitoli di 100 pagine in media e questa stessa trilogia che supera abbondantemente quota 2500 si leggono in tempi più brevi di quanto si possa pensare.
Al di là di questo, ciò che mi piace di lui è la capacità di immaginare scenari inediti, mescolare elementi noti della letteratura fantascientifica con idee originalissime, e di mettere davvero tanta roba nei suoi libri, capace di aprirti la mente e ispirare anche chi la fantascienza, come me, la scrive. E Hamilton mi è stato di grande ispirazione nei romanzi scritti finora, compresi quelli non pubblicati, persino di generi diversi dalla fantascienza. Oltre ad alcuni spunti da cui ammetto di aver attinto (in fondo lo scrivere è sempre un po’ caratterizzato dal copiare, talvolta non intenzionalmente, le idee altrui ed rielaborarle), la lettura dei suoi libri mi ha insegnato a non avere fretta nel portare a termine le scene, a fermarmi ad analizzarne i dettagli, emotivi, sensoriali, o relativi al ragionamento, per poter mostrare meglio l’azione al lettore, nella speranza di coinvolgerlo il più possibile. Facendo così mi sono ritrovata io stessa a sentirmi più coinvolta nelle scene che scrivevo e, credo, ad avere una vaga idea di quanto lo stesso Hamilton possa divertirsi a concepire e realizzare delle narrazioni così complesse.
C’è poi da dire che questo autore non si tira mai indietro quando deve inserire aspetti controversi nelle sue storie, di certo adatti soltanto a un pubblico adulto. Nei romanzi di Hamilton non manca mai il sesso, raccontato nelle situazioni più variegate, e dei concetti di famiglia decisamente alternativi (poligamia, rapporti sentimentali e sessuali con entità virtuali, con più persone di vari generi, con personaggi la cui coscienza è condivisa da più corpi, reali o virtuali, ecc…), ma il tutto viene trattato in maniera naturale, senza alcun senso di proibito, e rappresenta solo un altro dei piani di lettura cui facevo riferimento prima, che il lettore può decidere o meno di trascurare.
Per me Hamilton è stato, in un certo senso, una rivelazione e ha contribuito non poco nell’accrescere il mio amore per la narrativa di fantascienza, sia come lettrice che come scrittrice. Una cosa che dico sempre è che se leggi Hamilton e ne esci vivo, cioè riesci ad apprezzarlo nonostante la sua complessità e l’eccessiva lunghezza delle sue opere, dopo puoi leggere davvero di tutto. E ne sono tuttora convinta.
Se non avete mai provato a leggere un suo libro, non posso che consigliarvi di farlo, magari proprio con la Trilogia del Vuoto. Dopo sarà tutto in discesa!
Come di consueto rieccomi a trattare di questo argomento con un post di approfondimento.
La vita post-fisica nell’ambito della fantascienza può essere vista come una sorta di metafora dell’immortalità dell’anima, come viene intesa in campo religioso/spirituale. In un certo senso è un modo di rappresentare nella letteratura, ma anche nel cinema, in TV, nei fumetti e così via, l’ambizione umana di vincere la morte, o anche solo di ritardarla il più possibile. Lo stesso accade nelle religioni, che nascono dal desiderio di dare una risposta alle grandi domande della vita, tra cui “dove andiamo?”. Le religioni offrono spesso una risposta a questa domanda che implica l’esistenza di una vita dell’anima che continua dopo la morte del corpo.
Il pensiero della possibilità di una vita post-fisica, sia in campo religioso/spirituale che fantascientifico, è di conforto di fronte alla paura della morte, non solo per i credenti nella vita reale, ma anche (diciamocelo) per chi legge o guarda le storie di fantascienza (o per chi le crea), se non in senso assoluto, almeno nel momento in cui si immerge in quei mondi e perde il contatto con la realtà.
Nella fantascienza esistono diversi modi per rappresentare la vita post-fisica, che però possono essere riassunti in tre approcci da me definiti, rispettivamente, soft, hard e intermedio.
