Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carla (del 30/09/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2909 volte)
Il poliziotto corrotto
Un’altra bella storia complessa per il secondo libro della serie di Bosch.
Anche se ritroviamo lo stesso personaggio incasinato del primo, non c’è vera episodicità, poiché solo grazie alla lettura del primo libro lo si può capire a fondo.
Bosch è di ritorno dalla vacanza presa dopo il primo caso e adesso si avvicina il periodo natalizio, causa per lui di ulteriore depressione. Tutta la storia si svolge in pochi rocamboleschi giorni. C’è anche un breve accenno, senza fare il nome, a un personaggio del libro precedente, che, a quanto pare, tornerà nel successivo.
Stavolta l’argomento è il traffico di droga attraverso il confine col Messico e i suoi legami con la polizia. Le atmosfere mi hanno ricordato il film “Sicario”. Connelly ti mette davanti agli occhi tutti gli elementi, ma ti distrae con tanti e tali dettagli (bellissime le descrizioni e riflessioni su Los Angeles, come pure quelle sulle due città di confine: hai proprio l’impressione di sentirti lì) che ti accorgi dell’ovvio solo alla fine, quando te lo sbatte davanti quasi di soppiatto.
Non manca la parentesi romantica, sebbene come sempre sottesa da una certa malinconia e disperazione.
Mi è piaciuta la risoluzione della storia in cui il protagonista decide di non seguire le regole e il finale aperto sulla vita di Bosch.
Non vedo l’ora di leggere il successivo.
I parchi reali sono tra i posti più suggestivi di Londra. Alcuni di questi sono situati nel centro della capitale britannica, eppure se si passeggia al loro interno si perde la percezione del brulicare di persone e automobili che si trovano a poche centinaia di metri di distanza. Immersi nel verde, tra i fiori e i corsi d’acqua, non si vede né si sente il vicino caos metropolitano. A infrangere l’illusione di trovarsi in un territorio selvaggio sono i vialetti, i prati e le piante curate, le statue e le meravigliose fontane.
Tra queste sono particolarmente belle quelle che si trovano negli Italian Gardens, situati nel punto in cui i Kensington Gardens confinano con Hyde Park, a nord del bacino Long Water. Ci si può arrivare tramite l’ingresso denominato Lancaster Gate, che è vicino all’omonima fermata della metropolitana.
Costruiti nel 1861, si dice che siano stati un regalo del Principe Alberto alla Regina Vittoria. I giardini sono costituiti da quattro vasche di marmo di Carrara, adornate da fontane, statue e urne. A nord delle vasche c’è la Pump House, che un tempo conteneva il motore a vapore che faceva funzionare le fontane. E il pilastro che spunta dal tetto altro non è che un fumaiolo. Le vasche ospitano dei bellissimi cigni che si lasciano osservare con noncuranza dai londinesi e dai turisti che vi passeggiano accanto o si siedono sulle panchine situate tutto intorno.
Spostandosi verso est, inizia l’immenso Hyde Park, con una superficie totale di 253 ettari, divisa in due dal Serpentine Lake. La sue dimensioni sono tali che è davvero facile perdere il senso dell’orientamento, se non si seguono le indicazioni e le mappe distribuite in numerosi cartelli al suo interno.
Esso contiene numerosi luoghi di interesse turistico, a iniziare dai due archi trionfali situati a sud-est e nord-est: Wellington Arch e Marble Arch. Nei pressi di quest’ultimo c’è lo Speakers’ Corner, dove le persone soprattutto nel fine settimana tengono ancora dei discorsi per esprimere le proprie opinioni. A sud si trova il monumento in memoria di Lady Diana e a sud-est quello alle vittime dell’Olocausto e degli attentati a Londra del 7 luglio 2005. Sempre a sud-est è situato il Rose Garden, che è particolarmente bello da vedere all’inizio dell’estate.
