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 Malta... di Carla
 

"Sei proprio un mistero impenetrabile, piccola Anna." Deserto rosso - Abitanti di Marte

 

Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Carla (del 09/05/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1932 volte)

 La tomba del re Tut
 
Sono passati oltre venticinque anni da quando mi capitò di leggere il saggio “Tutankhamen. Il faraone dimenticato” di Philipp Vandenberg e rimasi affascinata per la prima volta dalle scoperte archeologiche relative all’antico Egitto. Da allora mi sono interessata parecchio all’egittologia, per quanto solo in qualità di curiosa, e quindi adesso nel leggere questo romanzo breve di Isabel Giustiniani, che ripercorre la scoperta della tomba del re Tut, mi sono goduta una sorta di ripasso di un argomento che conoscevo bene, ma narrato in una chiave romanzata, cosa che permette di colmare le effettive conoscenze sull’operato di Howard Carter con la fantasia dell’autrice. Ne viene fuori un racconto scorrevole, che può rappresentare un’opportunità per venire a conoscenza di un evento storico di portata eccezionale attraverso il filtro di un personaggio immaginario (Na’im).
In realtà l’aspetto romanzato del libro è abbastanza marginale. I personaggi non sono approfonditi più del necessario, lasciando ampio spazio agli eventi storici, già di per sé talmente straordinari da non aver bisogno dell’aggiunta di troppa fantasia. Ciò fa sì che quest’ultima funga da guida, rendendo i fatti più fruibili a un lettore che ne sia interessato, ma che allo stesso tempo non ami i saggi.
Si osserva infine, in alcune scene, la comparsa di un fantomatico bracciale a forma di serpente. Il suo inserimento nella storia è così ben fatto da far quasi sorgere il dubbio che tale manufatto esista davvero. Non è così. Esso, invece, rappresenta l’unico elemento che determina la definizione di prequel data a questo libro. Di fatto, però, “La tomba del canarino” può essere letto come un libro autoconclusivo ed è un tipo di romanzo storico molto diverso da “L’ombra del Serpente”, in cui l’elemento fantasy ha un ruolo più predominante nella storia e quella dell’Egitto è solo una delle ambientazioni.
 
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Di Carla (del 02/05/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2141 volte)

 Un altro eroe imperfetto di Ludlum
 
Un grande autore come Ludlum aveva la capacità di addentrarsi in ambientazioni e storie completamente diverse, proponendo al contempo una sua versione di eroe “difettoso”, cui nell’arco del libro succedevano di tutti i colori e che rischiava più di una volta di morire, ma alla fine se la cavava, nonostante compiesse sempre numerosi passi falsi e si facesse un bel po’ male.
In questo caso si tratta di un insegnante universitario d’inglese, James Matlock, che si trova coinvolto nel tentativo di sgominare un’enorme organizzazione di traffico di droga, prostituzione e tanto altro che coinvolge numerosi atenei americani. Matlock non è uno sprovveduto. Ex-militare, è uno pieno di inventiva. Si ritrova però a combattere qualcosa di più grande di lui e nel farlo, in un’escalation di omicidi, inseguimenti, rapimenti, esplosioni e tanto altro, a un certo punto non saprà neanche quante sono le parti in gioco e se ne esista almeno una di cui possa fidarsi.
In questo libro Ludlum, come sempre, mostra una grandissima inventiva e la sua capacità di tenerti incollato alle pagine. Insieme a Matlock, il lettore cercherà di venire a capo di un’intricata rete di intrighi e, magari, di sopravvivere.
Nonostante si tratti di un libro scritto nel 1973, risulta molto attuale. Certo, non ci sono i cellulari, non c’è internet e tante altre tecnologie che possiamo trovare nei thriller d’azione di questi anni, ma la difficoltà creata dall’assenza di tali mezzi, con il protagonista che si vede costretto ad andare a caccia di cabine telefoniche (!), rende la lettura ancora più godibile e il senso di pericolo più realistico.
La traduzione del 1984 è ottima (a parte qualche virgola “all’inglese”), cosa che purtroppo non si osserva in quelle dello stesso autore, e di altri, fatte in tempi più recenti. Si nota il passaggio del tempo per via dell’uso di qualche termine non comune, che però conferisce al testo un aspetto ricercato, ricco, ed è in perfetta sintonia con l’ambientazione.
 
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Di Carla (del 25/04/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1959 volte)