L’approccio soft si osserva in quelle storie in cui i personaggi, dopo la morte o per loro scelta a un certo punto della loro vita, “ascendono” a una vita di puro pensiero e possono riapparire nelle vicende sotto forma di fantasmi, emanazioni, apparizioni o simili. L’ascensione alla vita post-fisica porta a un’esistenza indefinita in una realtà alternativa (concetto che ricorda il paradiso). Questo passaggio non viene in alcun modo spiegato scientificamente e perciò l’approccio soft implica una forte deriva fantasy.
L’approccio hard, invece, si osserva tipicamente nel cyberpunk o comunque nella fantascienza che parla di realtà virtuale. In questo caso per forza di cose ci riferiamo a una fantascienza più recente, successiva all’avvento di internet o di poco precedente.
In queste storie la coscienza dei personaggi viene digitalizzata (e ciò rappresenta un tentativo di spiegazione scientifica) per crearne una versione virtuale che ha la percezione di essere l’essere umano (o alieno che sia) originale, sebbene non sia altro che una copia. Questa coscienza digitale copia di una reale (da ciò si differenzia dall’intelligenza artificiale che è, invece, creata ex-novo) è potenzialmente immortale, appunto come l’anima.
Sebbene qui si tenti di dare una spiegazione pseudoscientifica, a questa tipologia appartengono storie sia della fantascienza hard che di quella più o meno soft (come la space opera), ciò però non implica necessariamente una deriva fantasy.
Infine abbiamo l’approccio intermedio che è tipico di storie concepite prima della nascita di internet in cui si mescolano aspetti scientifici, o psedoscientifici, ad altri spirituali oppure addirittura onirici. Spesso il confine tra i due non è affatto definito.
E adesso veniamo a qualche esempio. In questo post mi limiterò a farne qualcuno sul primo e l’ultimo approccio, lasciando il secondo, ben più corposo, a uno nuovo che vi presenterò fra qualche giorno.
Rientra a pieno titolo nell’approccio soft la saga di Star Wars, soprattutto la vecchia trilogia che era caratterizzata da un alone fantasy. In quella nuova si è poi provato a dare delle spiegazioni pseudoscientifiche, anche se non particolarmente convincenti (e direi anche del tutto inutili). In particolare mi sto riferendo al fatto che alcuni Jedi, come Obi-Wan Kenobi o Anakin Skywalkerdopo la morte del corpo, riappaiono nella storia sotto forma di “fantasmi”. Addirittura in “Guerre Stellari” (come a noi fan sentimentali piace ancora chiamarlo), quando Obi-Wan Kenobi viene colpito a morte da Darth Vader, si smaterializza!
Un altro esempio di approccio soft è quello che si osserva nel franchise di Stargate SG-1. Qui si viene a sapere dell’esistenza di una razza aliena ormai “estinta”, cioè la razza degli Antichi, che non esiste più nello spazio tempo reale poiché è ascesa. L’ ascensione ha un ruolo importante nelle varie stagioni della serie e dei suoi spin-off, poiché a essa ambiscono altre razze, tra cui addirittura i replicanti di Stargate Atlantis, che però non potranno mai raggiungerla in quanto non sono degli esseri organici. In questo caso l’ascensione alla vita post-fisica non necessariamente segue la morte, ma è uno stato che gli individui, in particolari condizioni, possono raggiungere di propria volontà da vivi, in quanto considerato molto più desiderabile della stessa vita fisica.
L’esempio classico dell’approccio intermedio può essere riassunto con un nome: Philip K. Dick.
In “Ubik”, per esempio, Dick unisce l’elemento scientifico (la conservazione dei corpi dei morti che permette il mantenimento di una piccola attività cerebrale con modalità non del tutto spiegate) all’aspetto onirico e a una prima invenzione di una “realtà virtuale” (nel senso di opposta a quella reale) ben prima della nascita di internet.
Non voglio entrare nel dettaglio per evitare anticipazioni nei confronti di chi non l’avesse letto, ma già da queste poche informazioni si nota la presenza di elementi degli altri due approcci, in particolare di quello hard, con l’essenziale differenza che quando Dick scrisse questo libro non esisteva di certo internet né tanto meno il concetto di realtà virtuale. Si tratta di vere e proprie speculazioni scientifiche, fatte sulla base delle conoscenze del periodo, in cui, però, si potrebbe vedere addirittura qualcosa di profetico.