Il parco è anche l’unico a essere controllato dalla Polizia Metropolitana che ha una sua stazione all’interno. Vi si trovano anche sdraio e ombrelloni, un centro sportivo dedicato al tennis, servizi di affitto imbarcazioni, locali commerciali, bar, altri campi sportivi e parchi giochi. Inoltre il parco è spesso teatro di importanti concerti rock e pop, da The Rolling Stones, Pink Floyd, fino a Madonna. In esso, in particolare, è stato tenuto uno dei concerti più famosi dei Queen nel 1976 con 225.000 spettatori.
Hyde Park è stato anche una delle sedi dei Giochi Olimpici di Londra del 2012.
Gli Italian Gardens e Hyde Park fanno la loro apparizione nel secondo libro della trilogia del detective Eric Shaw, “ Sindrome”. Una giovane prostituta si accorge di essere seguita da un uomo per il quale ha fatto un piccolo lavoretto illegale e si nasconde nei pressi della Pump House degli Italian Gardens, poi scappa verso Hyde Park, diretta a un parco giochi, per chiedere aiuto, ma presto troverà la morte. Più tardi vediamo Adele Pennington, Jane Hall e Miriam Leroux sulla scena del crimine, in cui Adele scorge qualcuno che potrebbe essere il sospettato.
Di Carla (del 07/10/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2440 volte)
I fantasmi non esistono?
Con Matheson non so mai cosa aspettarmi. Si muove liberamente tra i generi del fantastico, proponendo storie sempre fuori dagli schemi. Questo, rispetto ad altri libri suoi che ho letto, si differenza per la mancanza di un vero protagonista intorno a cui gira tutta la vicenda. Si tratta infatti di un romanzo corale che rientra pienamente nei canoni dell’horror, in cui uno per uno i personaggi che sembrano avere un ruolo primario muoiono, lasciandone sono uno o due alla fine. A ciò si aggiunge il paranormale che ritorna spesso nelle sue opere e che qui viene affrontato ancora una volta in maniera originale.
Nel complesso si tratta di un romanzo che pare quasi contemporaneo, poiché non ha paura di mettere insieme l’elemento violento, scabroso e blasfemo, nonostante i quarant’anni passati da quando è stato scritto.
La trama è coinvolgente, soprattutto in alcuni passaggi. La suddivisione delle scene tramite l’indicazione dell’orario, quindi senza capitoli, invoglia la lettura e incrementa l’effetto ansiogeno.
Purtroppo l’edizione che ho letto presenta una traduzione molto datata, anche se non inficia più di tanto la percezione della contemporaneità dell’opera, una volta che ci si abitua al linguaggio, ma ovviamente annulla l’illusione. A ciò si aggiunge un finale classico da storia dell’orrore che è abbastanza prevedibile e lascia un po’ con l’amaro in bocca.
Abbiamo lasciato i protagonisti della serie a Londra e a Ophir, mentre assistevano alla nascita di un nuovo programma spaziale chiamato Aurora.
Ne “ L’isola di Gaia”, ambientato 35 anni dopo, abbiamo conosciuto nuovi personaggi e nuove vicende, che rappresentano un ingresso alternativo in questo ciclo di libri. Alla fine abbiamo scoperto come si è effettivamente evoluto il programma Aurora e incontrato di nuovo due dei personaggi principali della serie marziana.
Il 30 novembre 2016, invece, ritorneremo su Marte, e sulla Terra del futuro, per scoprire cosa è accaduto in una parte di quei 35 anni.
Ritroveremo Melissa, Anna, Hassan e Jan, insieme ad altri personaggi di “ Deserto rosso”. A loro si uniranno anche due personaggi già visti ne “ L’isola di Gaia”.
E poi ci sarà lei, CUSy, che tutti chiamano Susy, l’intelligenza artificiale che veglia sulla vita degli abitanti di Marte.
È solo un software la cui personalità scaturisce da un codice informatico.
Ma è davvero soltanto un software? O è qualcosa di più?
L’ebook è senza DRM.
L’offerta è valida solo per l’Italia e il prezzo rimarrà bloccato dopo l’uscita solo fino all’11 dicembre. A partire dal 12 dicembre salirà a 3,49 euro.
Prenotate la vostra copia adesso e preparatevi ad ammirare il deserto rosso di Marte attraverso gli occhi di Melissa.
