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 Trilogia del detective Eric Shaw... di Carla
 

"Sei proprio un mistero impenetrabile, piccola Anna." Deserto rosso - Abitanti di Marte

 

Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Carla (del 13/10/2022 @ 15:28:42, in Lettura, linkato 2458 volte)


 Una breve lettura obbligatoria per tutti gli amanti del tennis

Questo libro include due piccoli saggi di Wallace. Nel primo racconta l'atmosfera e gli aneddoti di una giornata degli US Open. Nel secondo si concentra su Federer e sul suo meraviglioso tennis.
Gli appassionati di tennis si ritroveranno in ogni sua parola, mentre vengono catapultati a bordo campo, e talvolta proprio dentro il campo, ma potranno scoprire anche tanti interessanti dettagli, leggendo le lunghe note a pie' di pagina.
Da leggere.

Aggiungo che è un libro davvero molto breve, circa una novantina di pagine, che quindi si legge in pochissimo tempo. Viste le dimensioni è però un po' caro, persino nella versione ebook. Se lo si vuole soltanto leggere e non si è interessati a conservarne una copia, probabilmente è meglio prenderlo in prestito in biblioteca (o da un amico, come ho fatto io). Ma può essere un graditissimo regalo da offrire a un appassionato di tennis.

 

Il tennis come esperienza religiosa (Kindle, cartaceo) su Amazon.it.
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Leggi tutte le mie recensioni e vedi la mia libreria su:
aNobii:
http://www.anobii.com/anakina/books
Goodreads: http://www.goodreads.com/anakina

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La storia di “Saranythia” entra nel vivo in questa terza parte del racconto. I protagonisti iniziano un viaggio che li porterà a imbattersi in antichi misteri, non dimenticando di far divertire i lettori.
La lettura scorre piacevole tra ironia e colpi di scena, mentre la storia si dipana su tre linee narrative che si intrecciano tra di loro.
Mentre nelle prime due parti abbiamo familiarizzato con nuovi e vecchi personaggi e abbiamo assistito a ciò che li ha portati a questo punto della storia, ne “I segreti dei Margspakr” l’azione si muove più in fretta, tenendoti incollato alle pagine, e i vari elementi precedentemente introdotti iniziano a interagire tra di loro e ad assumere una collocazione chiara nella trama.
Non mancano i momenti di ilarità, grazie alle battute taglienti di alcuni personaggi e, soprattutto, alle vere e proprie gag dei gemelli Erik e Dag.
Come sempre Richard J. Galloway riesce a fondere elementi del fantastico che sembrano appartenere alla magia o al sopranaturale con vera scienza, usata come spiegazione degli stessi elementi. È molto affascinante il modo in cui spiega un fenomeno fisico reale, relativo al comportamento della luce, e poi lo usa come base per la straordinaria teoria sulla natura dell’universo proposta da uno dei personaggi.
Insomma, una lettura appassionante che ha un unico difetto: dover attendere la pubblicazione del volume successivo per sapere finalmente come si concluderà la storia!
Nel frattempo, ho chiesto a Richard di presentare a suo modo il libro e di rispondere ad alcune mie domande.
Ecco cosa mi ha detto.
 
 
 
Il tempo passa. I ricordi degli eventi svaniscono.
La storia ricordata a metà, offuscata dagli abbellimenti, diventa mito.
Passa ancora più tempo. Generazioni di persone nascono e muoiono.
Il mito viene diluito, edulcorato e relegato a storie di eroi e re di tanto tempo fa.
Epici eventi del passato ridotti a favole della buonanotte dell’infanzia ricordate a metà. 
 
E così è stato per i Margspakr. Per alcuni erano saggi fin dai tempi antichi, che consigliavano l’eroe prima della battaglia e lo curavano dopo di essa, e sarebbero diventati la base delle storie dei loro primi anni.
Altri, come i Frati Rossi dell’Ordine Saratariano, sapevano chi erano veramente i Margspakr, ma non quello che facevano. Per loro, i Margspakr erano un mistero irrisolto, una società segreta che era svanita senza lasciare traccia, portando con sé i propri segreti.
 
Ad Amantarra si presenta l’invito a un viaggio. Una trappola? È molto probabile, ma, col rivelarsi di un nuovo giocatore, sembra che non ci sia altra alternativa che finirvi dentro. È durante questo viaggio che trovano le prove dei Margspakr, insieme ad alcuni dei loro segreti.
 
Le storie dalla Terra nascondono i loro misteri cui il nuovo giocatore è molto interessato. Afferma di avere spiegazioni sulle vere origini dei fantasmi e sulla contorta causalità, ma esattamente come si fa a vincere una medaglia per essere caduto da una cassa di birra?
 
Con questa terza parte di “Saranythia” superiamo il punto centrale della storia. Al termine della parte precedente, un colpo di scena aveva spinto i protagonisti a un nuovo corso degli eventi, ovvero a intraprendere un lungo viaggio per visitare la Strega di Fossrauf. Ed è proprio attorno al viaggio che si sviluppa questa parte della storia, cui si affiancano una coppia di personaggi davvero interessanti: i gemelli Dag ed Erik, guerrieri imbattibili, ma anche grandi chiacchieroni.
Hai tratto ispirazione da qualcosa o qualcuno in particolare nella creazione di questi due personaggi?
Dag ed Erik, sì, hanno avuto un’evoluzione interessante, che inizia con la loro discussione di apertura su quale nome dovrebbe essere detto per primo quando si presentano. Una discussione che ben presto si trasforma in farsa. Questa salva di apertura è basata sui personaggi di Pincopanco e Pancopinco, che sono stati interpretati da Matt Lucas nel film del 2010 “Alice in Wonderland” (nota: diretto da Tim Burton e tratto dal libro di Lewis Carroll). Dunque, Dag ed Erik sono gemelli identici nati in un mondo in cui leggere la mente è la norma. Per me era ovvio che sarebbero diventate due menti che funzionano come una sola. Non hanno buone prestazioni quando sono separati, ma insieme, in un combattimento due contro due, sono imbattibili. Allo stesso modo, la loro spiegazione del motivo per cui stanno partecipando a una spedizione per visitare la strega sembra sceneggiata, con un guerriero che finisce le frasi dell’altro, mentre lavorano per ottenere un obiettivo comune.
 