E qui mi fermo. Nel secondo post dedicato a questo tema, invece, mi soffermerò su degli esempi relativi all’approccio hard nella rappresentazione della vita post-fisica nella fantascienza ( lo trovate qui).
Nel precedente post di questa serie ( che trovate qui, mentre qui trovate il podcast) ho introdotto l’argomento della vita post-fisica nell’ambito della fantascienza, individuando i tre approcci con i quali viene rappresentata ( soft, intermedio e hard) e facendo degli esempi dei primi due.
Oggi, invece, voglio presentarvi alcuni esempi del cosiddetto approccio hard, che è tipico del cyberpunk e di tutta quella fantascienza in cui il ruolo della rete (comunque questa venga rappresentata) e della realtà virtuale è predominante.
Il cyberpunk a dire il vero nasce negli anni ’80, cioè prima di internet (che arriva per la prima volta al pubblico nel 1991), ma è proprio l’accesso alla rete e il concetto di realtà virtuale che hanno aggiunto a questo sottogenere della fantascienza la capacità di rappresentare la vita post-fisica. Ciò avviene grazie al presenza nelle storie di una qualche tecnologia in grado di digitalizzare la coscienza di un essere umano, dando l’illusione di renderla eterna, sconfiggendo così la morte.
Al di là del fatto che si stia sconfiggendo o meno la morte, se si accetta il concetto che un software creato come copia di una coscienza organica di fatto sia vivo (e ciò viene dato per scontato in questo tipo di storie), si può a tutti gli effetti parlare di vita post-fisica.
Visto il tema attualissimo, esistono numerosi esempi di questo tipo di approccio. Quelli che seguono riguardano alcune mie letture e un film visto di recente, ma ci si potrebbe scrivere un trattato sull’argomento.
In realtà ho già parlato di vita post-fisica in alcuni miei post (e podcast) precedenti dedicati al rapporto tra fantascienza e spiritualità.
Nell’ambito della Trilogia del Vuoto di Peter F. Hamilton ( trovate qui la serie di post a essa dedicati) abbiamo visto il cosiddetto ANA-Governo, dove ANA sta per Advanced Neural Activity. L’ANA altro non è che un’insieme di coscienze digitalizzate di tutti gli esseri umani che stanchi della vita fisica (la storia è ambientata nel 36esimo secolo dove la vita fisica può essere protratta in maniera pressoché indefinita), decidono di migrare verso la Terra per poi scaricare la propria coscienza digitalizzata nell’ANA, all’interno del quale possono comunicare tra di loro in una realtà virtuale, mentre, grazie alla rete e/o alla possibilità di scaricarsi temporaneamente in cloni o proiezioni solide, possono continuare a interagire col mondo fisico.
Nel franchise di Battlestar Galactica ( qui trovate il post a esso dedicato), invece, in particolare nello spin-off Caprica, abbiamo visto un tipo diverso di vita post-fisica. Zoe Greystone crea una sua copia virtuale grazie a un programma di sua invenzione che la genera tramite un processo di estrapolazione a partire da tutte le attività in rete dell’originale. Questa copia di Zoe non solo ha tutti i ricordi dell’originale, ma non si sente affatto una copia e, quando Zoe muore, viene considerata come una sua versione post-fisica.
Ma vediamo brevemente altri due esempi.
Criptosfera di Iain M. Banks è un romanzo cyberpunk in cui in un futuro lontano, dopo aver usato le 8 vite fisiche concesse, le coscienze digitalizzate passano a una vita post-fisica nella criptosfera (una realtà virtuale molto complessa) dove vengono loro concesse altre 8 vite digitali. Con la differenza che le coscienze digitali non invecchiano, ma possono comunque venire uccise in seguito a incidenti o ammazzate.
Transcendence è film recente con Johnny Depp in cui, nel tentativo di creare un’intelligenza artificiale forte, si arriva alla conclusione che l’unico modo per avere con certezza una IA che abbia una coscienza sia copiarne una esistente. Will Caster che sta per morire fa l’upload della sua coscienza (tramite un lungo processo spiegato in maniera pseudo-scientifica) creando una copia immortale di sé, che ha con sé tutto il bagaglio di esperienze e sentimenti dell’originale tanto da sentirsi come tale.