Situato nella zona nord-occidentale di Londra e quasi completamente attraversato da Portobello Road, Notting Hill è senza dubbio uno dei quartieri più affascinanti e famosi della capitale britannica. Non a caso è la location di numerosi romanzi e film. Tra questi ultimi il più noto è senza dubbio la commedia romantica del 1999 che porta lo stesso nome del quartiere (“ Notting Hill”) interpretata da Hugh Grant e Julia Roberts.
Si tratta ovviamente di una meta dei turisti, ma molto frequentata dagli stessi londinesi, grazie all’abbondanza di negozi di marca, in particolare in Westbourne Grove, e ai numerosissimi pub e ristoranti.
La sua via più caratteristica è Portobello Road, che con le sue facciate colorate (foto sotto di Albeins) ospita il famoso mercatino dell’antiquariato e di cibi freschi. Qui si trovano inoltre alcune location utilizzate durante il Portobello Film Festival, un festival internazionale del cinema indipendente fondato nel 1996 in cui ogni anno vengono proiettati per la prima volta oltre 700 film. E sempre in questa via è vissuto George Orwell (foto sopra di Eluveitie).
A partire dal 1966 ogni anno in agosto il quartiere è inoltre teatro del Notting Hill Carnival, una vera e propria festa caraibica in costume che si riversa nelle strade, attirando milioni di persone, e che rappresenta uno dei più grandi festival di strada del mondo. L’evento passa attraverso la parte centrale di Westbourne Grove.
Come si può intuire dal nome, Notting Hill sorge su una collinetta, che raggiunge la sua sommità in mezzo a Ladbroke Grove. Non ha però dei confini ufficiali. È situato all’interno del Royal Borough of Kensington and Chelsea, ma è nei pressi del confine con la City of Westminster, quindi a due passi dalla stazione ferroviaria di Paddington e non molto lontano da numerose altre attrattive del centro di Londra.
Ma, se non si vuole andare a piedi, è possibile raggiungere una delle cinque stazioni della metropolitana che si trovano al suo interno: Kensal Green, Westbourne Park, Ladbroke Grove, Latimer Road e Notting Hill Gate.
Quella che viene considerata la zona chiave di Notting Hill è North Kensington, caratterizzata da un costante rinnovo della popolazione, in gran parte costituita da immigrati, che ne fanno una delle aree più cosmopolite del mondo. È qui che si sono verificati gli atti più violenti delle rivolte razziali di Notting Hill del 1958, ma è anche qui che è iniziato il suo carnevale e sono state girate la maggior parte delle scene del film con Grant e la Roberts.
Tra i numerosi e rinomati locali di Notting Hill ce n’è uno in particolare: un ristorante italiano chiamato Negozio Classica (foto accanto presa dalla pagina Facebook), anche se il nome in italiano non suona affatto bene e non si capisce cosa voglia dire. È incastrato in un edificio ad angolo tra Portobello Road e Westbourne Grove ed è caratterizzato da una facciata rossa dotata di vetrina su entrambe le pareti, da cui è possibile vedere l’interno del locale e i suoi avventori, ma anche all’esterno sono sistemati diversi tavoli. Si tratta più precisamente di una vineria, dove però è anche possibile mangiare dei piatti della cucina toscana.
Il ristorante Negozio Classica fa la sua apparizione nel secondo libro della trilogia del detective Shaw, “ Sindrome”, in una scena in cui Eric Shaw pranza con la sua amica Catherine Foulger e discute con lei di alcuni fatti gravi ( malesseri misteriosi e un tentato omicidio) avvenuti nell’ Ospedale St Nicholas (che nella realtà non esiste). I piatti citati nella scena sono effettivamente presenti nel menù del locale, o almeno lo erano fino a qualche tempo fa, ma i due personaggi non hanno modo di gustarli a dovere, visto che la loro conversazione sfocia in un litigio. Il nome del ristorante non è in realtà riportato nella scena, sebbene la sua descrizione e i dettagli relativi alla sua posizione ne permettano una facile identificazione. Comunque viene poi nominato più avanti nel libro.