 Insieme di cose già viste e colpi di scena telefonati
 
La mia opinione su questo libro è variata alcune volte durante la lettura. L’inizio non mi ha entusiasmato, ma circa a metà della storia mi sono trovata coinvolta in essa, per poi venire miseramente delusa alla fine.
Iniziamo dagli aspetti positivi.
Dugoni scrive bene, su questo non c’è dubbio. E la traduzione di Roberta Marasco, salvo qualche piccola imperfezione (un paio di virgole sbagliate, perché riportate tali e quali dall’inglese, e che avrebbero dovuto essere corrette da chi si è occupato della revisione), è ottima.
La storia è senza dubbio scorrevole, grazie anche alle ambientazioni suggestive che non possono non rimandare alle immagini uggiose di familiari paesini inquietanti dello stato di Washington visti al cinema o in tivù. Come dicevo prima, inoltre, intorno alla metà si fa interessante e ti viene la voglia di sapere come continua, poiché speri in qualche colpo di scena.
Purtroppo questa speranza viene disillusa.
Di fatto siamo di fronte a un insieme di cose già viste, a partire dalla ragazza scomparsa/uccisa nel paesino in cui non era mai successo nulla prima, a continuare col classico caso irrisolto vecchio di vent’anni e per finire con la bufera di neve che arriva proprio nel momento più drammatico della storia.
Il personaggio di Tracy, la protagonista, non è abbastanza approfondito e non sono riuscita a immedesimarmi in lei. Mi è piaciuto il personaggio di Dan, ma alla fine non ha così tanto spazio nella risoluzione della storia. È vittima degli eventi. Inoltre lo sviluppo sentimentale tra i due è scontato fin da subito e viene mostrato in maniera fredda, senza coinvolgere il lettore.
I flashback sono tristi e deprimenti, a volte non portano avanti la trama, sono lì solo come elemento drammatico.
La trama in sé è il problema principale del romanzo. Possibile che in vent’anni Tracy si sia concentrata su chi non potesse essere l’assassino della sorella e non su chi potesse esserlo?
Le motivazioni dei personaggi sono molto deboli, soprattutto di coloro che hanno mandato in prigione Edmund House. Il motivo per cui non l’hanno mai spiegato a Tracy, facendola dannare per vent’anni, non regge proprio.
L’autore non ci porta mai a pensare a chi possa essere l’assassino, tanto che a un certo punto ho sperato fosse uno dei personaggi comparsi per caso oppure insospettabili, ma purtroppo mi sbagliavo. In teoria la sua intenzione è suggerircene qualcuno attraverso il comportamento delle persone coinvolte nella manomissione delle prove, ma la loro motivazione per tale azione è evidente, quindi neanche per un istante ho pensato che uno di loro potesse aver ucciso Sarah. Solo nell’ultima parte Dugoni cerca di indirizzarci verso un personaggio in particolare, ma anche in questo caso è evidente che la teoria non regge, e alla fine dei giochi l’assassino è il più ovvio possibile.
E infatti per tutto il tempo mi sono stupita di come una detective della Omicidi di Seattle non riuscisse a vedere l’ovvio.
Di fronte a tutto ciò in pratica non ho rilevato alcun colpo di scena e in generale molti eventi che avrebbero dovuto stupire sono di fatto telefonati, poiché l’autore li anticipa o comunque li indirizza verso sviluppi scontati. Dal momento della “rivelazione” (ovvia) dell’identità dell’assassino ho saputo come sarebbe finita la storia, anche perché non c’era il minimo dubbio che Tracy si sarebbe salvata, essendo la protagonista e trattandosi del primo libro di una serie.
Infine, gli ultimi capitoli sono abbastanza inutili. Le scene in cui lei va trovare le persone in ospedale erano evitabili, idem si può dire per l’epilogo.
In poche parole mi spiace dover dire che, una volta capito che non presentava alcuna originalità né sorpresa, ho trovato nel complesso il romanzo abbastanza noioso.
 
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Di Guest blogger (del 20/04/2017 @ 09:30:00, in Scrittura & pubblicazione, linkato 3435 volte)

L’ospite di oggi sul mio blog è Elisabetta Barbara De Sanctis, autrice del romanzo “Il filo che ci unisce”, che ci parla di esperienze ai confini della morte.
 
«Mia nonna mi ha preso la mano e insieme abbiamo attraversato un tunnel. E poi ho visto la luce e... tutto quanto.»
Giulia esita prima di pronunciare le ultime due parole. Respira, prende fiato per un secondo che a entrambe pare una vita e infine le butta fuori in un sussurro, come se le costasse uno sforzo enorme. Il mio cuore per un attimo si ferma, prima di riprendere a battere a un ritmo impazzito, ma non me ne curo. Non riesco a pensare a nulla. Sono con Giulia, ovunque mi abbia condotta.
 
Mi sembra che il sole di quel primo pomeriggio di agosto che attraversa le persiane appena accostate sia più vivido adesso, più luminoso, quasi che la luce di cui parla Giulia si sia infiltrata attraverso il pulviscolo che galleggia sospeso in quel cono che taglia la stanza, prima di disegnare un’ombra trapezoidale sul pavimento. Sospesa come è stata lei, tra la vita e la morte. Sospesa come me in questo momento, davanti alla realtà che lentamente si svela, man mano che il senso delle sue parole si fa largo tra le mie certezze, fino a spazzarle via con un boato che mi scuote fin nelle fondamenta.
La guardo e la serenità dipinta sul suo volto mi placa. Mi sta osservando con i suoi occhi castani. Abbozza un timido sorriso davanti alla mia espressione che di certo non nasconde lo stupore. Si torce le mani strette in grembo, lasciando così trapelare una certa ansia mentre il marito, seduto accanto a lei, le accarezza i capelli con delicatezza e il piccolo Marco gioca nel box impilando grossi dadi di plastica di tutti i colori, ignaro di quanto stia accadendo intorno a lui.
 
Giulia ha avuto un incidente circa due anni fa. Era incinta di otto mesi. Quando l’ambulanza era arrivata al policlinico, i medici si erano resi conto subito di essere davanti a una situazione disperata. Erano riusciti per miracolo a far nascere il bambino ma, nonostante i ripetuti tentativi di rianimazione, non avevano avuto la stessa fortuna con Giulia e alla fine si erano dovuti arrendere all’evidenza: il cuore di Giulia si era fermato per sempre e uno di loro avrebbe dovuto dire a quell’uomo che era diventato papà di una creatura non avrebbe mai conosciuto la sua mamma.
Ma un giovane medico, da pochi giorni al pronto soccorso, non si era voluto arrendere davanti a quella tragedia. Non dopo aver perso suo fratello in un incidente stradale. Così aveva afferrato le spalle di Giulia e aveva cominciato a gridare e a scuoterla, poi le aveva tempestato il petto di pugni continuando a urlare che c’era un bambino che aveva bisogno di lei e che lei sarebbe stata un’egoista se lo avesse abbandonato. Lo avevano afferrato, c’erano voluti due medici e un paramedico per bloccarlo e trascinarlo via, ma prima di lasciare la stanza aveva fatto in tempo a sentire quel beep che aveva lasciato tutti increduli e sbigottiti.
 