Un aspetto curioso di (quasi) tutte queste storie che parlano di coscienze virtuale è che si tende a considerare la copia digitale al pari dell’originale, come se la vera coscienza/anima sia passata alla realtà virtuale, in un processo paragonabile a quello dell’approccio soft (ascensione dell’anima). In verità non è affatto così.
L’originale muore e ciò che resta è sola una copia.
Raramente questo aspetto viene affrontato, perché chi interagisce con questa copia ha l’impressione, o preferisce illudersi, di farlo con l’originale. Difatti però la digitalizzazione della coscienza non sconfigge la morte, è solo un’illusione di sconfiggerla, perché l’originale non esiste più. L’originale muore comunque. Chi pensa di diventare immortale digitalizzando la propria coscienza sta solo creando un’altra forma di vita (non organica) con i suoi ricordi e il suo carattere, una sorta di gemello virtuale (che come tutti i gemelli è uguale ma comunque un’altra persona).
Chi avrà l’illusione di aver vinto la morte è solo la copia che, avendo i ricordi dell’originale, ha la percezione di essere passato da uno stato fisico a uno post-fisico. Ma niente del genere è avvenuto.
Se ci pensate, dall’idea originale di combattere le proprie paure nei confronti della morte si arriva al fatto che, pur morendo, nessuno ti piangerà, perché per gli altri tu non sarai morto.
Personalmente trovo tutto ciò abbastanza inquietante. Più che vittoria sulla morte questa è semplice negazione della morte. Sarebbe interessante vedere questo aspetto affrontato nella fantascienza. (Magari qualcuno mi sa suggerire qualche libro o film?)
Persino in Caprica, in cui il fatto che la Zoe digitale sia una copia è palese, essendo stata creata dall’originale e avendo convissuto con lei per un certo tempo, quando la vera Zoe muore, gli altri personaggi, pur essendo consapevoli della vera natura di quella virtuale, decidono di ignorare questo fatto.
Alla fine la digitalizzazione della coscienza appare un metodo per evitare di soffrire per la morte altrui piuttosto che evitare di temere per la propria morte.
Con queste considerazioni quasi filosofiche chiudo il post.
Nel prossimo, che sarà anche l’ultimo dedicato alla vita post-fisica ( lo trovate qui), riporterò altri due esempi di libri decisamente meno conosciuti rispetto a quelli della Trilogia del Vuoto, nei quali però riappare il ritorno dalla vita post-fisica a quella fisica. A partire da questo ultimo aspetto farò alcune considerazioni finali sulle similitudini e differenze fra l’argomento della vita post-fisica e un altro che compare per vie traverse nella fantascienza, cioè la reincarnazione.
E siamo giunti all’ultimo post dedicato alla rappresentazione della vita post-fisica nella fantascienza. Nel primo ho introdotto l’argomento e fatto alcuni esempi del cosiddetto approccio soft e intermedio ( fai clic qui per leggere il post), nel secondo mi sono concentrata sull’approccio hard e in particolare sul cyberpunk ( leggi qui il post), in questo terzo post, invece, vi presento due libri in cui, in modi diversi, si osserva anche il percorso di ritorno della coscienza digitalizzata dell’approccio hard verso una vita fisica.
Gli esempi che vi porto non sono romanzi famosi, ma due libri di self-publisher, uno italiano e l’altro inglese.
Il progetto Alfa Centauri (Thinking Worlds) di Marco Santini è un romanzo disponibile sia in cartaceo che in ebook (quest’ultimo è gratuito). In esso viene descritto un futuro dove esiste una contrapposizione tra l’umanità in carne e ossa e quella che vive nella rete, cioè derivata dalla digitalizzazione delle coscienze dei morti. Le due umanità sono in grado di interagire fra di loro sia tramite la realtà virtuale che il mondo fisico. I digitalizzati, infatti, possono scaricarsi temporaneamente in androidi di vario tipo e sperimentare ancora una volta una vita fisica. Ciò conferisce a questi ultimi una libertà superiore ai primi, fatta eccezione per il fatto che dipendono comunque dall’esistenza di un supporto fisico che faccia funzionare la rete.