Il locale apre alle 15.30, quindi in teoria la gente non va lì precisamente per pranzare. Infatti mi sono presa una licenza, ma il locale era così carino che volevo proprio ambientarci una scena. Inoltre sappiamo bene che Eric è sempre così assorbito dal proprio lavoro che si ritrova spesso a mangiare in orari non convenzionali, quando si ricorda di farlo, per cui magari ci è andato poco dopo l’apertura. Chissà!
Non sono mai stata in questo locale, ma Eric pensa che si mangi bene, perciò credo che sarà una delle mete del mio prossimo viaggio a Londra.
Di Carla (del 18/10/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2347 volte)
Distopia e miti greci
Mi sono imbattuta in questo libro per caso, mentre ero in cerca di una lettura diversa dal solito, e mi ha subito incuriosito la cura con cui era scritta la sinossi.
Si tratta di un romanzo dalla spiccata originalità della trama, sviluppata in un contesto distopico che unisce elementi moderni alla mitologia greca. È evidente come l’autrice sia un’appassionata di questo argomento e ne fa grande sfoggio senza mai scadere nell’info dump né annoiare.
L’aspetto romantico della storia è marginale e questo a mio parere è un enorme punto a favore, poiché la trama possiede già in sé tutti gli elementi che servono per renderla appassionante. Dare più spazio a questo aspetto, in questo libro, sarebbe stata una forzatura. A ciò si accompagna un’ottima prosa e la presenza di pochissimi refusi (credo di aver notato solo qualche virgola fuori posto).
Non ho però dato il massimo della valutazione e ciò dipende da una serie di motivi, a iniziare dal fatto che ho trovato il ritmo un po’ troppo lento.
Un altro aspetto che mi ha spesso distratto durante la lettura è l’assenza del soggetto nelle attribuzioni di dialogo e nelle linee d’azione inserite all’interno del dialogo (la cui funzione sarebbe anche quella di identificare chi parla), quando nella stessa scena ci sono due personaggi che parlano. Ciò crea confusione, poiché, essendo il libro in terza persona, non si sa esattamente chi stia parlando o agendo. Affidarsi alla memoria del lettore va benissimo se c’è un semplice botta e risposta, ma in caso contrario è proprio necessario inserire come soggetto il nome del personaggio o un pronome che permetta di identificarlo.
Ho notato, inoltre, un’eccessiva ripetizione delle stesse azioni (puntare gomiti, arcuare sopraccigli e simili) lungo tutto il romanzo.
Infine, ho la sensazione che il finale sospeso non sia preceduto da un climax abbastanza potente in grado di dare un senso di chiusura al romanzo e sopperire al fatto di averlo terminato con un cliffhanger, senza che il secondo libro sia già disponibile.
Nonostante ciò, sono rimasta molto ben impressionata da quest’opera, che è senza dubbio un ottimo esempio della capacità del self-publishing di proporre trame e temi originali, e di farlo con dei prodotti editoriali di qualità, sia come forma che contenuto.
Dietro quello pseudonimo si cela una scrittrice che sa davvero il fatto suo.
Ambientato nel prossimo secolo, “L’isola di Gaia” si apre nello scenario quasi alieno dell’Antartide, dove in un’isola al largo della Baia di Margherita un gruppo di persone vive isolato dal resto del mondo, costantemente sottoposto a un inganno. Ignari del fatto che le percezioni dei loro sensi siano alterate, gli uomini e le donne che abitano la città di Hope pensano di essere liberi e di lavorare insieme per la sopravvivenza di quel poco di umanità rimasta sulla Terra dopo un cambiamento climatico di portata globale. Ma niente del genere è veramente accaduto e, quando qualcuno dall’esterno entrerà in contatto con due di loro, Gaia e Rivus, ciò darà l’avvio a una serie di eventi che cambierà per sempre la vita degli abitanti di Hope. Nel tentare di sventare il progetto di cui loro malgrado fanno parte, i protagonisti di questo romanzo corale diventeranno bersaglio di uno sconosciuto nemico e sveleranno al lettore la loro vera natura. Le loro vicende si intrecciano con quelle degli scienziati inglesi Gabriel Asbury ed Elizabeth Caldwell, le cui ricerche potrebbero permettere all’Agenzia Spaziale Internazionale di superare l’ultimo scoglio che impedisce all’Uomo di compiere viaggi verso altri mondi: i limiti del corpo umano, perfezionato alla vita sulla Terra. Il romanzo si svolge trentacinque anni dopo la fine della serie di “Deserto rosso”, con cui ha delle strette connessioni, ma può essere letto anche in maniera indipendente. Esso rappresenta un ingresso alternativo al ciclo dell’Aurora.