A raccontare tutto questo non è stato un medico o un infermiere. È stata Giulia. Ha riferito tutto al marito due settimane dopo, quando si è svegliata dal coma che le era stato indotto per far diminuire la pressione intracranica, dopo che il suo cuore aveva ricominciato a battere.
Adesso è lui che mi guarda, gli occhi lucidi e la voce spezzata dall’emozione mentre rivive quei momenti, la sua incredulità e la certezza che quello di Giulia fosse solo un sogno. Ma Giulia in seguito aveva chiesto di poter parlare con quel giovane medico, gli aveva raccontato quello che aveva visto e sentito mentre si muoveva tra loro, guardando il suo corpo martoriato steso sulla barella, prima di vedere la nonna morta anni prima e di andare verso il tunnel insieme a lei. Giulia sorride e le trema il mento al ricordo.
«Ha pianto, poi mi ha preso la mano e mi ha ringraziata. Lui a me, capisci? Io ero viva grazie a lui...»
La voce le si spezza e sono io ad afferrare le sue mani adesso, in silenzio perché ogni mia parola sarebbe di troppo. Il marito le cinge le spalle. Mi hanno dato accesso a qualcosa di intimo e io resto lì, non mi muovo, non parlo.
 
Quanto c’è di vero in questo racconto? Tutto e niente. Ho avuto il privilegio di conoscere una persona che ha condiviso con me la sua esperienza di NDE - Near Death Experience - ovvero Esperienze ai confini della morte. In seguito ne ho incontrate altre due. Ho rispettato il loro volere e ho attinto alla mia fantasia di scrittrice per riportarvi le loro storie mescolate insieme così da non essere individuabili, ma è giusto così perché chi ha vissuto una NDE spesso ne parla fino allo sfinimento, ma i più preferiscono invece non farlo e tenere per sé qualcosa che potrebbe non essere compreso, travisato, disprezzato o che li renderebbe oggetto di una curiosità morbosa.
 
Al di là delle ipotesi scientifiche o spirituali che cercano di fornire una spiegazione davanti a storie così sconcertanti, ascoltare il racconto di una NDE dalla voce di chi l’ha vissuta è qualcosa che lascia il segno. Le mie radici sono cattoliche, anche se non sono praticante e l’esperienza mi ha portato ad abbracciare una visione spirituale della vita di più ampio respiro, al di là delle etichette imposte dalla religione. Ma qui non è di religione che si parla, bensì dell’interrogativo a cui l’uomo, fin dalle origini, tenta di dare una risposta: c’è vita dopo la morte?
Io non so quale sia la risposta, ma le persone che ho incontrato, e che mi hanno raccontato la loro esperienza ai confini della morte, hanno letto la domanda nei miei occhi e non hanno avuto nessuna esitazione nel rispondere: «
 
Dopo aver incontrato queste persone speciali, a cui va la mia eterna gratitudine per avermi donato una parte così importante della loro vita, ho letto molto sull’argomento, mi sono documentata, soprattutto sul sito della Near Death Experience Research Foundation e mi sono lasciata condurre. Non ho più cercato la risposta a quell’interrogativo fondamentale dell’esistenza, ma ho lasciato che mente e cuore si aprissero, accogliendo l’infinita gamma delle possibilità e lasciando che la mia stessa vita acquisisse un senso più pieno, proprio in virtù di quelle possibilità.
Come persona sono curiosa di natura e la scrittrice che è in me ama guardare il mondo senza pregiudizi, senza preconcetti, limitandosi a registrare e assorbire tutto quello che mi accade intorno, dimostrando al momento giusto un istinto infallibile che è la mia guida. Così, mentre la trama del mio primo romanzo si delineava davanti ai miei occhi con l’unica certezza di voler raccontare una storia in cui il protagonista fosse l’amore, dopo l’ennesimo caffè, con la mente che vagliava freneticamente tutte le soluzioni possibili per dare a quella storia un tocco di originalità, è accaduto l’impossibile. L’assurdo. Il miracolo.
 
Laura, la protagonista del romanzo, si è materializzata davanti ai miei occhi con il volto rigato di lacrime e la voce spezzata: «Luca è in coma! Aiutami! Sono disperata! Non posso vivere senza di lui, devi aiutarmi!»
Vi lascio immaginare il balzo che ho fatto sulla sedia e il caffè finito sulla tastiera, sul mouse, ovunque. Ma per quanto fossi sorpresa per quella che non era la prima incursione da parte di un personaggio dal mio mondo di fantasia a quello reale, non fu nulla in confronto allo shock nel sentire la mia voce che le rispondeva.
«E io cosa posso fare?»
«Devi raccontare la nostra storia! Devi dire che ogni notte Luca viene da me!»
«Ma non mi hai detto che Luca è in coma?»
«Sì, ma lui ogni notte viene da me ed è reale, però il giorno mi sembra tutto così assurdo! Io non sono pazza, vero? Tu lo sai che non sono pazza. Tu lo sai che è possibile, tu le hai ascoltate quelle storie...»
«Va bene» ho acconsentito, chiedendomi se non fosse il caso di contattare uno psicologo.
Forse se avessi preso l’appuntamento per me e Laura, se fossimo andate insieme, avremmo avuto diritto a uno sconto e chissà, magari ci avrebbero ricoverate nella stessa stanza nel reparto di psichiatria.
«Davvero? Scriverai la nostra storia?»
«Sì, ma adesso siediti per favore, mi stai facendo venire il mal di mare. Mettiti qui e raccontami tutto, io intanto pulisco questo disastro e metto su un’altra moka di caffè, ho l’impressione che ne avremo bisogno.»
 
È nato così “Il filo che ci unisce”, il mio romance pubblicato da Youfeel Rizzoli, originariamente uscito in self un anno e mezzo fa, anche se con un titolo diverso. Una storia romantica e intensa che racconta di un legame d’amore così forte e puro da andare oltre le barriere della logica e persino oltre la morte. Una storia toccante, a tratti drammatica, passionale e sensuale, in cui troverete una NDE di fantasia, ispirata dalle tante che mi hanno toccato il cuore. Una storia dedicata a chi non ha mai smesso di sognare l’amore, a chi ne è rimasto deluso, a chi per amore ha sofferto, a chi pensa di non crederci più. Perché “Il filo che ci unisce” è un romanzo che parla sì d’amore, ma soprattutto apre il cuore alla speranza.
 

