Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Una delle frasi che si sente più spesso pronunciare nelle serie TV che si occupano di scienza forense è che le prove, a differenza delle persone, non mentono. Una variante di questa affermazione è che i morti (i loro corpi), a differenza dei vivi, non mentono. Il succo del discorso è sempre lo stesso: nelle prove materiali si trova già la risposta per scovare l’artefice del crimine (Mac Taylor di “ CSI: NY” pare averne davvero tante a disposizione nella foto accanto), basta individuarle e interpretarle nella maniera giusta.
Nella realtà, però, la maggior parte delle prove fisiche che si trovano sulla scena di un crimine non permettono di identificare in maniera univoca una persona, sono soggette al problema della contaminazione e quindi in ultima analisi possono al massimo fungere da prove a supporto dell’accusa, ma non sono sufficienti da sole a mandare qualcuno in galera.
L’identificazione di una persona (che sia colpevole o comunque coinvolta nel delitto) può essere compiuta con successo, in assenza di testimoni (che però possono mentire!), solo se questa coinvolge degli elementi rinvenuti sulla scena che le appartengono in maniera esclusiva, anzi, che sono proprio parte della persona in questione.
Si tratta degli identificatori biometrici. Di questi ultimi esistono due categorie. La prima include caratteristiche fisiologiche, come le impronte digitali, il DNA, il riconoscimento facciale, dell’iride o della retina. La seconda riguarda caratteristiche comportamentali, quali l’andatura, la voce o la grafia.
Questi identificatori sono tipici di una determinata persona, ma alcuni di essi sono addirittura unici e stabili durante tutta la vita, e possono essere lasciati sulla scena di un crimine.
Sto ovviamente parlando di impronte digitali e DNA.
Nella realtà trovare questo tipo di prove fisiche utilizzabili per identificare il colpevole è abbastanza difficile. Le impronte digitali, in particolare, sono ovunque in una scena del crimine e spesso sono talmente tante e incomplete da non essere utilizzabili, a meno che non vengano rinvenute sull’arma del delitto. Il DNA è ancora più raro da individuare. Per entrambi è comunque necessario un confronto per stabilirne l’origine (per esempio, prelevando un campione di cellule dalla bocca di un sospettato, come Greg Sanders di “ CSI” fa nella foto accanto a un personaggio interpretato da Justin Bieber), ma esistono anche dei database (quello del DNA però si trova in un numero di paesi ancora limitato), per cui da un’impronta o una traccia ematica rinvenuta sulla scena di un crimine si può, almeno in teoria, risalire a una persona, anche se questa non è stata finora collegata al caso.
Questo è un raro caso in cui la finzione assomiglia alla realtà.
Anche nella finzione difficilmente il colpevole si lascia dietro impronte digitali e DNA utilizzabili, ma il motivo è che, se così fosse, il caso verrebbe risolto troppo in fretta e non ci sarebbe nessuna storia da raccontare!
Ciò non significa che queste prove non appaiano nelle serie TV, nei film e nei libri. Tutt’altro.
Nelle investigazione della finzione si trovano quasi sempre impronte e DNA, ma di qualcuno che non è il diretto colpevole, cosa che, possibilmente, tende a mandare fuoristrada criminologi e investigatori e a distrarre il lettore/spettatore.
La finzione, però, ancora una volta sottolinea il valore assoluto di questo tipo di prove (be’, lo fa anche con le fibre e le vernici!), senza mai mettere in evidenza alcune problematiche che le riguardano.
 Per esempio, guardando lo solita puntata di “ CSI” si avrà l’impressione che basti inserire un’impronta rinvenuta sulla scena nel computer per avere in tempi brevi un unico riscontro: quello del proprietario dell’impronta.