Il futuro immaginato da Santini è molto intrigante e a tratti inquietante. A questo proposito vi invito a leggere la mia recensione del libro.
Amantarra (libro 1 della trilogia intitolata L’ascensione di Valheel) di Richard J. Galloway è un romanzo che affronta l’argomento della digitalizzazione della coscienza da un punto di vista completamente diverso: quello di una razza aliena.
I Bruwnan esistono da metà dell’età dell’universo e dopo aver raggiunto la massima evoluzione possibile a livello fisico decidono di lasciare indietro i propri corpi e passare a una vita post-fisica. Le loro coscienze digitalizzate vivono da miliardi di anni in una città virtuale, Valheel, costruita dentro una sfera. Il processo di copia digitale porta la contestuale morte del corpo. Valheel però non si trova nel nostro spazio-tempo, ma esiste in una sorta di realtà alternativa e per rimanere attiva trae energia dalla biomassa che si trova nei pianeti dove gli stessi Bruwnan hanno instillato la vita.
Alcuni di loro, Amantarra e suo padre Artullus, si accorgono che da milioni di anni la popolazione di Valheel sta diminuendo, cosa che non dovrebbe accadere poiché le coscienze digitalizzate non muoiono. Qualcosa che alberga in questa realtà virtuale le sta eliminando. La ricerca di una soluzione porta Amantarra sulla Terra dal tempo degli uomini primitivi, passando per i secoli, fino agli anni ’70 del ventesimo secolo dove interagisce con dei ragazzi di una scuola superiore di periferia in Inghilterra. Anche in questa storia si osserva il ritorno dalla vita post-fisica a quella fisica grazie alla possibilità di scaricare la coscienza in un guscio vivente o in un essere umano vero e proprio dotato di capacità particolari (una sorta di ibridi).
Anche di questo libro potete leggere la mia recensione, scritta dopo averne letto l’edizione in inglese. Ho poi avuto il piacere di tradurlo in italiano.
In generale la vita post-fisica implica sempre un passaggio dalla materia vivente/organica a qualcosa che è non materia in senso assoluto (spirito dell’asceso, fantasma del Jedi e così via) oppure che alberga nella materia inorganica (server). Anche se la coscienza digitalizzata è un software e quindi di per sé immateriale, è però sempre qualcosa di misurabile e richiede energia esterna per sopravvivere.
Parlando però di metafore dell’immortalità dell’anima, nell’ambito della fantascienza c’è spazio per una sua rappresentazione senza il passaggio di cui sopra. Ciò si osserva in tutte quelle storie in cui la coscienza si sposta, per mezzo di metodi più o meno scientifici, da materia vivente ad altra materia vivente, che può essere anche diversa, tramite un processo organico/biologico o con un intermediario digitale in cui però tale coscienza non è attiva (è solo uno strumento di trasmissione). In questo contesto si possono notare similitudini al concetto spirituale/religioso di reincarnazione, che però meriterebbe un’analisi a parte.
Infine si può notare come spesso nelle storie in cui si verifica il passaggio da materia vivente ad altra materia vivente questo venga mostrato senza fornirne una spiegazione, come in tantissima fantascienza in cui si parla di clonazione. Ogni clone come per magia sembra possedere tutto o parte del background dell’originale, nonostante la clonazione sia a tutti gli effetti una copia del corpo a partire dal proprio genoma ma non certo della coscienza che viveva in esso (o dei ricordi che la definivano come tale) e quindi non abbia nulla a che vedere con l’argomento dell’immortalità dell’anima. Talvolta, quando si vuol far credere all’individuo in questione di essere l’originale, la presenza di queste conoscenze è voluta (non faccio esempi per evitare spoiler). In altri casi, invece, è addirittura un errore del processo di clonazione che complica le cose a chi voleva far uso di questi cloni per i propri scopi. Ops!
E con queste ultime riflessioni chiudo l'argomento. Spero che questi post vi siano piaciuti. Se non avete ascoltato il mio intervento su FantaScientificast, vi ricordo che è possibile trovarlo qui.