ELISABETTA BARBARA DE SANCTIS vive in provincia di Pescara e studia Psicologia. Nella scrittura le piace sperimentare fra vari generi e raccontare principalmente le infinite sfumature del mondo femminile, anche attraverso la poesia. È sposata, ha una gatta che adora viziare, ama i libri, è disordinata, si annoia facilmente e vive sempre divisa tra la realtà e un mondo di fantasia che pullula di storie e personaggi da raccontare.

Oltre al romance “Il filo che ci unisce” (Ed. Youfeel Rizzoli), ha pubblicato anche da indipendente il romanzo di narrativa “Senza più nome”, due raccolte di poesie e alcuni racconti.
È socia di EWWA - European Writing Women Association.

Potete trovarla sul suo sito, su Facebook, Twitter, Tumblr, Goodreads e Instagram.
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Di Carla (del 18/04/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1894 volte)

 Grande ricostruzione storica del maestro
 
Quella della grande rapina al treno del 1855 è una delle storie vere in cui la realtà supera la fantasia. il modo ingegnoso con cui la rapina è stata preparata, il suo sviluppo pieno di colpi di scena e il finale a sorpresa sembrano frutto della fantasia di qualcuno, e invece sono storia.
Crichton ha scritto questo libro a metà strada tra resoconto e romanzo, mescolando fatti desunti dalle sue ricerche con scene romanzate da lui create sulla base di tali fatti. Non c’è da stupirsi che ne sia stato tratto un film. Sembra concepito e scritto per il cinema!
Il lettore ha l’opportunità di calarsi nella Londra vittoriana e conoscerne usi e costumi, soprattutto della criminalità, a partire dal pittoresco gergo. Non si può non ridere in alcuni passaggi e si deve tifare per il ladro gentiluomo e i suoi compari. La lettura è avvincente per tutta la sua lunghezza, ma è il finale a essere davvero fantastico.
 
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Di Guest blogger (del 13/04/2017 @ 09:30:00, in Scrittura & pubblicazione, linkato 3168 volte)
© Michele Amitrani
Oggi ho il piacere di ospitare sul mio blog l’autore di fantascienza Michele Amitrani, che in questo articolo ci parla di uno dei temi tecnologici che fa spesso la propria comparsa nei romanzi di questo genere e che forse un giorno potrebbe diventare realtà: l’ascensore spaziale.
 
Guardate in alto. No. MOLTO più in alto.
Avete di fronte l’oggetto più imponente mai costruito dal genere umano.
Si tratta sostanzialmente di un cavo, un cavo molto lungo, più lungo della circonferenza della Terra, ma anche molto sottile, appena qualche centimetro di spessore, e composto interamente da nanotubi di carbonio.
Ci sono delle vetture che lo percorrono in alto e in basso, e ognuna di queste trasporta su base giornaliera persone e materiali oltre l’orbita terrestre.
I razzi non sono più necessari per raggiungere le stelle, così come non lo sono costosi carburanti. La probabilità di incidenti è quasi azzerata. L’impatto sull’ambiente è nullo. E la buona notizia è che anche tu puoi permetterti di salire a bordo, perché il costo di un biglietto è quello che pagheresti per un viaggio su un aereo.
 
Ho appena descritto il Santo Graal di ogni scrittore di fantascienza hard che si rispetti, un oggetto teorizzato per la prima volta nel 1895 dal fisico e scienziato russo Konstantin Ciolkovskij (che nel suo saggio “Sogni sulla Terra e sul cielo” si ispirò alla Torre Eiffel per ipotizzare un’analoga struttura) e impresso a fuoco nell’immaginario collettivo nel 1979 dallo scrittore Sir Arthur Clarke nel suo insuperato best-seller “Le fontane del Paradiso”.
Un’idea presa in prestito dalla fantascienza, dunque, ma vi sorprenderebbe scoprire la semplicità del principio alla base di un ascensore spaziale.
 
Pensateci. Se io attaccassi l’estremità di un filo su una palla da tennis e l’altra estremità alla mia testa e cominciassi a girare su me stesso, il filo rimarrebbe teso e la palla continuerebbe a seguire il mio movimento rotatorio. La Terra ruota a una velocità molto maggiore di quanto io potrò mai fare.
Se seguissi questo esempio e attaccassi un filo incredibilmente resistente sulla superficie terrestre all’altezza dell’equatore e l’altra estremità a una massa abbastanza grande, come ad esempio un piccolo asteroide oltre l’orbita geostazionaria del pianeta per tenere il filo teso, otterrei niente di meno che un collegamento stabile tra la Terra e lo spazio.
Una volta costruito il cavo che collega le due estremità, posso agganciarvi vetture capaci di viaggiare su e giù, in grado di trasportare cargo in orbita senza l’uso di costosi razzi.
 
A questo punto molti di voi si staranno facendo la seguente domanda: se l’ascensore spaziale è un’idea così appetibile, perché continuiamo a usare razzi e a spendere milioni di dollari per un lift-off?
 
Le ragioni sono diverse. Una delle più pressanti è che, sebbene abbiamo a disposizione i mattoni teoricamente in grado di costruire l’ascensore spaziale (sappiamo come creare nanotubi di carbonio), la nostra capacità di metterli assieme è molto, ma MOLTO limitata (non abbiamo idea di come creare un cavo di nanotubi che sia lungo anche solo quanto il nostro braccio. E noi avremmo bisogno di un cavo lungo parecchie migliaia di chilometri per realizzare un ascensore spaziale!).
 
Per quanto suoni assurdo, comunque, al giorno d’oggi sempre più persone trattano questa idea come un’alternativa capace di abbassare i costi dei viaggi spaziali.
E non prendete quello che dico io per oro colato.
 
Michio Kaku (ne parla in questo video), uno dei fisici teorici e futuristi più famosi del pianeta, è uno dei più grandi sostenitori dell’idea dell’ascensore spaziale.
E che cosa dire di Neil deGrasse Tyson (ne parla in questo video), il famosissimo astrofisico e divulgatore scientifico direttore dell'Hayden Planetarium del Rose Center for Earth and Space di New York che si è visto addirittura protagonista di un documentario che sponsorizza questo titanico mezzo di trasporto?
 