Non è affatto così. A parte che i tempi non sono affatto brevi secondo le dimensioni del database, c’è anche da considerare che il computer potrebbe dare ben più di un probabile riscontro e nessuno sarà uguale al 100%. A quel punto interviene l’esperto che fa un confronto visuale tra l’impronta a disposizione e quella nel database, per stabilire se effettivamente corrispondono e magari escludere alcuni risultati, se non tutti. È un essere umano che prende questa decisione e, come tale, potrebbe sbagliare.
Eppure sia nella finzione che nella realtà (a questo proposito vi parlerò nel prossimo articolo di questa serie di alcuni errori clamorosi) l’impronta digitale è considerata una prova schiacciante, poiché non esistono due persone al mondo con le stesse impronte precise.
Il DNA lo è ancora di più. Anche qui vale il discorso dell’unicità (eccezion fatta per i gemelli monozigoti), solo che non tutti sanno che anche l’analisi del DNA non dà un risultato assoluto. In questo caso il fattore umano non c’entra, perché l’analisi parla da sé, ma i suoi risultati sono di natura statistica, poiché ovviamente non si analizza tutto il corredo genetico a disposizione, ma solo un certo numero di loci. È, altresì, vero che la probabilità che campioni di due persone diverse (non gemelli) restituiscano lo stesso profilo è talmente bassa da poter essere considerata pari a zero.
Quindi sì, il DNA è una prova che non da adito a dubbi, che si tratti di realtà o finzione, solo che in quest’ultima si tende a semplificare la sua individuazione e la sua analisi, che spesso viene svolta in un tempo irrisorio.
Alla fine il criminologo di turno arriva tutto sorridente con un foglio (o un tablet) dal suo capo per mostrargli il risultato, dopo aver compiuto analisi e confronto nel database nel giro di una mezz’ora scarsa. Ma d’altronde bisogna fare in fretta, perché il caso va chiuso entro la giornata e questa prova sarà soltanto una delle tante che avvicinerà alla soluzione, senza però esserla essa stessa.
 Anche nella trilogia del detective Eric Shaw ho usato impronte digitali e DNA. Addirittura ne “ Il mentore” parlo di un caso di manipolazione delle prime, che il protagonista utilizza per far confessare un sospettato. In “ Sindrome”, invece, le impronte su un’arma del delitto saranno un elemento importante nell’identificazione del colpevole. Non posso entrare nei dettagli, lasciandoli alla lettura del libro, ma posso dire che a questo proposito mi sono soffermata a spiegare come le impronte sono state raccolte e su come esistano metodi diversi per farlo a seconda del tempo passato dalla loro deposizione.
Il primo e più comune nella finzione è quello in cui si spennella una polvere scura sulle superfici per individuare eventuali impronte latenti (come nella foto sopra con Eric Delko di “ CSI: Miami”).
Nella realtà (e anche nei miei libri) questa polvere si chiama grigio-argento e viene effettivamente utilizzata a questo scopo per delineare le linee papillari, quelle che sono state impresse su superfici perlopiù lisce a causa della presenza di materiale sebaceo sui polpastrelli (in “ Sindrome” mi sono presa l’ennesima piccola licenza, indicando una superficie su cui in genere non è semplice rilevare delle impronte, ma sono rimasta volutamente vaga, lasciando intendere che fosse davvero liscia o supponendo che i criminologi, al solito, fossero stati fortunati). Questo metodo viene usato solo se le impronte sono relativamente recenti, ma, se risalgono a più di due o tre giorni, potrebbero essersi asciugate, quindi è necessario ricorrere a una sostanza chimica chiamata ninidrina, che reagisce con gli amminoacidi presenti nel sudore, generando una colorazione visibile.
Anche il DNA fa la sua comparsa nella mia serie (su delle macchie di sangue in “ Sindrome”) e anch’esso, nella migliore tradizione della finzione, è usato più che altro per rimescolare le carte e complicare il lavoro ai protagonisti.
Ma, se non altro, posso dire di aver dato un tocco di realisticità al tutto, mostrando come per la sua analisi questi abbiano dovuto aspettare almeno qualche giorno.