Dopo esserci immersi nel contesto medievale di Setergard (a parte qualche piccolo esempio di tecnologia dei Bruwnan), nella terza parte di “Saranythia”, come i tuoi lettori possono già intuire dalla copertina del libro, i nostri protagonisti si imbattono in alcune tecnologie avanzate. Uno degli aspetti più affascinanti è il modo in cui i personaggi di Pheenar reagiscono alle tecnologie il cui funzionamento è al di là della loro comprensione. E le loro reazioni sono divertenti, ma soprattutto sembrano realistiche.
Come ti metti nei loro panni? Ti viene spontaneamente o usi dei trucchi particolari per immedesimarti?
La premessa su cui si basa la storia è che alle culture primitive tutta la tecnologia avanzata sembra magica o, nel caso della gente di Pheenar, divina. Le tecnologie Bruwnan cui sono esposti sono doni del loro Dio e non sono destinate a essere comprese. I visitatori della Terra portano nuovi oggetti da ammirare e, poiché non sono divini, forse possono essere compresi. Le reazioni della gente del posto a cose che diamo per scontate sono del tutto spontanee: io sono molto bravo a capire male le cose. L’umorismo deriva dai malintesi che sorgono tra i personaggi di fronte a ciò che viene loro mostrato. Il comandante Vartii è particolarmente affascinato da come funzionano le cose, ma tende a essere sopraffatto dai concetti, vedendo le cose nel loro insieme invece di scomporle in componenti più comprensibili. Così, le funi, le pulegge e i contrappesi di una semplice piattaforma elevatrice lo riempiono di stupore e meraviglia. È attraverso i suoi occhi che introduco il fatto che la gente di Pheenar una volta era più avanzata di quanto non lo sia ora.
 
Parliamo dei Margspakr. Questa è una parola in norreno, giusto?
Raccontaci qualcosa in più sulla sua origine e sul perché hai deciso di dare un nome così a queste figure del passato che compaiono nel libro.
Sì, è norreno. La parola “Margspakr” può essere suddivisa in due parti: “Marg” (una versione abbreviata di “Margr”), che significa “molti”, e “Spakr”, che significa “saggio”, quindi la sua traduzione letterale è “molti saggi” o, presa nel suo insieme, “molto saggi”. Mi sono preso la libertà di applicarla a un collettivo per dare il significato di “saggi”.
Perché il norreno? Be’, il 16,3% del mio DNA è scandinavo, quindi ho deciso di dare voce al mio vichingo interiore e quindi basare vagamente la società presente su Pheenar sulla cultura norrena, be’, almeno per quanto riguarda i nomi. Questa decisione è stata confermata da una conversazione parzialmente unilaterale che ho avuto con la mia dentista sugli strani toponimi che abbiamo qui nel nord-est dell’Inghilterra. Non essendo di queste parti, era curiosa di sapere quale fosse la loro origine ed è stata affascinata nell’apprendere, tra le pause della perforazione, che sono norreni.
Anche “Fossrauf” è norreno: “Foss”, che significa “cascata”, e “Rauf”, che significa “buco”. Quindi ora sai che la nostra intrepida banda sta viaggiando verso “Buco della Cascata” per visitare la strega. Se ti stai chiedendo cosa voglia dire “Setergard”, be’, significa “Fattoria di alpeggio”.
 

 
Foto di Richard J. GallowayCresciuto tra l’industria pesante del nord-est dell’Inghilterra con Star Trek, Doctor Who e i romanzi fantasy, RICHARD J. GALLOWAY si è ribellato al destino segnato dalle scuole frequentate, secondo cui il lavoro industriale sarebbe stata la sua vocazione. Dopo aver esaurito l’unica opzione apparente, il suo insegnante era disperato. “Visto che non vuoi lavorare nelle acciaierie, dove vuoi lavorare?” La sua risposta era sempre: “Non lo so.” Il settore in cui sarebbe finito non si concretizzò che dieci anni dopo. Nessuna meraviglia che il suo insegnante si preoccupasse. Dalla scuola, passando attraverso l’ufficio di disegno e l’architettura, alla fine si è trovato a lavorare con i grandi sistemi informatici.
Carriera a parte, il filo che legava tutto insieme era la fantasia. Non ha mai perso la sua fascinazione per le immagini che un buona storia possono evocare. Dopo tutto, gli avevano mostrato dei mondi al di là di questo, e le possibilità al di là delle acciaierie. E continuano a farlo.
Richard vive ancora nel nord-est dell’Inghilterra con la moglie, la famiglia, e un grosso gatto chiamato Beano. L’industria pesante si è ridotta, ma il mondo della fantasia di Richard è cresciuto. Spesso si chiede quale consiglio avrebbe ricevuto, se il suo insegnante avesse letto un po’ di fantascienza.
 
 
Il primo romanzo di Richard “Amantarra” è stato pubblicato nel 2012 (in Italia nel 2013), seguito nel 2017, nel 2018 (gennaio 2019 in Italia) e nel 2021 (2022 in Italia) dalle prime tre parti del sequel “Saranythia”: “Le porte di Setergard”, “I Varton” e “I segreti dei Margspakr”.
 
Visitate il sito di Richard all’indirizzo (disponibile anche in italiano): www.richardjgalloway.com
E seguitelo su Facebook e Twitter.
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Di Carla (del 16/06/2022 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 3087 volte)
Il film è ispirato alla storia vera di Lisa Nowak, ex-astronauta della NASA che fu arrestata per aver aggredito la ragazza (anche lei astronauta) di un altro astronauta col quale aveva avuto una relazione.
 
Natalie Portman in Lucy in the Sky - © Fox Searchlight Pictures
 
Nel film la protagonista, interpretata da Natalie Portman (nella foto; © Fox Searchlight Pictures), si chiama Lucy Cola, astronauta preparatissima, che grazie al duro lavoro e all’evidente talento viene selezionata per una missione di una decina di giorni sulla ISS (Stazione Spaziale Internazionale).
 