Ci sono centinaia di esperti pronti a puntare tutto sull’idea dell’ascensore spaziale, e molti di loro hanno un profilo su Wikipedia lungo quanto l’Enciclopedia Britannica.
Per quanto riguarda il sottoscritto, mi ritengo semplicemente una persona che osserva con curiosità i possibili sviluppi dell’idea, anche se riconosco i suoi limiti.
 
A modo mio, mi sono cimentato in un esercizio di prognostica che ha cercato di superare quegli stessi limiti, e l’ho fatto scrivendo e pubblicando il romanzo di fantascienza “Onniologo”, il primo di una serie di quattro libri che cercano di rispondere alla domanda: “L’umanità riuscirà mai a diventare una civiltà spaziale?”
Per compensare i limiti insiti nell’idea dell’ascensore spaziale ho dovuto forzare alcune componenti, ma soprattutto ho dovuto creare un personaggio alquanto eterodosso, ossessionato dall’idea di rendere l’umanità una civiltà stellare, qualcuno insomma incapace di accettare un ‘no’ come risposta e abbastanza sognatore da credere che l’impossibile sia soltanto una possibilità che non è stata scoperta da nessuno.
 
Oggigiorno l’idea dell’ascensore spaziale rimane confinata nei libri di fantascienza, su alcune riviste scientifiche di avanguardia e in blog post come quello che state leggendo.
Ma ci sono delle verità innegabili che rendono il concetto incredibilmente affascinante.
Abbiamo la tecnologia. Abbiamo le menti. Mancano la volontà politica e gli investimenti.
 
Sir Arthur Clarke stesso disse che potremo costruire un ascensore spaziale cinquanta anni dopo che tutti quanti avranno smesso di ridere a un’idea apparentemente così assurda.
Ebbene, diverse persone hanno smesso di ridere da un bel pezzo, e non vedono davvero l’ora di rendere la fantascienza il vostro prossimo viaggio.
 
E tu? Che cosa pensi dell’idea dell’ascensore spaziale? Destinata a rimanere fantascienza o una possibilità in grado di far progredire l’umanità in una civiltà spaziale?
 
 
In occasione dell’uscita del quarto e ultimo volume della serie dell’Onniologo, “Dodekatheon” (di cui è riportata la copertina nella figura sopra), dal 17 al 20 aprile 2017 tutti i libri della serie saranno in offerta su Amazon a 99 centesimi.

 
MICHELE AMITRANI è un autore indipendente nato e cresciuto a Roma. Dopo aver vissuto in due continenti e viaggiato in diverse dozzine di paesi, oggi vive a Vancouver, nella bellissima Columbia Britannica. Michele pubblica indipendentemente dal 2011.
Da autore indipendente duro e puro, scrive, corregge, traduce, pubblicizza i suoi lavori e pianifica le copertine dei suoi libri comportandosi a tutti gli effetti come una vera e propria casa editrice
Ha pubblicato il racconto “Quando gli Uomini Sognavano Petrolio”, il saggio di Scienze Politiche “L’Alfa e l’Omega del Dragone”, il libro di Self-Help “Confessione di un Autore Indipendente” e la sua serie di fantascienza Onniologo, tradotta in inglese con il titolo Omnilogos.
Potete trovare Michele, oltre che sul suo sito personale, anche sui principali social network: Twitter, Facebook, Google Plus, LinkedIn, YouTube e Pinterest.
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Di Carla (del 11/04/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2265 volte)

 Stupisce senza essere credibile
 
Nonostante la valutazione positiva data complessivamente a questo romanzo, sono tanti gli aspetti che mi hanno lasciato perplessa.
La trama è quella del classico serial killer superefferato che per motivi imperscrutabili se la prende con le coppie, ma con la peculiarità di far scegliere a uno dei due chi deve morire, e finisce per iniziare un gioco perverso con la polizia.
Una delle prime cose che ho notato durante la lettura è la totale assenza di un riferimento geografico. Ho capito che era ambientato nel Regno Unito solo quando hanno parlato di sterline, ma per il resto ho avuto difficoltà a visualizzare un’ambientazione precisa. Questa cosa mi ha disorientato e ha dato da subito alla storia un senso di irrealtà.
A un certo punto ho intuito l’identità l’assassino, ma non tutta la sua complessa macchinazione e tuttora mi sfugge il senso di quest’ultima, poiché è autodistruttiva. Si ha l’impressione che il 50/50 Killer non avesse alcuna intenzione di farsi beccare, eppure finisce per fare a se stesso delle cose che gli avrebbero reso la vita più difficile in futuro, se fosse sfuggito alla polizia. Non capisco questo eccesso solo per mettere in atto un piano così complesso. Non capisco il suo dare una tale importanza a questo piano, nonostante le circostanze. L’autore non è riuscito a convincermi. Questo personaggio è così centrale nella storia che non mi accontento della follia come motivazione per le sue azioni.
Non mi ha convinto neppure il suo comportamento alla fine. È stato troppo facile batterlo e ciò mi ha dato ben poca soddisfazione. Mi è sembrata una soluzione escogitata con l’unico scopo di portare a compimento la storia, ma che manca di una propria logica intrinseca.
Non sono riuscita a legare in particolare con nessun personaggio, inclusa la voce narrante in prima persona (Mark, il giovane detective). Ho trovato l’interiorità di ognuno di essi poco convincente, anche perché supportata da una realtà esterna priva di riferimenti chiari.
In particolare ho trovato irritante il comportamento paranoico di Eileen (la moglie del capo di Mark). Non ne capivo la necessità, finché alla fine mi è stato chiaro che si trattava soltanto di un espediente per creare un colpo di scena. Anche in questo caso è assente una logica intrinseca o almeno non è stata mostrata a sufficienza nel testo da renderla credibile.
Ho odiato l’uso del nome all’inizio di ogni sezione del libro per indicare il personaggio del punto di vista. È assolutamente superfluo e di conseguenza fastidioso. Sembra che l’autore pensi che i lettori non siano in grado di desumerlo dal testo, il che è grave perché presuppone che ritenga il proprio testo non ben scritto o i lettori non abbastanza intelligenti (o entrambe le cose!).
Nel complesso ho trovato la storia deprimente e non solo per il fatto che inizia e finisce con un funerale.
Sono stata tentata di dargli solo tre stelle, ma alla fine sono salita a quattro, perché l’inganno del killer è davvero ben pensato e sviluppato e bisogna dare merito all’autore di una notevole originalità, non tanto nell’idea in sé, ma nel modo in cui è riuscito a metterla in atto.
Una nota sulla traduzione: perché chiamare il personaggio che dà il titolo al libro 50/50 Killer, all’inglese, invece che Killer 50/50, come sarebbe stato corretto in italiano? Mistero.
 