Di Carla (del 08/08/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3333 volte)
     Un’eredità maledetta
Sebbene si tratti dell’ennesima storia di un complotto nazista ambientato decenni dopo la fine del Nazismo, questo romanzo di Ludlum sa essere originale e intrigante. Il protagonista, Noel Holcroft, mi ha catturato da subito. È facile sentirsi legati a lui e preoccuparsi per lui nel rendersi conto di come si stia infilando nei guai. L’autore, infatti, mostra il dipanarsi della storia da vari punti di vista e il lettore è sempre un passo avanti rispetto ai personaggi, sia buoni che cattivi.
Anche in questo romanzo si ripropone lo schema vincente, già visto nella trilogia di Bourne, di un protagonista maschile fisicamente forte ma in difficoltà e di quello femminile che lo aiuta (e infine si innamorano).
Come unico aspetto negativo ho rilevato la presenza del solito cliché dei nazisti supermalvagi e folli, che compiono le peggiori nefandezze senza il minimo rimorso e che hanno dei seguaci disposti pure a uccidersi per la causa. Nello sviluppo di questo concetto sfugge quale sia la causa che perseguono, a parte la loro follia. Possibile che siano tutti folli? Ci potrà pure essere qualche folle, ma almeno qualcuno dovrebbe avere altre motivazioni, come la sopravvivenza (almeno) o un proprio tornaconto. Il lavaggio del cervello come unico motore delle azioni appiattisce irrimediabilmente i personaggi negativi, sminuendo di riflesso quelli positivi.
Per fortuna il romanzo termina con un finale aperto assolutamente imprevedibile che fa dimenticare tutti i cliché.
Altra nota positiva è la traduzione, sicuramente molto più curata e gradevole di quella dei libri su Bourne.
Il patto (Kindle, cartaceo) su Amazon.it. Il patto (Kindle, brossura) su Amazon.com.
Di Carla (del 05/08/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3125 volte)
    Il ritorno del violagiorno
Avevo apprezzato parecchio l’originalità de “ Il sistema Dayworld” e mi ero divertita a leggerlo. Questo suo seguito e secondo libro della trilogia non mi ha del tutto convinto, almeno non quanto il precedente.
Come sempre Farmer mostra di avere una fantasia galoppante e il suo world building è molto accurato. Pur essendo un seguito, a causa del cambio di ambientazione ha dovuto reinventare da capo i luoghi in cui si svolge la storia, proiettando il lettore in una Los Angeles distopica che va oltre ogni immaginazione.
Jeff Caird, infatti, lascia Manhattan e con una nuova identità, che si aggiunge alle sette precedenti, scappa sulla costa occidentale. Tutti lo cercano, poiché uno dei suoi alter ego custodisce un segreto che può ribaltare l’intero sistema.
La storia che riprende esattamente dal punto in cui è finito il primo libro necessita assolutamente della lettura di quest’ultimo per essere compresa a fondo. Devo dire che le serie in cui è obbligatoria la lettura in ordine dei romanzi sono le mie preferite, quindi si tratta senza dubbio di un aspetto positivo.
Il protagonista sa ancora una volta essere coinvolgente per la sua fallibilità e follia, e la trama è del tutto imprevedibile. Non hai la più pallida idea di cosa attenda i personaggi nella pagina successiva né riesci a immaginare un epilogo possibile all’intera storia.
Purtroppo, però, non posso dare il massimo dei voti a questo romanzo, perché ci sono alcuni aspetti che non mi sono piaciuti.
La trama è infarcita di intrighi negli intrighi, creando una complessità che definirei sterile. Inoltre, il distacco necessario dalla struttura del primo libro costringe l’autore a inventarne una nuova che non risulta altrettanto vincente.
Infine, si sente che si tratta del libro intermedio di una trilogia e quindi soffre il suo essere un racconto di transizione.
A questo punto devo procurarmi l’ultimo per sapere come va a finire!