Al ritorno però Lucy si sente cambiata. La vita di tutti i giorni sulla Terra le sembra vuota e inutile rispetto all’esperienza che ha vissuto.
Il marito, che è un PR della NASA, non è in grado di comprendere il mutamento psicologico che ha subito. E così lei, che intanto continua a addestrarsi per poter partecipare al più presto a un’altra missione, fa amicizia con Mark Goodwin (interpretato da Jon Hamm, quello di Mad Men), anche lui astronauta (divorziato e con due figlie piccole), e con altri due colleghi, trovando in loro per la prima volta delle persone che condividono il suo stesso stato d’animo. L’amicizia di Mark, in particolare, sfocia in una relazione, in cui però lei pare più interessata di quanto lui non lo sia.
Non posso dirvi altro per evitare lo spoiler, in quanto la storia cinematografica, nonostante abbia lo stesso finale di quella vera, dà una propria interpretazione agli eventi successivi.
 
Devo dire che il film mi è piaciuto molto, e sono abbastanza stupita di aver trovato solo recensioni negative sul web. Credo che si tratti di una bella analisi psicologica del personaggio offerta al pubblico sfruttando molto bene le potenzialità del cinema. A questo proposito, le scelte del regista sono molto particolari. Per esempio, lo è quella di modificare di continuo il rapporto di formato dell’immagine, soprattutto per mettere in contrasto la visione espansa (dello schermo cinematografico) dell’essere nello spazio, o anche solo del vivere situazioni che riportano il suo pensiero a quell’esperienza, ai 4:3 televisivi usati per narrare quella quotidianità insulsa in cui Lucy non riesce più a trovarsi.
 
Ma a essere particolarmente bello è proprio il suo personaggio e il modo in cui la Portman lo ha impersonato.
Ho provato molta empatia nei suoi confronti. Per quanto il suo comportamento finale sia stato ovviamente esagerato (e comunque non sembra corrispondere ai fatti reali), ho potuto capire l’esasperazione che ha provato nel sentirsi sola e tradita come donna in un mondo di uomini che la accusano di essere “troppo emotiva” (proprio lei che nel suo lavoro è precisa e fredda come nessuno di loro sa essere), nell’aver perso tutto ciò che per lei contava (tornare nello spazio e una persona di famiglia a lei molto cara).
Credo che chiunque ha avuto delle grandi delusioni nella vita (nell’ambito privato o professionale) possa comprendere lo stato d’animo di chi, avendo raggiunto l’apice di qualcosa, mal si adatti al ritorno alla “normalità”, come se si sentisse un alieno intrappolato in un mondo monotono e insignificante.
 
Insomma, è stata una bella visione.
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Di Carla (del 13/06/2022 @ 12:30:00, in Scrittura & pubblicazione, linkato 3012 volte)
Copertina del libro Saranythia Parte 3
Le nuove vicende dei protagonisti di “Amantarra” (pubblicato in Italia nel 2013), sviluppatesi nelle prime due parti di “Saranythia” (“Le porte di Setergard” nel 2017 e I Varton” nel 2019), continuano ora in “Saranythia Parte 3: I segreti dei Margspakr”.
I quattro libri fanno parte della serie intitolata L’ascensione di Valheel dell’autore inglese Richard J. Galloway e tradotta in italiano da me.
 
Avevamo lasciato Amantarra, l’aliena appartenente alla specie dei Bruwnan, John, Elleria, Scott e tutti gli altri sulla luna di Pheenar di fronte alla novità del mancato attacco a Setergard, dopo oltre duemila anni, da parte dei Faeialar, esseri umanoidi dall’aspetto simile a quello di demoni. Questo evento insolito aveva spinto il comandante Vartii a decidere di preparare la spedizione per Fossrauf, allo scopo di incontrare la strega Seethka. Ed è proprio a questo viaggio che è dedicata gran parte de “I segreti dei Margspakr”.
Parallelamente seguiremo le peripezie della copia in carne e ossa del Bibliotecario, finita sulla stessa luna e costretta a sfuggire a una terrificante caccia, mentre, nella città virtuale di Valheel, Artullus e Jack sono alle prese con strani fenomeni e con la copia di Harry, che di tanto in tanto si estrania per intrattenere bizzarre conversazioni con una sinistra entità di nome Uzpanax. Quest’ultimo sembra essere coinvolto in tutti gli avvenimenti che interessano i protagonisti della serie, ma qual è il suo reale scopo?
Mentre viene alla luce qualche elemento relativo alla sua identità, i membri della spedizione si imbattono in un luogo segreto, originariamente creato da un’antica società di saggi: i Margspakr.
 
Mescolando elementi tipici del fantasy con tecnologie fantascientifiche, le opere di Richard J. Galloway rientrano in quel filone di fantascienza soft in cui la magia e i prodigi sono solo un’interpretazione degli eventi da parte di chi non conosce ancora la scienza in grado di spiegarli.
 
 
Saranythia Parte 3: I segreti dei Margspakr” di Richard J. Galloway e tradotto da me è ora disponibile su Amazon a soli 1,99 euro!
 
Eccovi la breve descrizione del libro.


Amantarra e i sopravvissuti sono ospiti dei Varton, un esercito di guerrieri religiosi medievali. Gli eventi sembrano aver cospirato per spingerli a intraprendere un nuovo viaggio. Sospettano che si tratti di una trappola, ma le limitate scelte a loro disposizione fanno sì che l’unica opzione sia affrontarla.
Ma le cose non sono sempre come sembrano: esistono segreti che neppure i Varton conoscono, e una storia persa nelle sabbie del tempo. Un nuovo giocatore è entrato nel gioco e le regole sono cambiate, o forse hanno sempre giocato secondo le regole di qualcun altro?
 
 
 
Per la comprensione della storia è essenziale almeno la lettura di “Saranythia Parte 1: Le porte di Setergard” e di “Saranythia Parte 2: I Varton”, ed è suggerita anche quella di “Amantarra”.
 
Per maggiori informazioni visitate il sito di Richard J. Galloway (disponibile anche in italiano): http://www.richardjgalloway.com
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Dieci anni! Ma davvero?
Okay, lo ammetto. Nonostante i geni alieni, vi confesso che inizio a sentirmi vecchia. Mi sembra ieri che uscivo di nascosto dalla Stazione Alfa per avventurarmi da sola su un rover pressurizzato nel deserto marziano. E invece è passata già una decade.
Quando la mia creatrice mi ha detto che, se volevo, potevo prendere il controllo del blog per l’anniversario, sono rimasta interdetta. Di solito devo agire alle sue spalle, scrivere in fretta l’articolo e programmarlo prima che se ne accorga. E invece stavolta è stata lei a ricordarmelo proprio perché si tratta di un’occasione speciale.
 