“L’isola di Gaia” è un techno-thriller fantascientifico ascrivibile al sottogenere del cyberpunk. In esso, però, il transumanesimo e la realtà virtuale sono solo degli strumenti per raccontare, attraverso un contesto fantascientifico, come la percezione della realtà da parte delle persone possa essere distorta a tal punto da vanificare il concetto stesso di libero arbitrio. Le scelte compiute dai personaggi del romanzo, apparentemente libere, sono invece condizionate da come le loro conoscenze e il modo stesso con cui percepiscono il mondo che li circonda sono manipolati dall’esterno.
L’edizione acquistabile su Google Play è in ePub senza DRM e quindi leggibile su qualsiasi dispositivo (incluso Kobo e iPad).
È inoltre disponibile in edizione cartacea (a 11,99 euro) su Amazon e Giunti.
Di Carla (del 25/10/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2400 volte)
Un buon romanzo, non altrettanto buona l’edizione
Non mi capita spesso di leggere thriller italiani e ho deciso di cimentarmi nella lettura di questo libro di Riccardo Bruni, proprio perché pubblicato da Amazon Publishing. Ero curiosa di capire che quale fosse la loro linea editoriale in Italia.
Come immaginavo, mi sono ritrovata con un romanzo che, nonostante presenti numerose caratteristiche che richiamano alla memoria la realtà italiana, non soffre affatto di provincialismo. In altre parole, ritengo che sia un romanzo apprezzabile ovunque nel mondo e quindi da un pubblico di lettori abituato a spingersi oltre i confini.
La trama è molto ben architettata a livello di struttura. Trovo che sia molto pregevole il modo in cui sono incastrate le scene per aggiungere man mano, senza fretta e al momento giusto, nuove informazioni alla storia. La prosa di Bruni accompagna il tutto, riuscendo a essere a tratti molto evocativa.
La scelta di raccontare al presente in terza persona per gran parte del romanzo è coraggiosa. Si tratta di una combinazione poco usata che può stranire il lettore, ma l’autore riesce a destreggiarvisi abbastanza bene.
Ho trovato, purtroppo, l’ambientazione un po’ evanescente. Non sono riuscita a visualizzare nella mia mente i luoghi in cui le vicende si svolgono. E allo stesso modo non sono riuscita a farmi coinvolgere in maniera particolare dai personaggi. In genere, quando leggo un libro, riesco a entrare in sintonia con uno di essi, che sia o meno il protagonista, ma questa volta non mi è capitato.
Anche per questo motivo mi sono ritrovata ad analizzare con freddezza la trama e a capire molto presto l’identità dell’assassino.
Queste ultime valutazioni sono comunque legate a gusti personali.
Ciò che, invece, mi ha lasciato perplessa è la qualità non particolarmente buona dell’edizione e devo dire che ne sono rimasta stupita, proprio perché si tratta di un libro pubblicato da Amazon Publishing, cioè un editore con dei mezzi, almeno in teoria, di un certo livello.
Al di là di qualche evidente refuso o altro errorino (cose che si trovano in tutti i libri di qualsiasi editore), possibile che nessuno nella catena di revisione del testo (editor, correttore di bozze) conosca la differenza tra “che” e “ché” o sappia che il vocativo deve essere separato da una virgola?