Di Carla (del 04/08/2016 @ 09:30:00, in Serie TV, linkato 4988 volte)
Devo ancora vedere l’ultima stagione di questa bellissima serie TV, ma proprio per questo motivo voglio parlarne adesso che non so come finirà. Ricordo che a suo tempo cercai di evitare a tutti i costi di vederla. Mi dicevo che non volevo lasciarmi coinvolgere e allungare ulteriormente la lista dei miei impegni televisivi, ma poi, non so come, ci sono cascata.
Come spesso mi capita in questi casi, non ho mai visto le primissime puntate. Trattandosi di una serie episodica (come tipicamente sono quelle rivolte ai canali generalisti, di cui la CBS fa parte) questa mia mancanza non ha inficiato il godimento del resto della stagione e di quelle successive, una volta chiarito l’antefatto.
“ The Good Wife” rientra nelle cosiddette serie drammatiche a carattere giudiziario. La protagonista, interpretata dalla bravissima Julianna Margulies (che ricorderete di certo in E.R. nel ruolo dell’infermiera che faceva coppia col dottor Ross, vale a dire George Clooney), è Alicia Florrick, la moglie del procuratore di stato, Peter Florrick (Chris Noth, già visto come Mr Big in Sex And The City), coinvolto in uno scandalo sessuale che lo fa finire in prigione. Alicia, da buona moglie, nonostante il tradimento, supporta pubblicamente il marito (anche se in privato le cose non vanno altrettanto bene) e si deve sobbarcare la famiglia, mentre lui è in carcere. Per riuscirci, torna a fare l’avvocato.
Come potete immaginare, ogni puntata presenta un caso legale che deve essere risolto.
L’aspetto puramente legale devo dire che è molto divertente. Alicia e i suoi colleghi, anche nelle peggiori situazioni, tirano fuori dal cilindro un colpo di genio che li porta quasi sempre alla vittoria.
Gli spettatori ricevono un’immagine della legge che appare come qualcosa di estremamente creativo, uno strumento che gli avvocati devono sapere armeggiare per far vincere il proprio cliente. Poco importa se sia colpevole o innocente. Infatti, tra i vari casi c’è anche quello di un uxoricida (un personaggio ricorrente nella serie) che rimarrà impunito, ma non per questo appare come un personaggio del tutto negativo.
Accanto all’argomento legale si sviluppa quello politico, che viene incarnato dal bravissimo Alan Cumming nel ruolo di Eli Gold. Eli è lo stratega politico di Peter Florrick, colui cioè che gestisce le sue campagne elettorali e cura la sua immagine anche durante i mandati. Peter, che all’inizio è il procuratore di stato, più avanti nella serie si candiderà alla carica di governatore dell’Illinois e nella sesta stagione anche Alicia si ritroverà a correre per una carica di natura politica.
Non entro nel dettaglio per evitare spoiler a chi non avesse ancora visto questa serie.
Comunque sia, la parte relativa agli intrighi politici non è meno interessante rispetto a quella prettamente legale, mettendo in evidenza come i due ambiti siano spesso collegati (negli Stati Uniti).
Proprio in questo periodo che anche da lontano assisto alla campagna presidenziale che vede come protagonisti Hillary Clinton e Donald Trump, non posso che confrontare gli articoli, i video, i tweet e quant’altro compare sul web con ciò che la finzione propone in “The Good Wife”, dove le elezioni vengono mostrate come un conflitto fatto di diffamazioni, colpi bassi, video anonimi, ricerca del solito scheletro nell’armadio dell’avversario, scontri verbali in cui la forma conta più del contenuto. In tutto ciò gli elettori sono dei numeri in una statistica che sembrano oscillare da una posizione all’altra come conseguenza di queste azioni, proprio come se fossero delle pecore e non degli esseri pensanti in grado di valutare la qualità dei candidati.