Dieci anni fa usciva “Deserto rosso – Punto di non ritorno”, l’inizio della mia avventura, che si è conclusa ufficialmente nel novembre 2020 con la pubblicazione dell’ultima parte del ciclo dell’Aurora, “Nave stellare Aurora”, ma che continua a vivere nella fantasia nuovi e vecchi lettori.
Parliamo di circa 16.600 persone.
 

 
Che avventura è stata!
Ero una semplice esobiologa che cercava di immaginare la vita al di là della Terra, ma sono diventata un’astronauta, mi sono trasferita su Marte per colonizzarlo e lì mi sono messa nei guai.
Be’, non che non lo fossi già prima di partire! Ma di certo non avrei mai immaginato di fare la più grande scoperta del mio campo e, in un certo senso, di diventarne parte.
 
Le mie vicende, insieme a quelle degli altri protagonisti del ciclo dell’Aurora, in particolare Hassan, Melissa, Alicia e Susy/CUSy, si sono svolte tra Marte, la Terra (addirittura in Antartide), la Luna, lo spazio profondo oltre il Sistema Solare, fino ad arrivare alla destinazione finale della nave stellare chiamata Aurora. E i lettori le hanno seguite libro dopo libro. Hanno sofferto e gioito con tutti noi. Sono stati testimoni di amicizie, tradimenti, omicidi, inganni, dell’emergere della coscienza in un’intelligenza artificiale e del conflitto tra questa e la sua creatrice, la cui natura è ancora più complessa.
 
La mia creatrice mi ha confidato che diversi lettori le hanno chiesto di continuare la mia storia, ma io sono d’accordo con lei nel lasciare a voi il compito di immaginare il mio destino e quello degli altri protagonisti del ciclo nel modo che preferite.
L’universo che lei ha creato e in cui io esisto è così vasto che forse un giorno ve ne mostrerà qualche altro aspetto, un po’ come ha fatto con il romanzo “Per caso”, anche se voi all’epoca non lo sapevate.
 

 
Il ciclo dell’Aurora comprende cinque parti: “Deserto rosso”, “L’isola di Gaia”, “Ophir. Codice vivente”, “Sirius. In caduta libera” e “Nave stellare Aurora”.
 
Se l’avete già letto tutto, vi lascio alla vostra immaginazione. Magari potete passare a trovarmi qualche volta sul mio profilo Twitter, dove condivido articoli sull’esplorazione spaziale.
Se, invece, non l’avete ancora letto, non posso che invitarvi a salire a bordo del mio rover per intraprendere con me questo viaggio!
 
Con questo articolo mi accomiato da voi ufficialmente. Non so quando tornerò su questo blog. Forse fra cinque anni o fra altri dieci. Chissà!
 
Ci vediamo su Marte o da qualche altra parte… là fuori.
 
 
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libro affinità d'intenti pistola e proiettili

Esattamente sette anni fa, il 21 maggio 2015, usciva il mio action thriller “Affinità d’intenti”, un romanzo un po’ diverso dai precedenti, poiché frutto di un’idea improvvisa e di una prima stesura molto rapida.
 
fronte del libroEra la fine dell’ottobre 2013 quando decisi di partecipare di nuovo al NaNoWriMo. Si tratta di una sfida contro se stessi a scrivere 50 mila parole di un romanzo tra il primo e il 30 novembre. L’anno prima ci ero riuscita con “Il mentore”, la cui prima stesura avevo poi completato nel mese successivo, partendo da un’idea che mi frullava in testa dal 2010 e che avevo avuto tempo di elaborare. Ma nel 2013 non avevo la più pallida idea di cosa scrivere.
 
Non ricordo esattamente quando accadde, ma a un certo punto immaginai la scena di apertura di “Affinità d’intenti”, che si apre con un proiettile che sfiora la testa della protagonista. Riflettendoci un po’, riuscii a individuare la fine della storia, ma mi mancava tutto quello che stava in mezzo!
E così mi buttai nella scrittura, seguendo un po’ i suggerimenti dei personaggi (Amelia Jennings e Mike Connor), che si trovano in una situazione di pericolo dietro l’altra, con poche pause, molti morti ammazzati e un bel po’ di humour nero.
 
Ne completai la prima stesura il 28 novembre, cioè in 28 giorni tondi. Ricordo che ero così ispirata da riuscire a macinare circa 2000 parole in poco più di un’ora, per cui non dovetti fare tanta fatica per arrivare alla fine. Ripensandoci adesso, mi sembra impossibile. I dettagli degli eventi mi si dipanavano nella mente da un giorno all’altro. E non è un caso che questo romanzo così rapido si svolga in un arco di tempo di sole 24 ore. Non dà il tempo di pensare, proprio come quasi non ne ho avuto io quando l’ho scritto, e quindi tende a prendere di sorpresa il lettore con i suoi colpi di scena.
 
 
Adesso, dopo sette anni, ho deciso di rimettere mano a questo libro per proporlo in una nuova edizione (i cambiamenti riguardano solo i testi extra, non il romanzo), con una copertina nuova di zecca e un nuovo formato: la copertina rigida.
Essendo un romanzo non particolarmente lungo e non facendo parte di una serie, era quello che meglio si prestava a sperimentare con questo formato.
Ho colto l’occasione per rielaborare il concetto alla base della copertina originale, usando stavolta delle foto. A questo proposito ho utilizzato gli scatti di Sandro Williams Photography e di Aleksey Sokolenko, riunendoli in una nuova composizione grafica.
 
Il risultato è quello che vedete nelle immagini.
Facendo clic sulle foto, potete vederne una versione più grande su Facebook.
 
Quel simbolo visibile alla base del dorso è la versione a icona del mio nuovo logo, che presto comparirà anche qui sul mio sito, sia così che nella sua versione estesa.
 
Ho inoltre aggiunto degli elementi grafici all’interno, in particolare ho inserito una piccola immagine nel colophon, nei numeri dei capitoli e il capolettera all'inizio di ciascuno di essi.

La mia intenzione era quella di creare un libro che fosse anche bello da vedere oltre che da leggere. E che magari renderlo così una buona idea regalo per un appassionato o un’appassionata di thriller!
 