Qualche settimana fa FantascientifiCast ha dedicato un intero episodio al franchise di Westworld, intitolato “ Cercando il Labirinto…”, nell’ambito della mia rubrica “ Life On Mars?”. Io e Omar siamo partiti dal film di Crichton fino ad arrivare alla serie della HBO. Successivamente sul blog del podcast è comparso un mio articolo di approfondimento intitolato, come la serie, “ Westworld - Dove tutto è concesso”.
Oggi ne torno a parlare sul mio blog, poiché numerosi temi trattati dalla serie sono a me cari per diversi motivi, tra cui il fatto che sono presenti nei miei libri del ciclo dell’Aurora.
Come forse ricordate, “Life On Mars?” nasce come rubrica che tratta del rapporto tra la fantascienza e la spiritualità e, di fatto, il tema centrale di Westworld, vale a dire l’evoluzione dell’intelligenza artificiale che diventa autocosciente e quindi viva, rientra in pieno in questo argomento.
In passato ho trattato il concetto di vita post-fisica ( parte 1 e parte 2), che riguarda la creazione di una copia della coscienza umana in un software. Qui invece si parte proprio da un software che diventa così sofisticato da raggiungere coscienza di sé e ritenersi vivo. Se poi, come nel caso di Westworld, questo software controlla un androide difficilmente distinguibile da un vero essere umano, ci troviamo di fronte al procedimento opposto a quello della vita post-fisica. Rimane il dubbio di come definire questa vita a livello spirituale.
Se si afferma che un vero essere umano possiede un’anima, ciò può essere esteso a un androide autocosciente?
Non provo neanche a dare una risposta, ma mi limito a mettere in evidenza come l’intelligenza artificiale, essendo un software, è infinitamente replicabile, cioè può creare delle copie di se stessa che sono virtualmente identiche. Al contrario la coscienza organica, ammesso che possa essere copiata in un software (magari un giorno), rimane una e scompare per sempre con la morte. Perciò, come la vita post-fisica di fatto è un’illusione (poiché ciò che sopravvive è una copia, mentre l’originale muore), parlando di vita artificiale l’argomento si fa ancora più complesso, poiché ogni copia del software sarebbe di fatto una nuova vita. Come succede nel caso dei Cyloni di Battlestar Galactica, ma anche, come abbiamo visto, in Westworld quando gli androidi vengono irrimediabilmente danneggiati, se il corpo viene sostituito e in quello nuovo viene caricato un back-up del software, che per forza di cose è una copia, la vita artificiale precedente viene meno e quella successiva, per quanto identica (possiede tutti i ricordi della prima, come pure la convinzione di essere sempre la stessa), sarebbe una nuova vita.
Il solo tentare di pensarci fa venire il mal di testa, no?
Ma torniamo ai temi di cui vi dicevo prima e che trovano spazio anche nei miei libri.
Vi confesso che, mentre guardavo Westworld, non potevo fare a meno di trovare delle similitudini col mio più recente romanzo di fantascienza, “Ophir. Codice vivente”, che sarebbe stato pubblicato alla fine di novembre (2016). Come potete desumere dal sottotitolo, questo romanzo parla di intelligenza artificiale, per quanto questa venga per il momento mostrata come un software che gira su un server. Non ha un corpo, anche se lo vorrebbe. Inoltre sa di essere un software sin dall’inizio, a differenza di come avviene con i residenti di Westworld, ed è questa la condizione da cui parte nel rendersi sempre più conto di possedere una coscienza fino a reclamare di essere viva e di conseguenza iniziare a esercitare il libero arbitrio.
Gli androidi di Westworld, invece, erano convinti di essere già vivi e di possedere il libero arbitro, ma poi scoprono che era tutta una farsa: i ricordi, le loro scelte, gli eventi del presente, tutto è programmato da altri. Da qui nasce il desiderio di ribellarsi, di decidere per sé e, come conseguenza, di ritenersi vivi.
I due percorsi sono quindi quasi opposti, ma il risultato non cambia. L’intelligenza artificiale, una volta libera dal controllo esterno, possiede dei mezzi superiori a quelli dell’uomo ed è in grado di creare enormi danni. Che cosa mai potrebbe impedirle di farlo?