Personalmente trovo tutto questo affascinante e proprio la visione di una serie come “The Good Wife” (ma non è l’unica di certo ad affrontare questi argomenti), nel suo piccolo, fornisce un’ulteriore chiave di lettura di ciò che si vede nella realtà. In altre parole, tutto ciò che appare attraverso i media in relazione ai candidati di una campagna elettorale negli Stati Uniti è pura strategia.
Non che il resto del mondo sia diverso, ma ho l’impressione che l’eccessiva spettacolarizzazione in questo ambito, come in qualsiasi altro, sia una prerogativa tipicamente americana.
 Agli aspetti controversi sia in ambito legale che politico trattati in questa serie, si aggiungono quelli relativi alla sfera personale. Amicizie che diventano relazioni sessuali (extraconiugali) che poi diventano rivalità, personaggi che usano i sentimenti altrui a scopo personale, figli adolescenti che nascondono gravidanze, avvocatesse che si fingono ottuse per ingannare gli avversati (come il divertentissimo personaggio di Elsbeth Tascioni, interpretato da Carrie Preston) altre che usano i propri figli per impietosire i giudici, avvocati che fanno lo stesso con la propria disabilità (a questo proposito è degno di citazione il perfido personaggio di Louis Canning, interpretato da Michael J. Fox, che arriva addirittura a imbrogliare Alicia dal letto di un ospedale!) sono solo alcuni esempi del materiale umano offerto dalla serie, cui si aggiunge, purtroppo, anche la morte.
Ce n’è, insomma, per tutti i gusti e l’insieme di questi elementi va a creare delle robuste sottotrame che si dipanano lungo tutta la serie, da una stagione all’altra. E diventano sempre più importanti tanto che il caso trattato nel singolo episodio finisce per passare in secondo piano.
Non c’è quindi da stupirsi che una serie del genere tenda a creare dipendenza. Perciò, se non l’avete vista ma intendete farlo, ricordatevi che non avrete pace finché non sarete arrivati all’ultima puntata, se non di tutta la serie, almeno delle singole stagioni.
Poi non dite che non vi ho avvertito!
Incastrato tra Regent’s Park, a nord, e la famosa Oxford Street, a sud, si trova il quartiere di Marylebone nel centro di Londra, all’interno della City of Westminster. Si tratta di una zona perlopiù residenziale, sebbene vi siano situati alcuni edifici di carattere diplomatico (consolati). Nel tempo ha ospitato diversi personaggi famosi, quali John Lennon, Paul McCartney, Ringo Starr, l’autore H.G. Wells (nella foto la targa che indica quella che fu la sua abitazione), Jimi Hendrix, Madonna (al tempo del matrimonio con Guy Ritchie) e tanti altri, ma forse il suo abitante più illustre, benché soltanto nella finzione, è stato e sarà sempre Sherlock Holmes.
In questo quartiere, infatti, si trova l’indirizzo 221B Baker Street, che Arthur Conan Doyle indicò come residenza del protagonista dei suoi gialli (la statua della foto però è situata di fronte alla stazione di Baker Street).
 Ovviamente la casa di Holmes non è mai esistita, addirittura al tempo della pubblicazione dei romanzi Baker Street non raggiungeva neppure quella numerazione, adesso però la stessa via ospita il Sherlock Holmes Museum. Non si trova esattamente al numero 221B (è situato tra il 237 e il 241), ma dal 1990 dopo una lunga disputa il museo ha ottenuto che diventasse il suo indirizzo ufficiale, nonostante ciò alterasse la numerazione della via.
Volendo in parte omaggiare il personaggio creato da Conan Doyle, in una traversa di Baker Street, chiamata York Street, ho inserito l’abitazione (ugualmente immaginaria) del detective Eric Shaw.
Il secondo motivo di questa mia scelta è che conosco molto bene Marylebone, poiché tutte le volte che vado a Londra prendo una camera in un hotel in Gloucester Place, chiamato Hotel 82.