 
La nuova edizione in copertina rigida è acquistabile a 15 euro su Amazon e Giunti Al Punto.
Per quando riguarda l’ebook, anche questo è stato aggiornato alla nuova edizione, sia nei contenuti che nella copertina, ed è sempre disponibile nei principali retailer.
 
La vecchia copertina, cui sono comunque affezionata, poiché l’ho disegnata io, resta invece nell’edizione in brossura del 2015.
 
le due edizioni affiancate
 
Potete trovare maggiori informazioni sul libro e tutti i link per l’acquisto nel minisito a esso dedicato, che per l’occasione è stato anch’esso aggiornato e ampliato con qualche dettaglio in più: www.anakina.net/affinita
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Di Carla (del 27/04/2022 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3116 volte)
Copertina de Il ragno di Michael Connelly
 Un detective formidabile e umano, che però si crogiola nelle proprie sfortune
 
 
Harry Bosch è senza dubbio uno dei detective letterari più riusciti in cui mi sia mai imbattuta. Fin dal primo libro di questa serie, “La memoria del topo”, mi sono subito trovata in sintonia con lui, con il suo fare a pezzi le regole per trovare il colpevole, con le sue debolezze e il suo triste passato. Ciò che rende questi romanzi di Connelly dei veri e propri crime thriller è il modo in cui il protagonista si trova coinvolto a livello personale nei casi cui lavora, tanto che gli stessi casi sono uno strumento di conflitto che contribuisce all’evoluzione del personaggio. Il problema nasce però nel momento in cui la serie si allunga e, per poter continuare ad avere un protagonista che si trascini dietro qualche demone (cioè un eroe difettoso), tutte le volte che in un romanzo la sua vita sembra prendere una svolta positiva, in quello successivo ciò che ha ottenuto deve andare a pezzi.
Era ciò che temevo accadesse ne “Il ragno”, motivo per cui dopo aver terminato la lettura di “Musica dura”, con tanto di lieto fine, ho esitato per anni, prima di affrontarlo. Purtroppo l’avevo già comprato, altrimenti mi sarei fermata al precedente.
Ovviamente il mio cattivo presentimento si è avverato.
Ne “Il ragno” vediamo Bosch alle prese con un omicidio avvenuto sulla funicolare Angels Flight (che è anche il titolo originale del romanzo). Il morto è un avvocato di colore famoso per le cause contro la polizia.
Come sempre, Connelly mescola con sapienza eventi e personaggi inventati con altri reali, fornendoci un’immagine realistica della tensione sociale a Los Angeles alla fine degli anni novanta. Ciò che apprezzo particolarmente di questo autore è proprio la cura che mette nei dettagli, segno di un lavoro di ricerca approfondito e di una notevole comprensione dell’argomento. In questo contesto credibile si muove il nostro Bosch, barcamenandosi tra la stampa, i colleghi che gli mettono i bastoni tra le ruote, l’insofferenza nei confronti delle regole e le persone oggetto delle sue indagini. Lo fa come sempre con arguzia, seguendo le prove e il proprio intuito, e rischiando anche la pelle.
In questo romanzo in particolare le indagini lo portano a scoprire verità scomode e inconfessabili, che tendono a condurlo fuori strada. Il colpevole alla fine salterà fuori. Ammetto che l’avevo intuito semplicemente andando per esclusione. Ma qui l’autore aggiunge un colpo da maestro, regalandoci un finale inaspettato e drammatico, e allo stesso tempo perfetto.
Ciò che non mi è piaciuto di questo libro, invece, riguarda la sfera personale relativa a Bosch. Come immaginavo, l’equilibrio e la felicità che aveva finalmente raggiunto in maniera inattesa (e forse troppo in facilmente) nel libro precedente vanno subito in frantumi, e alla fine lui si ritrova punto e a capo. Il suo personaggio subisce un’involuzione il cui scopo è far sì che continui a essere lo stesso eroe difettoso nei romanzi successivi (che non ho intenzione di leggere).
In particolare non ho apprezzato l’evanescenza di un personaggio importante come quello di Eleanor Wish, che nel primo libro della serie è stato cruciale nella definizione di Bosch agli occhi dei lettori, ma che sia in “Musica dura” che ne “Il ragno” sembra più una marionetta senz’anima, il cui scopo è portarlo in alto e poi farlo di nuovo precipitare (povero Bosch!). È un peccato, perché Eleanor mi piaceva e avrebbe meritato ben altro spessore.
 
Il ragno (Kindle, cartaceo) su Amazon.it.
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Di Carla (del 18/03/2022 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2425 volte)
Copertina del libro L'inganno di Prometeo
 Profetico
 
Mi piacciono tanto i libri di Ludlum, nonostante mi renda conto di come l’autore riutilizzi spesso gli stessi tipi di personaggi (in particolare il protagonista, che, gira e rigira, è sempre lo stesso) e gli stessi temi. Ha la capacità, però, di riadattarli a situazioni, ambientazioni e trame che riescono a mantenere una certa dose di originalità. In particolare, sono affascinata dalle sue opere meno recenti, proprio perché raccontano un presente che si allontana molto da quello attuale e in cui la vita della spia (o figura simile) era resa un po’ più semplice dal fatto che la tecnologia non permeava ogni aspetto della realtà.
“L’inganno di Prometeo”, invece, è uno degli ultimi libri di Ludlum (il penultimo, se non erro), infatti è del 2000, per cui durante la lettura ci si muove in una realtà più familiare. Ciò è ancora più vero grazie alla capacità dell’autore di immaginare tecnologie invasive della privacy che, purtroppo, sono in gran parte diventate realtà. La cosa incredibile è che lui ne ha parlato prima che accadesse l’attentato dell’11 settembre 2001, ma a tratti si ha come l’impressione che abbia avuto la possibilità di dare una sbirciatina al futuro per trarne ispirazione.
A dire il vero, immagino che Ludlum non credesse realmente che ciò che si paventa nel suo libro avesse una possibilità di realizzarsi. Il suo era ovviamente uno sforzo creativo. Spesso chi scrive mostra scenari estremi solo per il gusto di cercare di inventarsene le conseguenze e di creare un conflitto in cui gettare i propri personaggi quasi allo sbaraglio, per vedere come se la cavano. Nel farlo, però, è stato a dir poco profetico.
Certo, si tratta di un libro lungo e con una trama veramente complessa, che si dipana attraverso una serie di voltafaccia dei personaggi e colpi di scena dietro ogni angolo. D’altronde, la parola “inganno” del titolo lo lasciava presagire. Bisogna avere pazienza e arrivare fino in fondo per poter unire tutti i fili. Quando mancano poche pagine alla fine, sembra davvero tutto perduto per i protagonisti, ma anche a quel punto arriverà un bel colpo di scena, che cambierà ogni cosa, di nuovo.
 