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SpaceX Interplanetary Transport System
Oggi ho il piacere di ospitare sul mio blog un autore e appassionato, come me, dell’esplorazione e della colonizzazione dello spazio: Adriano V. Autino. Nell’articolo che segue spiega perché l’espansione della civiltà umana al di fuori dei limiti del nostro mondo non sia solo auspicabile, ma addirittura necessaria.
L’immagine a corredo di questo articolo è una rappresentazione dell’Interplanetary Transport System di SpaceX.
 
Ho già detto molto, in molti articoli e paper, circa un aspetto principale dell’espansione della civiltà nello spazio: la possibilità di accedere a risorse materiali ed energetiche virtualmente infinite, nel sistema solare, a partire dalla Luna, dagli asteroidi vicini alla Terra, dalla enorme quantità di energia che fluisce dal nostro Sole e che può essere raccolta 24/24h, senza più limiti geografici, meteorologici né di alternanza giorno/notte. Con lo sviluppo delle attività civili nello spazio geolunare e, progressivamente, su Marte, nella cintura asteroidea, sulle lune di Giove, e oltre, la crisi globale che attanaglia la nostra economia planetaria sarà definitivamente rovesciata e sconfitta!
 
Con la fiducia nel futuro e l’aumento progressivo delle opportunità di lavoro e di crescita sociale, diminuiranno progressivamente i conflitti, le guerre, e la brutale regressione che tanto ci terrorizza, nelle ristrettezze del nostro mondo chiuso, nelle ore buie che precedono l’alba del rinascimento civile nello spazio. Può sembrare folle parlare di un’epoca così luminosa, in questi giorni, mentre le potenze del mondo sembrano orientate a nuovi confronti militari e a utilizzare lo spazio, sì, ma come arena di combattimento tra fantascientifici sistemi d’arma completamente robotizzati. Ma, proprio in questo contesto apparentemente così scoraggiante, è ancora più importante parlare di alcuni altri aspetti antropologici dell’espansione, che non sono solo quello pur importante e prioritario dell’economia.
 
Lo spazio è un ambiente estremo, in cui la vita dipende totalmente dalla capacità umana di costruire habitat tecnologicamente all’altezza della situazione. Svolgere attività civili nello spazio, ad esempio attività minerarie, industriali, turistiche, logistiche, svilupperà le nostre capacità di consapevolezza situazionale (situational awareness). Quel senso che forse i nostri antenati all’età della pietra avevano più sviluppato di noi moderni, quando dovevano difendersi da predatori molto più forti e dalle forze della natura. La situational awareness dei nostri antenati li spinse all’evoluzione sociale, culturale e tecnologica. E così succederà anche nello spazio, quando dovremo difenderci dalle radiazioni cosmiche, dai danni derivanti dalla gravità zero o della bassa gravità, dal pericolo di incrinature e forature delle pareti dei nostri habitat, dovuti a micrometeoriti o a nostri errori.
 
Ci troveremo a vivere e lavorare fuori del pozzo gravitazionale, e questo ci obbligherà a pensare in tre dimensioni... si svilupperà una cultura completamente nuova e differente, che possiamo a stento immaginare, noi che viviamo sul fondo del pozzo gravitazionale terrestre. O meglio tante culture differenti. Di certo i Lunari penseranno in modo diverso dai Terrestri, ma anche dai Cinturiani (colonizzatori della Cintura Asteroidea), dai Marziani e... chissà che storia vivranno i coloni di Ganimede, Europa, Io, Callisto, ... per non parlare di coloro che, nei secoli a venire, si espanderanno nel sistema solare esterno, a colonizzare la fascia di Kuiper, e a prelevare ghiaccio direttamente dalle comete della Nube di Oort! La nostra meraviglia da sola non può neanche lontanamente contenere la fantastica diversità di culture, di storie, di evoluzioni che si svilupperanno, in contesti tanto diversi, ciascuno caratterizzato dai problemi ambientali e di sopravvivenza i più disparati e difficilmente immaginabili. Si svilupperà una biodiversità culturale immensa, e la nostra specie, dopo un periodo iniziale in cui dovremo imparare a vivere e svilupparci fuori dall’utero materno della nostra Terra, ricomincerà a crescere numericamente e culturalmente.
 
Ma l’aspetto antropologicamente più importante, per le generazioni dei colonizzatori del sistema solare, sarà quello che nessun filosofo del secolo scorso è riuscito a immaginare né focalizzare: il “nemico” con cui gli umani dovranno confrontarsi sarà molto più crudele e insidioso di qualsiasi nemico umano. Sarà lo spazio stesso. E questo svilupperà un nuovo sentimento di solidarietà tra gli umani. Qui, nelle ristrettezze del nostro mondo piccolo e chiuso, non vediamo all’orizzonte nessun nuovo fattore che possa spingere le persone a unire gli sforzi. Anzi, proprio il fatto di essere sette miliardi e mezzo, rinchiusi e con risorse ormai scarse, alimenta semmai il distacco, il torpore anaffettivo, il fastidio e l’avversione per i nostri simili, se non l’istinto omicida tout-court, preparando il terreno a terribili passi indietro, nella scala evolutiva.
 