Oltre a essere un hotel carino e a non costare tanto, pur trattandosi di un quattro stelle (e chi è andato almeno una volta nella capitale britannica sa quanto sia importante la categoria dell’hotel scelto, per non avere brutte sorprese in fatto di pulizia!), ha la peculiarità di trovarsi a cinque minuti di cammino dalla fermata della navetta EasyBus per l’aeroporto di Stansted e allo stesso tempo in una zona, Marylebone appunto, da cui a piedi, se non si ha timore di camminare un po’, si può in pratica visitare tutto il centro di Londra.
Infatti, spostandosi verso sud, lungo Gloucester Place (che poi continua in Portman Street) o la parallela Baker Street si arriva alla famosa via dei negozi, Oxford Street, direttamente accanto ai magazzini Selfridges.
Da lì, spostandosi verso ovest, si arriva in breve tempo al margine di Marylebone, segnato da Marble Arch, da cui inizia l’enorme Hyde Park. Se invece si va verso est, si raggiunge Oxford Circus, si imbocca Regent’s Street e in men che non si dica si arriva a Piccadilly Circus.
 Ma torniamo nel cuore di Marylebone, dove è situata l’abitazione anche di un altro personaggio della trilogia del detective Shaw, vale a dire quella di Adele Pennington, esattamente in Dorset Street. Questa via è anch’essa una traversa di Gloucester Place e Baker Street, e per un tratto si estende parallela a York Street (con un’altra via intermedia tra le due). Insomma, i due personaggi abitano davvero a breve distanza l’uno dall’altro.
Un caso? Chi ha letto i libri conosce la risposta a questa domanda.
Ho scelto queste due vie in particolare, perché mi è capitato di percorrerle spesso e i loro nomi mi sono rimasti impressi. E mi sembravano dei luoghi carini dove far abitare i miei personaggi.
Si tratta in realtà di una zona residenziale tutt’altro che a buon mercato e, infatti, la mia collega scrittrice (e amica) Stefania Mattana, che a Londra ci vive, dopo aver letto “ Il mentore” commentò che Eric e Adele dovevano essere ricchi per abitare lì!
Be’, effettivamente dal libro poi emerge che Adele se la passa abbastanza bene e, leggendo che Eric, oltre ad avere quella casa, una bella macchina, un cottage in campagna, paga anche gli alimenti del figlio Brian (avuto con la ex-moglie Crystal), si deduce che pure lui qualche soldo da parte deve averlo.
Ma, d’altronde, essendo dei personaggi di fantasia, perché non farli vivere in un bel posto?
Inoltre, quelle stesse vie sono teatro, sempre ne “ Il mentore”, della parte iniziale di un inseguimento in auto, che però termina fuori del quartiere.
Io ci sono stata due volte, a distanza di oltre vent’anni l’una dall’altra, e la seconda l’ho trovato completamente diverso rispetto alla prima, ma sempre divertentissimo (nella foto sono insieme al Sherlock Holmes interpretato da Robert Downey Jr, be’, ovviamente si tratta della sua copia in cera).
L’ingresso purtroppo è molto caro, ma come per tutti i luoghi di interesse turistico a Londra esiste un modo per visitarlo spendendo fino alla metà, vale a dire sul sito ufficiale del museo, dove è possibile acquistare biglietti scontati soprattutto in determinati periodi dell’anno. Per esempio, l’ultima volta che ci sono stata, ho speso appena 15 sterline per l’ingresso nell’ultima ora di apertura in un giorno specifico.
In fondo, un’ora è assolutamente sufficiente per vederlo tutto, fare delle bellissime foto e non farsi tentare dall’acquisto di troppi souvenir!
 Ecco una lista di articoli, recensioni, citazioni e interviste relative a “ Sindrome”. L’elenco verrà aggiornato man mano che nuovi articoli verranno pubblicati.