Quando errori di questo tipo appaiono una o due volte, si può invocare il refuso, ma una scusa del genere non regge quando l’errore si ripete tutte le volte (la forma “ché”, che introduce una causale, quindi col significato di “perché”, viene sistematicamente scritta senza accento) o quasi (nel caso del vocativo all’interno dei dialoghi).
Un altro aspetto che ha creato più di una distrazione durante la lettura è il fatto che i messaggi inviati sul cellulare non fossero adeguatamente segnalati e distinti dal resto del testo. Non so se si tratti di un problema tecnico del file nel mio Kindle (il che sarebbe un po’ ironico, visto che gli ebook e gli ereader li vendono loro) o di una scelta (in tal caso, una pessima scelta).
È anche possibile che da quando ho acquistato il libro a oggi siano state fatte delle correzioni, o almeno è quello che spero, altrimenti sarebbe davvero un peccato, poiché la qualità mediocre dell’edizione distrae dalla lettura e riduce la possibilità di apprezzare un libro che ha comunque un buon valore intrinseco.
A Southwark non lontano dal Tamigi e dalla City, situata sul lato opposto del fiume, si trova il più alto grattacielo di Londra, terzo in Europa: The Shard, in italiano La Scheggia, chiamato anche Shard of Glass (scheggia di vetro) e 32 London Bridge, che deriva dal suo indirizzo (32 London Bridge Street).
C’è un bel po’ di Italia in questa torre a forma di piramide irregolare completamente rivestita di vetro, poiché è stata progettata dal noto architetto genovese Renzo Piano. La sua costruzione è iniziata nel 2009 ed è terminata nel luglio 2012, anche se è stata aperta ufficialmente solo nell’anno successivo.
L’ultima volta che sono stata a Londra era l’agosto 2012, in occasione delle Olimpiadi, non molto tempo dopo la sua inaugurazione avvenuta il 5 luglio dello stesso anno, e ho potuto ammirarla da lontano, mentre mi aggiravo nei pressi della Torre di Londra, nella City. La foto accanto è stata scattata da me durante quella mia breve permanenza (quella sotto è di Cmglee). Però non mi ci sono avvicinata e quindi non ho avuto l’opportunità di visitarlo. È comunque nella lista delle attrazioni di questa città che mi riprometto di vedere prima o poi più da vicino o magari all’interno.
L’edificio è alto quasi 310 metri e include ben 87 piani di cui 72 abitabili. Al suo interno ospita una varietà di locali, tra cui uffici, appartamenti di lusso, un centro commerciale, ristoranti, bar e un hotel cinque stelle, lo Shangri-La, che include 202 stanze e occupa i piani dal 34 al 52.
Il piano 69 e la terrazza al 72 offrono una vista panoramica senza eguali sulla metropoli che permette di spingere lo sguardo a 360 gradi fino a circa 60 km di distanza.
Questi sono aperti al pubblico. La visita è abbastanza costosa ma si può risparmiare qualcosa prenotandola online. Per chi vive a Londra o prevede di starci a lungo c’è anche la possibilità di acquistare un biglietto annuale che permette di salire sulla terrazza anche tutti i giorni.
The Shard appare in due scene di “ Sindrome”, il secondo libro della trilogia del detective Eric Shaw. Entrambe riguardano un personaggio ricercato dalla polizia. La prima si svolge all’interno di uno degli appartamenti in cui tale personaggio si sta nascondendo (non dico il suo nome per evitare anticipazioni sul libro). La seconda vede come protagonisti la detective Miriam Leroux e il sergente Mills seduti in una macchina della polizia nei pressi dell’ingresso dello Shangri-La. L’individuazione del sospettato porterà a un inseguimento per le vie trafficate della città, fino a un’altra attrazione di cui parlerò nel prossimo articolo.
Anche quest’anno per la quarta volta mi cimento nella sfida novembrina di scrivere le prime cinquantamila parole di un nuovo romanzo in trenta giorni. Precedentemente ho tentato e vinto la sfida nel 2012 con “ Il mentore” (pubblicato nel 2014), nel 2013 con “ Affinità d’intenti” (pubblicato nel 2015), che è anche l’unico mio romanzo scritto dalla prima all’ultima parola proprio in un mese (mi riferisco solo alla prima stesura), e nel 2015 con “ Sindrome” (pubblicato lo scorso maggio), seguito de “Il mentore”.