Nelle difficili condizioni ambientali dello spazio potrà invece verificarsi qualcosa di simile a un nuovo spirito di fratellanza universale. Nello spazio si svilupperà su larga scala ciò che, in piccolo, abbiamo già visto sulla MIR e poi sulla ISS: non ci sono stranieri né barriere etniche, quando si vede la Terra intera, da un oblò di un’astronave in orbita, o dalla Luna... C’è invece solidarietà umana, amore, nostalgia e tenerezza per i nostri simili, per il nostro pianeta e per tutta la vita in esso contenuta. Un nuovo romanticismo ci aspetta lassù, una grande sfera emotiva, che unirà i terrestri migranti in un abbraccio, nonostante le enormi distanze, e gli inevitabili ritardi nella comunicazione. Un astro-romanticismo, che i migliori scrittori di fantascienza hanno saputo anticipare nella loro opera. E, a ben pensarci, si tratta anche di qualcosa parzialmente già sperimentato, sul nostro pianeta, da quando i navigatori hanno cominciato ad andare per mare...
 
Il mio nuovo libro “Un mondo più grande è possibile!” parla dei futuri diversi che ci aspettano, e del presente che dobbiamo assolutamente governare e indirizzare, se vogliamo che si realizzi il futuro più favorevole alla nostra specie e, ancora più importante, alla nostra civiltà. Vi è una grande differenza, tra Stati Uniti ed Europa, nella considerazione dello spazio come area di possibile espansione. Tuttavia, persino negli Stati Uniti, dove questa discussione è di gran lunga più avanzata, si fa fatica a superare il vecchio paradigma dell’esplorazione spaziale fine a se stessa, che ha caratterizzato la strategia dell’agenzia spaziale più grande e avanzata del mondo, la NASA. Al punto che persino la NASA si è trovata spesso a doversi reinventare strategie di comunicazione, finalizzate a non farsi mancare il denaro pubblico necessario alla propria sopravvivenza.
 
Personalmente sono sempre rimasto sbigottito e senza parole: perché non dichiarare finalmente che, se non si espanderà nello spazio entro questo secolo, la nostra civiltà può considerarsi prematuramente finita? Perché non riconoscere che l’espansione oltre i limiti del nostro mondo natale è una necessità assoluta e vitale, per una civiltà che si avvicina a superare gli otto miliardi di individui? Le molteplici ragioni di tale schizofrenia, di questo non accettare la propria missione principe, da parte delle agenzie, sono politiche, economiche, militari. E anche filosofiche, profondamente radicate in quello che chiamo paradigma pre-copernicano del mondo chiuso. Tutte queste “ragioni” mi sono poi diventate chiare, grazie a un paziente lavoro di informazione e di discussione con altri entusiasti spaziali, grazie a quella grande risorsa sviluppatasi negli ultimi vent’anni: la rete globale. Ma lo scopo di questo lavoro non è tanto quello di denunciare pedissequamente le responsabilità di un pur deprecabilissimo ritardo, bensì quello, ben più importante, di mettere insieme, in modo coerente e integrato, le ragioni profondamente morali di una strategia finalmente e maturamente espansionista.
 

 
ADRIANO AUTINO, nato a Moncrivello (VC) nel 1949, è co-fondatore e presidente della Space Renaissance Initiative, dal 2010 Space Renaissance International (SRI), un'associazione internazionale senza scopo di lucro, la cui missione è l'apertura della frontiera spaziale: accesso allo spazio a basso costo, turismo spaziale, industrializzazione dello spazio geo-lunare, utilizzo degli asteroidi vicini alla Terra, pieno sviluppo della space economy. Diplomato in Elettronica Industriale, dal 1971 progettista di software diagnostico e test engineering, poi project manager e imprenditore nel settore dei sistemi di automazione real-time. La sua insaziabile curiosità e il desiderio di impegnarsi in campi di frontiera lo hanno portato a operare nell’ambiente aerospaziale, e a ideare e sviluppare un sistema software integrato, di supporto al system engineering e al project lifecycle management.
Ha recentemente pubblicato il saggio “Un mondo più grande è possibile!”.
Su Facebook potete trovare la pagina di Adriano e quella di Space Renaissance Italia (sito web).
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Di Carla (del 04/04/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1895 volte)

 Cartoni cattivi
 
Su questo libro potrei ripetere più o meno quello che ho scritto sul precedente di questa serie, “Infect@”. Dovendomi concentrare sulle differenze, direi che ho trovato “Toxic@” molto più semplice da seguire. Non so se sia dovuto a un’evoluzione nello stile dell’autore o al fatto che avevo già assimilato l’ambientazione del primo libro. Di certo mi sono sentita più attratta nei confronti della sua lettura e curiosa di sapere cosa sarebbe successo dopo.
Rispetto alla storia di “Infect@” sono passati sette anni (se non erro) e la situazione di degrado dovuta ai cartoon, in questa Milano del futuro, è diventata critica. Un’ampia zona della città si è trasformata in una discarica del materiale derivato dai cartoni morti, che ha formato una melma immensa. In cielo “splende” anche di notte il Sole di Bart, ciò che resta di una versione gigante di Bart Simpson. E i cartoni, molto più cupi e minacciosi, sono il veicolo di una pericolosissima infezione chiamata il Morbo dei 30 Minuti.
C’è però una speranza: una Purga, che potrebbe eliminare di colpo tutti i cartoni. Una task force condotta dall’ex-commissario Montorsi deve piazzare quest’arma, ma il cattivo di turno, il Mescolatore, un serial killer che si diverte ad attaccare insieme pezzi di cadaveri umani e di cartoon, vuole fermarla. A ciò si aggiunge un terzo personaggio, quello di Cora, una cacciatrice di cartoon.
I tre filoni della storia si dipanano, per poi incrociarsi, in una lunga notte.
A costo di essere ripetitiva, devo affermare che, nonostante questo libro non rientri in alcun modo nel genere di romanzi che preferisco per una serie di motivi (per esempio, ambientazione deprimente e introspezione limitata dei singoli personaggi, dovuta in parte all’impronta corale data al libro, in cui la trama è più importante dei personaggi), sono stata ammaliata dalla scrittura di Tonani, evocativa ed efficace.
Una cosa che non sono riuscita a sentire (ma credo valga anche per il libro precedente) è la drammaticità. I personaggi, pur trovandosi in situazioni impossibili, mantengono dei toni ironici e persino sarcastici, dando un ulteriore senso di irrealtà all’ambientazione. Ma questo tutto sommato è un bene, poiché ne stempera la cupezza e rende la storia più godibile, proprio perché non si prende tanto sul serio.
 