Arriva “Sindrome” il seguito de “Il mentore”, su La Nuova Sardegna:
Intervista sul web magazine Thriller Nord:
Recensione su LibriCity Group:
Il ritorno del detective Eric Shaw, nuovo thriller della Monticelli, su La Gazzetta del Sulcis-Iglesiente, numero 769, 9 giugno 2016:
Recensioni (doppiamente) pericolose: Il mentore & Sindrome sul blog Società Storie Scadute:
Intervista a Rita Carla Francesca Monticelli, su The Symphony of Books:
Il ritorno del detective Eric Shaw: il nuovo thriller della scrittrice di Carbonia Rita Carla Francesca Monticelli, su Tottus In Pari:
Intervista: Rita Carla Francesca Monticelli e Sindrome, sul blog Peccati di Penna:
Recensione di Sindrome, sul blog Giochi di parole… con le parole:
Intervista a Rita Carla Francesca Monticelli, sul sito di Cesario Picca:
Libri d’estate indie, sul blog di Alessia Savi:
Le recensioni di EliBì: Il mentore e Sindrome, su Women In Write:
Segnalazioni relative all’uscita dei libro su blog letterari:
“ Sindrome” è disponibile in formato ebook a partire da 2,99 euro su: Amazon, Giunti, Kobo, Mondadori Store, laFeltrinelli, iTunes, Google Play, Nook (tramite l’ app per Windows), 24Symbols e Smashwords. Disponibile inoltre in brossura a 10,99 euro su Amazon e Giunti.
Di Carla (del 01/08/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3666 volte)
     (Quasi) nessuno è come Bourne
Il secondo libro della trilogia originale di Jason Bourne si distacca parecchio da ciò che abbiamo visto nel primo. Una volta risolto il dilemma dell’identità del protagonista, Ludlum ci propone nuovi scenari, minacce e sfide per il nostro superagente segreto.
Per il lettore, il ritrovare con piacere i vecchi personaggi si mescola con la necessità di rimanere attento nella lettura per comprendere l’ingarbugliato intrigo che li vede protagonisti. Ludlum ci fa fare un tuffo nella Cina degli anni ’80 e nei meccanismi sociopolitici del tempo, di cui mostra una profonda conoscenza. Magari non li capiamo tutto, ma ne ricaviamo un quadro generale che appassiona e inquieta, e che senza dubbio fa la felicità di qualsiasi amante delle spy story (come me!).
A ciò si aggiunge il fascino intramontabile di Webb/Bourne, l’eroe danneggiato, sull’orlo della follia (parola che Ludlum usa molto spesso!), folle e fragile, non infallibile, che sa essere freddo, ma anche amare con profondità. Accanto a lui il personaggio di Marie (il mio preferito dopo lo stesso Bourne), come pure quello di Alex e Mo, sono ugualmente centrali nella storia e coinvolgenti. E sono soprattutto essenziali per richiamare il protagonista alla realtà, per saper mettere da parte il Bourne che c’è in lui e tornare a essere David Webb.
Unico aspetto per così dire negativo è la presenza di alcuni passaggi un po’ lenti e qualche inutile ripetizione di ciò che è accaduto nel primo libro.
L’edizione, purtroppo, non è affatto buona. La traduzione è talvolta letterale. Ho letto altri libri di Ludlum con una traduzione in grado di evidenziare la sua bella prosa. Questi di Bourne purtroppo avrebbero bisogno di una revisione, se non altro per eliminare i refusi. Dopo trent’anni sarebbe il caso di farne una, invece di limitarsi a modificare la copertina quando si pubblica una nuova edizione.
Una curiosità sulla scrittura di Ludlum: nei suoi libri non appare alcun tipo di linguaggio volgare, preferisce usare eufemismi e metafore, eppure, stranamente, non si risparmia con le bestemmie. Tutti i personaggi, dal primo all’ultimo, almeno una volta invocano Dio, Gesù o Cristo (o varianti), ma non dicono una sola parolaccia!
Non esiste niente del genere. Mi riferisco al titolo di questo articolo. Nonostante quanto accade nella finzione, in cui capita spesso che la risoluzione di un caso sia affidata a una fibra, in genere unica e isolata, trovata sulla scena e sulla vittima (a Sara Sidle di “ CSI” capita spesso; vedi foto), nella realtà tale fibra non servirebbe a dimostrare proprio un bel nulla.