L’inganno di Prometeo (Kindle, cartaceo, audiolibro) su Amazon.it.
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Di Carla (del 07/02/2022 @ 09:30:00, in Scrittura & pubblicazione, linkato 2647 volte)
Nel 2017 poco prima dell’uscita nel libro finale della Trilogia del detective Eric Shaw, “Oltre il limite”, sono stata intervistata dal collega Jacques Oscar Lufuluabo per un sito web che purtroppo non esiste più. Quell’intervista si è quindi persa nel cyberspazio e allora ho pensato di riproporvene qui sul blog almeno una parte, quella in cui discuto con Oscar dell’origine della trilogia, delle ricerche svolte per ambientarla a Londra e delle scelte narrative, incluse varie licenze artistiche, che ho compiuto nello scriverla.
 
Mina davanti a una finestra che dà sul Big Ben con il riflesso di Eric sul vetro
 
 
1.      Ne Il mentore, primo volume di una trilogia, lasci entrare il lettore in un mondo londinese caratterizzato da delitti efferati, menti subdole e agenti dalle vite complicate. Nonostante il finale a chiusura, resta una porta aperta verso la vita privata del protagonista. Il che fa sorgere una domanda: la scelta di dar vita a una trilogia è scaturita dalla voglia di continuare la storia, che si prestava a proseguire, o era un progetto pianificato in precedenza?
 
Tutti i miei libri hanno un finale aperto, non perché io pensi sempre di scriverne un seguito, bensì perché non amo proprio le storie con la parola fine. Da lettrice mi piace immaginare ciò che accadrà dopo, senza che sia l’autore a dirmelo, e quindi questo si riflette anche nei miei scritti. Voglio che i miei lettori abbiano modo di ripensare al finale di un libro e creare un proprio seguito.
Anche “Il mentore” è nato come romanzo autoconclusivo. Non avevo nessuna intenzione di continuare la storia né di tradurlo in inglese. Poi è capitato che ha avuto più successo di quanto mi aspettassi (e l’aspettativa era bassissima, visto che fino a quel momento avevo pubblicato soltanto nell’ambito dei generi del fantastico) già in italiano, cosa che ha suscitato l’interesse di AmazonCrossing per l’edizione in inglese. A quel punto ho pensato che forse sarebbe valsa la pena continuare la storia. E così ho progettato gli altri due libri, “Sindrome” e “Oltre il limite”, che ho scritto a distanza di un anno l’uno dall’altro. Nel farlo mi sono resa conto che Eric Shaw meritava davvero un degno sviluppo e una degna conclusione della sua storia, indipendentemente da come sarebbero poi andati questi due libri a livello di vendite o di gradimenti di lettori. Diciamo che questi due libri sono stati scritti soprattutto per lui.
 
 
copertina del romanzo Il mentore2.      In alcuni passaggi de Il mentore viene messo a nudo l’istinto che spinge verso gli atti efferati. Dal suo blog, l’assassina afferma: “La sensazione di controllo che si prova è inebriante.” E ancora in un altro punto:  “È come se, da quando ho iniziato a farlo, tutto intorno a me avesse preso a muoversi seguendo un disegno da me creato.” Ci potresti spiegare questo strano desiderio di un serial killer di mostrare i suoi meccanismi interni al mondo?
 
Il blog di Mina, in realtà, non è rivolto al mondo, ma nasce dal desiderio di questo personaggio di condividere il suo stato d’animo con il protagonista, il detective Eric Shaw. Intimamente spera che un giorno lui si imbatta nel suo blog e la riconosca. E qui mi fermo, per evitare ulteriori anticipazioni a chi volesse leggere il libro.

 
3.      Come è nato il personaggio del detective Eric Shaw?
 
L’idea alla base de “Il mentore” è nata nel 2010, oltre due anni prima la scrittura della prima stesura del libro, avvenuta tra il novembre e il dicembre 2012 (il libro, poi, l’ho pubblicato nel 2014). Io sono un’appassionata del media franchise di CSI, in particolare della serie originale e di quella ambientata a New York, ma una cosa che non amo di queste serie pensate per una TV di tipo generalista (la CBS) è che i buoni e i cattivi sono ben definiti. Il poliziotto è talmente rispettoso delle regole da diventare del tutto irrealistico. E così mi sono ritrovata a immaginare una storia che avesse come contesto le scienze forensi in cui però il protagonista fosse un detective con un bel po’ di difetti: fabbrica delle prove false per incastrare i criminali, si interessa sentimentalmente a una sua collega oltre vent’anni più giovane di lui (che è anche una sua sottoposta) e addirittura finisce per mettere in dubbio la propria fede incrollabile nell’applicazione della giustizia a tutti i costi, quando tale fede va a cozzare con i suoi affetti personali.
Quando nel 2012 ho deciso di provare per la prima volta il NaNoWriMo (una sfida contro se stessi a scrivere 50 mila parole di un romanzo dal 1° al 30 novembre), ho pensato che fosse il momento giusto per dare vita a quella storia, interrompendo per un paio di mesi la mia immersione nell’ambientazione di Marte (ho scritto la prima stesura de “Il mentore” tra i primi e gli ultimi due libri della serie di fantascienza di “Deserto rosso”).

 
copertina del romanzo Sindrome4.      Perché hai scelto di ambientare il giallo in Inghilterra? E, inoltre, quanto ti sei documentata per adattarlo a un paese dove i sistemi di polizia sono differenti dal nostro?
 