In un certo senso per me novembre è diventato il mese in cui scrivo i thriller e quest’anno mi ripeto con “ Oltre il limite”, libro finale della trilogia del detective Eric Shaw. Finora ho scritto poche scene del libro e ho in mano ancora un’outline incompleta, ma sto lentamente entrando nello spirito della storia, grazie soprattutto al fatto che ho appena completato la prima scena in cui compare il protagonista.
Calarmi di nuovo nella sua mente mi emoziona, nonostante trovi sempre più faticoso scrivere i libri successivi di una serie. Il personaggio di Eric Shaw mi dà una particolare soddisfazione, forse perché si tratta di un protagonista maschile. Nella maggior parte dei miei libri, infatti, il protagonista è una donna. L’unica altra eccezione è “ Per caso”, scritto anch’esso durante una competizione simile, il Camp NaNoWriMo dell’aprile 2015. Invece, dover far girare una storia intorno a un uomo, ai suoi pensieri, alle sue emozioni e a quelle sue fragilità che cerca di nascondere (ma non può farlo con me!), rappresenta per me, in quanto donna, qualcosa di molto particolare, poiché si tratta di uno sforzo creativo che va decisamente oltre lo scrivere ciò che conosco e si sposta verso il conoscere attraverso ciò che scrivo.
È difficile spiegare il tipo di sensazione che ciò mi suscita, ma chiunque abbia mai dovuto creare dal nulla un personaggio completamente diverso da se stesso (per sesso, carattere, convinzioni, inclinazioni e così via) o immedesimarsi, per qualunque motivo, in una persona del genere può avere un’idea di cosa intendo.
Anche questo novembre (e una parte di dicembre) Eric mi accompagnerà in un’intensa avventura scrittoria, l’ultima che affronteremo insieme, almeno sotto forma di romanzo. E già mi sale un po’ la malinconia, perché inevitabilmente finisco per affezionarmi a queste persone immaginarie che nella mia mente sono del tutto reali. Lasciarle andare è difficile, ma è necessario, per consentire ad altre di emergere.
Nonostante si tratti del mio quarto NaNoWriMo (cui si aggiungono quattro versioni Camp) ogni volta la sfida è reale. So di essere in grado di scrivere 50 mila parole in 30 giorni, ma tra esserne consapevole e farlo c’è di mezzo un bel po’ di sofferenza.
Eppure c’è un motivo per cui torturo me stessa con questa sfida: il motivo è che funziona.
Ci sono sempre innumerevoli valide ragioni per non scrivere o per smettere di farlo prima del tempo, ma avere un obiettivo giornaliero per trenta giorni di fila evidenzia come, in fondo, ognuna di tali ragioni possa essere messa da parte senza troppa fatica.
Grazie al NaNoWriMo l’agonia che accompagna l’atto creativo, fatta di dubbi, incertezze e costrizioni, dura al massimo un paio di mesi, invece di trascinarsi per un anno o più. La disciplina mentale che un impegno come il NaNoWriMo ti conferisce, fatta di dichiarazioni pubbliche giornaliere del numero di parole scritte e di quelle che si intende scrivere o fatta dell’aggiornamento costante del conteggio sul proprio blog (o, come nel mio caso, di entrambe le cose) e ovviamente sul sito della competizione, per quanto mi riguarda non ha eguali.
Ogni anno mi ritrovo a osservare l’andamento della gara dei miei buddy sul sito del NaNoWriMo o di altri partecipanti sul gruppo ufficiale italiano su Facebook e noto una varietà di comportamenti. Molti di loro, spinti dalla paura di non riuscire a tenere il ritmo, partono di gran carriera, scrivendo svariate migliaia di parole nei primi giorni, ma poi rallentano e spesso si bloccano ben prima del traguardo. L’errore in alcuni casi nasce proprio dal fatto che non vogliono sentirsi con l’acqua alla gola, si prendono il sicuro con una partenza a razzo e poi si rilassano troppo, esaurendo presto la propria vena creativa.