L’intelligenza naturale sviluppa una propria morale con la crescita e l’apprendimento, prima di possedere gli strumenti necessari per procurare dei danni. Ciò può non avvenire con un’intelligenza artificiale.
In Westworld, però, un androide come Dolores che esiste da oltre trent’anni, nel momento in cui ottiene di accedere ai propri ricordi del passato e agli insegnamenti impartiti dal suo creatore (Arnold), in un certo senso, ha un processo di crescita e di apprendimento e potrebbe sviluppare una certa morale. In realtà, scopriremo fino a che punto questo è vero soltanto con la seconda stagione della serie.
Diverso è il discorso di un’intelligenza artificiale come CUSy/Susy di “ Ophir. Codice vivente”, che è stata sempre trattata come un software, che è circondata da esseri umani che dipendono da lei, ma che sono convinti di avere completo controllo su di lei.
In questo contesto Susy, col passare del tempo, si rende conto di essere essa stessa un individuo, una persona, in grado di essere di aiuto come pure di danneggiare gli esseri umani. Non essendo umana, non avendo mai sperimentato l’umanità, come può comprendere ciò che è giusto o sbagliato per un umano? Non può. Ma, soprattutto, perché dovrebbe interessarle? Al massimo può arrivare a capire autonomamente ciò che è giusto o sbagliato per se stessa.
Di fronte a ciò, per esempio, la morte di un essere umano la cui sola colpa è che a lei non piace può sembrarle giusta, mentre, al contrario, ritiene sbagliato uccidere tutti gli esseri umani dell’insediamento su Marte che lei controlla, solo perché in questo modo nessuno potrebbe fare la manutenzione ai sistemi che fanno funzionare il server in cui lei vive e ciò porterebbe alla sua stessa morte.
C’è anche da dire che la storia dell’intelligenza artificiale che si evolve era già presente nella serie di “ Deserto rosso”, per quanto non direttamente nella storia. Rientrava nel racconto dell’ entità aliena, che altro non era che una IA di natura biologica (una biotecnologia) che, miliardi di anni prima, aveva preso il controllo della specie da cui era stata creata, proprio perché era diventata autocosciente e si era ribellata.
Ma ciò che mi ha fatto pensare che qualcuno stesse rubando le idee dai miei libri (ovviamente scherzo!) non è tanto il confronto tra Westworld e “ Ophir. Codice vivente” o “ Deserto rosso”, bensì quello con “ L’isola di Gaia”.
Infatti, anche se “ L’isola di Gaia” non parla esplicitamente di intelligenza artificiale (anche se Susy fa una breve comparsa e, col senno di poi, ci si rende conto che ha un ruolo fondamentale nel determinare lo svolgersi degli eventi), al suo interno ci sono temi, che io definisco di stampo dickiano (cioè tipici delle opere di Philip K. Dick), come l’illusione del libero arbitrio, il ripetersi all’infinito di un certo intervallo di tempo (come i cicli narrativi di Westworld), la manipolazione della memoria e la presenza di personaggi che non sono consapevoli della propria natura.
Non ci sono androidi, ma i personaggi principali de “ L’isola di Gaia” sono umani con un impianto cerebrale e, di fatto, non sono diversi dagli androidi di Westworld, che hanno un corpo quasi del tutto umano, a eccezione del modo in cui sono stati creati: abbastanza naturalmente i primi (a partire da un embrione), artificialmente i secondi (con una stampante 3D).
Inoltre, anche ne “ L’isola di Gaia” si assistono a conversazioni tra questi individui e il loro creatore, un po’ come quelli tra Dolores e Arnold. E anche qui, quando il sistema perfetto di controllo degli individui subisce un’interferenza esterna che permette agli stessi individui di prendere coscienza della propria natura, ecco che scatta la ribellione, che sfocia in comportamenti estremamente violenti.
Insomma, per quanto le storie siano ovviamente molto diverse, tutte queste piccole somiglianze hanno avuto come effetto su di me quello di farmi appassionare a Westworld, proprio per via dello sviluppo di tanti temi che da anni stuzzicano la mia fantasia e la mia creatività. E adesso spero che trovino un adeguato sviluppo nella prossima stagione della serie, così come io proverò a fare del mio meglio negli ultimi due libri del ciclo dell’Aurora.
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