Questo libro, purtroppo, essendo un prodotto da edicola, è quasi introvabile.
Potete trovare altri romanzi di Dario Tonani su Amazon.it e su Amazon.com.
 
Leggi tutte le mie recensioni e vedi la mia libreria su:
aNobii:
http://www.anobii.com/anakina/books
Goodreads: http://www.goodreads.com/anakina
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Di Guest blogger (del 30/03/2017 @ 09:30:00, in Scrittura & pubblicazione, linkato 4117 volte)

Oggi ho una nuova ospite sul blog. Si tratta di Annamaria Bortolan, autrice del romanzo “I colori dell’autunno“. Annamaria ci illustra le analogie e le differenze esistenti tra la fantascienza e il realismo magico nell’ambito della narrativa.
L’immagine accanto è stata realizzata dall’autrice.
 
Il realismo magico è una corrente artistica che riguarda sia le arti figurative che la letteratura. La sua tipicità consiste nel proporre il fantastico come datità che non necessita di spiegazione. Ad esempio ne “La metamorfosi” di Kafka la trasformazione del protagonista in insetto è proposta come realtà fattuale su cui l’autore non si sofferma in relazione alle sue possibili cause.
 
La fantascienza, pur avvalendosi di meccanismi narrativi logici (la scoperta di qualche nuova teoria nell’ambito della fisica, per esempio), analogamente propone al lettore la realtà di mondi paralleli senza supportarla attraverso una serie di prove che possano essere effettivamente considerate inoppugnabili. Ciò dona immediatezza al testo e rende possibile l’immedesimazione del lettore. La narrativa fantascientifica ha così saputo coniugare la presenza di elementi fantastici con la divulgazione di messaggi filosofici o politici con immediatezza ed incisività. E, non di rado, il potere di un testo di penetrare acutamente la realtà è inversamente proporzionale agli elementi fattuali e oggettivi che mette in scena. Se poi tutto ciò è condito da una certa piacevolezza ci troviamo di fronte a un bel romanzo. E i testi di fantascienza lo sono, ecco perché li leggo e li consiglio volentieri. Esistono ovviamente anche numerose differenze fra realismo magico e fantascienza. Leggete questo articolo se volete approfondire la questione.
 
Se nella science fiction il rapporto con la tecnologia è positivo e fondamentale nell’ambito della narrazione, il realismo magico può farne a meno o, addirittura, porsi in maniera critica nei confronti delle scoperte scientifiche.
Nel romanzo “Cent’anni di solitudine” di G. García Marquez, Macondo è un paese i cui abitanti vivono in uno stato di innocenza primordiale: non conoscono l’utilizzo della calamita, della dentiera e del cannocchiale, né comprendono le leggi fisiche che regolano l’universo. Di fronte agli zingari che propongono loro tutte queste cose, compreso qualche giro aereo su una magica stuoia volante, i nativi si mostrano affascinati e stupefatti ma, a parte un bizzarro esponente della famiglia Buendia, un alchimista dedito a strampalati esperimenti, si limitano ad usufruirne senza cercare di proporre a loro volta qualche singolare novità realizzata per mezzo delle conoscenze tecniche di cui, del resto, appaiono mancanti. Macondo è un luogo immaginario dove i miracoli possono accadere, un mondo appartato dove nessuno è mai morto di morte naturale (almeno fino all’arrivo dei nomadi) in quanto ogni abitante conduce pacificamente la sua vita. E, forse, proprio questa mancanza di tecnologia che sembra caratterizzare la cittadinanza di questo villaggio irreale conferisce agli abitanti quella ingenuità da bimbi che rende possibile l’accettazione del magico nella vita quotidiana.
Macondo è un monito per tutti noi: non esiste solo un mondo fatto di leggi della scienza ma anche quel quid di imperscrutabile proprio del mistero stesso della vita a cui non pensiamo quasi mai. Per scorgerlo, talvolta è necessario lasciarsi alle spalle la rigidità della ragione per aprirsi alla fluidità dei sentimenti e della magia che è dentro di noi.
 
Realismo magico e fantascienza possono aiutarci: per questo apprezzo molto sia l’uno che l’altra. Non a caso mi sono servita del primo per arricchire il mio romanzo pubblicato di recente come ebook e intitolato “I colori dell’autunno” con un risultato finale davvero sorprendente.
Il valore di un testo non sta semplicemente nella verosimiglianza ma piuttosto nella sua capacità di mettere in discussione i luoghi comuni e nella riflessione che ne scaturisce.
 
Per approfondire le tracce di realismo magico presenti nella letteratura mondiale, ecco un interessante articolo relativo al bellissimo romanzo “Il dio delle piccole cose” di Arundhati Roy, un’altra opera da non perdere insieme al capolavoro di Marquez.
 

 
ANNAMARIA BORTOLAN, insegnante di ruolo, ha collaborato a partire dagli anni dell’università con diversi periodici, occupandosi soprattutto di antropologia del sacro e, in quest’ambito, ha pubblicato due saggi: “I simboli del sacro” (Torino 2007) e “I misteri del mito” (Torino 2009).
Ha inoltre lavorato con l’antropologo Massimo Centini firmando alcune prefazioni ai suoi libri.
 
I colori dell’autunno” è il suo primo romanzo del quale firma anche le illustrazioni che posta sulla sua omonima pagina Facebook.
 
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