Il vero scopo del NaNoWriMo è però un altro: scrivere in media almeno 1667 parole al giorno, cioè creare un ritmo produttivo costante. Non è quello di scrivere di più, per mettere parole da parte, quasi fossero dei risparmi, ma piuttosto di allenare la propria creatività a scrivere quelle 1667 in un tempo più breve e con maggiore facilità.
Ogni autore di certo ha un approccio diverso alla scrittura, ma credo che quasi per tutti spesso la parte più difficile sia l’atto di iniziare.
Per me iniziare una nuova scena è sempre un trauma. Per questo motivo ciò cui punto ogni volta che mi metto davanti al foglio bianco è proprio scrivere una sola scena, per non dover affrontare più di una volta il trauma dell’inizio. E, visto che l’obiettivo giornaliero sono quelle 1667 parole, la soluzione è scrivere ogni volta una scena che abbia almeno quella lunghezza (può essere inferiore, solo se si è un po’ avanti sulla tabella di marcia). Se per qualche motivo non riesco a raggiungere quella quota con una scena, torno indietro, la rileggo e la rimpolpo. Questo perché avere fretta nello scrivere non è una buona cosa. Certe volte si hanno così chiari in mente gli eventi da narrare che si rischia di cadere nell’eccesso di sintesi, che impedisce al lettore di immedesimarsi nelle problematiche dei personaggi.
Avere un obiettivo numerico minimo di parole per singola scena mi impedisce di finire in questa trappola e quindi mi consente di scrivere delle scene equilibrate, col ritmo giusto e una lunghezza tale da costringere il lettore a non staccarsi dal libro.
D’altra parte, una volta terminata la scena (a obiettivo numerico raggiunto), anche se so come andare avanti (perché ho comunque un’outline, anche se parziale) e, magari, avrei anche il tempo per farlo, invece mi fermo, perché sono anche consapevole che, se faccio passare un altro giorno, nuove idee e sviluppi migliori di quelli che ho già pensato di certo salteranno fuori, permettendomi di scrivere un libro migliore. Per questo motivo non ha senso, a mio parere, mettere parole e scene da parte, poiché la fretta può spingere la storia verso una direzione al momento più semplice, ma che col tempo potrebbe rivelarsi inadatta ai personaggi, compromettendo il risultato finale. Al contrario, domare la propria creatività e costringerla a certi ritmi permette ai personaggi di esprimersi e indicare all’autore la strada giusta.
Certo, c’è chi scrive e quindi partecipa al NaNoWriMo solo per il puro piacere di scrivere fine a se stesso, senza particolari ambizioni. In tal caso, deve solo seguire il proprio istinto, in quanto la disciplina di cui parlo non è affatto divertente, anzi, è una vera e propria tortura.
Ma chi, invece, sta scrivendo una prima stesura con lo scopo di trasformarla poi in un libro finito che verrà pubblicato addirittura in un giorno già stabilito nel futuro, come nel mio caso (l’uscita di “Oltre il limite” è prevista per il 21 maggio 2017), deve per forza di cose avere un altro approccio.
Chi non si è mai trovato in questa situazione potrebbe pensare che io faccia violenza a me stessa (in un certo senso non si sbaglia del tutto), ma come avviene per l’attività fisica anche nella scrittura la gratificazione raramente deriva dal compiere l’atto in sé, bensì dalla soddisfazione che si prova al suo completamento. Perciò il mese di novembre sarà un mese di sofferenza, ma alla fine di ogni sessione di scrittura in cui avrò raggiunto il mio obiettivo mi sentirò soddisfatta di me stessa. Alla fine tale soddisfazione raggiungerà il proprio apice quando digiterò quella cinquantamillesima parola. E sarà bellissimo, proprio come ciò che si prova quando, alla fine di una lunga corsa, ci si ferma per prendere fiato.
Quel traguardo, però, è ancora lontano. Nel frattempo, vi chiedo soltanto di tifare per me!
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