Prima di tutto, questo libro non è un giallo, bensì un crime thriller. La differenza sta nel fatto che al centro della storia non c’è il delitto e la sua risoluzione, ma le vicende di chi investiga.
Per una trama così controversa, fuori dei soliti schemi, non solo come temi, ma anche riguardo alla loro risoluzione tutt’altro che convenzionale, ci voleva un luogo adatto, e Londra con la sua storia criminale, sia nella narrativa (tanto che “British detective” è un vero è proprio sottogenere letterario) che nella realtà (uno su tutti il famigerato Jack Lo Squartatore), era perfetta per questo scopo. Inoltre, Londra è la città che, tutto sommato, conosco meglio, dopo quella in cui vivo, ma per fortuna a Cagliari non ci sono mai stati serial killer nel senso moderno del termine e quindi non sarebbe stata una location credibile in ogni caso (né io avrei avuto voglia di scrivere di un luogo che vedo tutti i santi giorni… che noia!). E infatti sono stata di persona nella maggior parte dei luoghi reali in cui si svolgono le scene della trilogia o comunque ci saprei arrivare senza ricorrere a una cartina.
Per quanto riguarda l’organizzazione delle forze di polizia (ma anche del sistema giudiziario), il problema del confronto con quelle italiane non si è mai posto. Prima di tutto, non so proprio nulla di come funziona la polizia in Italia, mentre su quella britannica qualcosina ho finito per impararla tra libri, film e serie TV. In secondo luogo, sul web trovi davvero di tutto. Gli stessi siti ufficiali forniscono moltissime informazioni. Pensa che ho trovato persino come ci si rivolge a un giudice nei vari tipi di procedimenti (esistono tanti modi diversi), secondo che ci si trovi in aula o meno, e ho usato questa informazione nell’ultimo libro della trilogia, “Oltre il limite”. Mentre facevo, inoltre, l’editing de “Il mentore”, ho frequentato un corso online sulle scienze forensi organizzato dall’Università di Leicester.
 
Ma alla fine tutto questo importa fino a un certo punto, poiché ho deciso di non attenermi in maniera specifica alla realtà, bensì di piegarla alle necessità della trama, come spiego nella nota all’inizio di tutti i libri. Per esempio, i miei tecnici forensi di fatto sono anche investigatori della scena del crimine e poliziotti, mentre nella realtà nel Regno Unito queste tre figure sono spesso separate. Tra l’altro uso impropriamente il termine “criminologo” invece di “criminalista”, proprio come viene fatto in CSI, e la cosa è voluta, in quanto è ben noto al potenziale lettore dei miei libri. I poliziotti britannici, poi, raramente portano la pistola, poiché per farlo devono diventare specialisti nell’uso delle armi, sottoponendosi a un addestramento particolare. Guarda caso, i tre personaggi principali della storia pare che abbiamo fatto tale addestramento! Ancora, ne “Il mentore” non entro nel dettaglio riguardo ai gradi all’interno della Polizia Metropolitana di Londra. Mi limito a definire Eric Shaw e Miriam Leroux (della Omicidi) dei detective, ruolo che rappresenta solo un incarico, in pratica è un prefisso che si antepone al grado vero e proprio. Il primo libro è talmente concentrato sull’azione (ed è anche abbastanza breve) che non mi sono dilungata su questi dettagli, poiché la loro conoscenza non era essenziale alla trama, ma poi in “Sindrome”, tra le varie cose, si scopre che Eric è un detective ispettore capo e che Miriam è copertina del libro Oltre il limiteun detective ispettore, mentre altri personaggi salgono di grado da un libro all’altro, poiché vengono promossi, e così via. Ho cercato comunque di inserire questi dettagli in maniera non invasiva, limitandomi a citarli solo laddove fosse funzionale allo sviluppo della storia o alla caratterizzazione dei singoli personaggi.
 
In generale, è stato un lavoro di ricerca svolto man mano che avevo bisogno di certe informazioni.
Una cosa curiosa cui ho dovuto far fronte è che recentemente la sede della Polizia Metropolitana di Londra, vale a dire New Scotland Yard, si è trasferita, dopo molti decenni. Purtroppo, dovendo scrivere la storia di “Oltre il limite” con alcuni mesi di anticipo rispetto al suo svolgimento (la storia inizia proprio il 21 maggio 2017, vale a dire il giorno dell’uscita del libro), non potevo sapere se per quella data il trasferimento nel Curtis Green Building (in Victoria Embankment, sul Tamigi, proprio di fronte al London Eye, che ha un ruolo importante nella trama) sarebbe stato completato per quella data né se in tale edificio ci sarebbe effettivamente stata una sede del Servizio di Scienze Forensi (che invece esisteva nel vecchio edificio sulla Broadway). Al che sono stata costretta a decidere che ci sarebbe stata, poiché avevo bisogno di una location certa per la mia storia. Magari ci ho preso, in caso contrario sarà l’ennesima licenza!
 
Trilogia del detective Eric Shaw: www.anakina.net/detectiveshaw
 
 
Grazie ancora a Jacques Oscar Lufuluabo per le interessanti domande e per aver acconsentito a riprodurle l’intervista perduta sul blog.
Vi consiglio di dare un’occhiata al suo sito e scoprire tutto sui suoi libri: https://www.joloscar.com
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Di Carla (del 01/02/2022 @ 09:30:00, in Come vivere su Marte, linkato 2865 volte)
Per creare la nostra colonia su Marte, una volta risolto il problema di procurarsi acqua, energia e ossigeno, rimane quello di fornire ai nuovi colonizzatori qualcosa da mangiare.
Inizialmente è possibile portarsi dietro del cibo surgelato, liofilizzato e a lunga conservazione dalla Terra, ma a lungo andare sarà necessario produrlo direttamente sul pianeta rosso.
 
 
Tale cibo deve essere in grado di fornire i nutrienti essenziali per la salute umana nelle proporzioni corrette, deve essere nella quantità necessaria per il numero e la tipologia di persone da sfamare, infine deve fornire un’esperienza di alimentazione varia e piacevole, poiché ciò ha effetto sul benessere psicologico dei colonizzatori.
 
Le principali categorie di nutrienti sono i carboidrati, le proteine e i lipidi, che inoltre forniscono l’energia che alimenta il corpo umano. A questi si aggiungono alcuni minerali e le vitamine che, pur non producendo energia, sono essenziali per il normale funzionamento del nostro corpo. Un’alimentazione varia ci permette di assumere tutto ciò di cui abbiamo bisogno senza porci troppi problemi, ma su Marte, dove possiamo contare su delle risorse limitate, dobbiamo trovare il modo per sfruttarle al meglio in modo da produrre il cibo che ci consenta di avere una dieta corretta.
 
C’è inoltre da considerare la quantità di cibo. Per misurare l’energia di cui abbiamo bisogno per il metabolismo del nostro corpo usiamo le chilocalorie (kcal). Una chilocaloria (1 kcal) corrisponde all’energia necessaria per far aumentare la temperatura un chilogrammo di acqua di un grado Celsius.
I carboidrati e le proteine contengono circa quattro chilocalorie per grammo (4 kcal/g), mentre i lipidi ne contengono circa nove (9 kcal/g). I cibi però sono spesso composti da più di una tipologia di queste sostanze, inoltre c’è da considerare che ci sono alcune di esse, come la cellulosa (che è un carboidrato), che non sono digeribili dagli esseri umani e altre, come gli alcoli, che vanno incontro a un processo metabolico diverso che produce meno energia.
 
 
Sulle base di queste osservazioni, sono stati individuati i cibi più adatti per la produzione su Marte. È ovvio che si tratta principalmente di organismi autotrofi (come le piante), perché allevare degli animali sarebbe troppo complicato e dispendioso, soprattutto all’inizio del processo di colonizzazione.
Tra le piante più adeguate a questo scopo ci sono le patate, perché hanno un elevato contenuto di energia (escludendo la cellulosa, contengono circa 1 kcal per grammo), una buona quantità di fibre (appunto la cellulosa), che anche se non vengono digerite sono essenziali per il corretto funzionamento dell’intestino, e importanti nutrienti come la vitamina C, la vitamina B6, il potassio e altri minerali.
Anche la lattuga può essere un cibo adatto per la vita su Marte. Anche se contiene poca energia, fornisce importanti nutrienti e la sua consistenza ha effetti benefici dal punto di vista psicologico sulle persone.
Un ottimo alimento è rappresentato anche da alcuni cianobatteri (detti anche alghe azzurre), tra cui la spirulina. Si tratta in realtà di un microrganismo procariote (cioè un organismo unicellulare che non possiede un nucleo ben definito) che possiamo vedere a occhi nudo solo quando è aggregato sotto forma di colonia e quindi in quantità tali da poter essere mangiato. Un grammo di spirulina contiene circa 2,90 kcal. Trattandosi di una forma di vita molto semplice, è altrettanto semplice favorirne la riproduzione e quindi produrla anche su Marte.
 
Questi alimenti rappresentano solo un punto di partenza, in quanto hanno un’ottima resa con uno sforzo contenuto. Con lo sviluppo della colonia sarà necessario ampliare la scelta di alimenti, anche se perlopiù saranno di tipo vegetale. In realtà, potrebbero essere introdotti anche degli animali, nello specifico degli insetti (come il grillo, già usati a scopo alimentare). Sarebbe ancora meglio se si trattasse di impollinatori. Questi ultimi avrebbero il doppio scopo di impollinare la piante, favorendone la riproduzione, e di fungere da alimento per i colonizzatori.
 
 
Okay, abbiamo individuato le piante da coltivare, ma di cosa hanno bisogno per crescere?
Come dicevo, sono organismi autotrofi, quindi hanno bisogno essenzialmente di acqua, anidride carbonica, alcuni minerali e luce. Le prime due e l’ultima le abbiamo.
In realtà, il fatto che su Marte c’è la luce del Sole non significa che possiamo coltivare le piante all’aperto. L’ambiente è ostile a qualsiasi forma di vita. Le radiazioni, laddove non uccidessero la pianta, provocherebbero mutazioni in grado di ridurne considerevolmente l’utilizzo a scopo alimentare. Poi c’è il problema della temperatura: le piante si congelerebbero!
Per ovviare a tutto ciò, è necessario dotarsi di un ambiente separato dall’esterno e riscaldato, come, per esempio, una serra (come ho immaginato di fare in “Deserto rosso). Ma poi bisogna assicurarsi di schermarla almeno in parte dalle radiazioni sterilizzanti, pur permettendo alla luce visibile di entrare, cosa tutt’altro che semplice. Oppure, invece di usare una serra, si potrebbero coltivare le piante di un laboratorio illuminato artificialmente, utilizzando solo le lunghezze d’onda del rosso e del blu, che rendono la fotosintesi più efficiente.
 
Il discorso dei minerali è un po’ più complesso, poiché le piante li assorbono in forma disciolta in acqua dal terreno. Inoltre, c’è da considerare che alcune sostanze presenti nel terreno potrebbero inibire la crescita delle piante o ucciderle.
Ed ecco che la nostra attenzione si sposta sul suolo marziano.
 
Così com’è la regolite marziana non è adatta per la coltivazione. Non ha un pH neutro (che è quello preferito dalle piante), ha troppi perclorati e metalli pesanti, e non contiene materiale organico.
Possiamo facilmente correggere il pH.
Quello dei perclorati e dei metalli pesanti, invece, è un problema un po’ più serio. Bisogna trovare dei sistemi per bonificare il terreno da queste sostanze. Alcuni batteri sulla Terra usano i perclorati, quindi ci potrebbero tornare utili a questo scopo per preparare il suolo marziano. In quanto ai metalli pesanti, se ne dovrebbe monitorare la quantità assorbita dalle piante. Magari si potrebbero selezionare delle piante che assorbono queste sostante, da utilizzare solo con lo scopo di preparare il terreno a coltivazioni successive.
Resta infine il problema del materiale organico. Il terreno deve essere fertilizzato e ciò può essere fatto aggiungendo rifiuti organici umani (avete letto o visto “The Martian”?) o parti non edibili di piante coltivate, in altre parole rifiuti compostabili. La presenza di batteri e funghi faciliterà la trasformazione del terreno, rendendolo adatto alla coltivazione di altre piante.
 
In alternativa a tutto ciò, c’è l’uso delle colture idroponiche. Esse consistono nella coltivazione di piante svolta immergendone le radici in una soluzione acquosa che contiene tutti i nutrienti necessari e facendo a meno del terreno.
 
 
Con questo si chiude la mia serie di articoli su Marte iniziata qualche anno fa. Vi siete persi gli altri? Partite da qui.
 
 
Le prime due immagini sono della NASA, la terza proviene dal film "The Martian" (© Twentieth Century Fox) e l'ultima è della SpaceX. Fate clic su di esse per vederle nelle dimensioni originali.
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