È chiaro che certi materiali rilasciano delle fibre minuscole che, volendo, possono essere confrontate, per esempio, con i vestiti di un sospettato o con qualche altro oggetto di natura tessile che appartiene a quest’ultimo.
Tralasciamo completamente i soliti fantomatici database, come quello che in una delle ultime puntate di “ Bones” che ho recentemente visto ricollegava una fibra sintetica al tappetino di un’auto lussuosa, che, come al solito, era un serie limitata, permettendo così di individuare il sospettato. Comunque, anche ammesso che il database esista (non ci credo ), ho forti dubbi che una particolare fibra venga usata solo per il tappetino di un modello di auto ( sappiamo bene che li fanno tutti in Cina, spesso nella stessa fabbrica da cui escono quelli della più economica delle utilitarie).
Torniamo, invece, al caso in cui il sospettato c’è già ed è quindi possibile effettuare un confronto. Ma, se anche tale confronto fosse positivo, che cosa dimostrerebbe? Nulla.
Fibre identiche si trovano in materiali molto diversi, inoltre la nostra fibra potrebbe trovarsi lì per via di una innocente contaminazione precedente all’omicidio oppure perché trasferita alla vittima in seguito a un suo precedente contatto con qualcuno totalmente estraneo ai fatti.
Per questo motivo le fibre sono soltanto delle prove a supporto, che quindi non aggiungono certezza.
Un discorso simile vale anche per i capelli. In questo caso magari il confronto può essere più utile, in quanto aiuta a restringere il campo. Se sull’arma del delitto, per esempio, è attorcigliato un lungo capello biondo e il sospettato ha dei lunghi capelli biondi che da un confronto risultano della stessa tonalità e hanno altre caratteristiche simili (come la grossezza o il fatto che il colore sia o meno naturale), esiste una certa probabilità che appartenga a quella persona, ma probabilità non è certezza e ciò la rende ancora una semplice prova a supporto.
La vera svolta si avrebbe se il capello in questione avesse ancora il bulbo pilifero da cui prelevare e quindi analizzare il DNA. Se non dovesse esistere un buon motivo, indipendente dall’omicidio, in grado di spiegare la presenza del capello incriminato sull’arma il sospettato si troverebbe in grossi guai.
 Un altro tipo di prova che si può rinvenire sulla scena è l’impronta di una scarpa, magari insanguinata. Se è diversa da quella della scarpa della vittima, quasi certamente quell’impronta appartiene all’assassino o altra persona che si trovava con lui al momento dell’omicidio.
L’impronta può permettere ai criminologi di risalire al numero di scarpe e, se ha un disegno particolare, anche alla marca precisa (soprattutto se esistesse quel famoso database delle suole delle scarpe!). Ancora una volta può essere molto utile per un confronto. Resta il problema che, se non si tratta di scarpe uniche fatte su misura (al giorno d’oggi parecchio rare), anche questo tipo di prova non dà certezza, a meno che non si trovi una specifica corrispondenza riguardante l’usura della suola, dovuta al modo unico che ognuno di noi ha di camminare e che permette di consumare in maniera diversa alcune sue aree. In questo frangente il fattore tempo diventa essenziale, perché il logorio continua, se l’assassino seguita a portare quelle scarpe. Bisogna essere in grado di fare il confronto entro pochi giorni, al massimo un paio di settimane, altrimenti non sarà possibile trovare alcuna corrispondenza.
Analogamente alle impronte di scarpe, esistono altri tipi di segni caratteristici. Mettiamo il caso di un cacciavite usato per forzare una finestra. Di certo lascia un segno sull’infisso, che corrisponde alla sua forma. Se il cacciavite non è nuovo, con l’uso si è logorato, quindi l’impronta che si lascia dietro è unica. Come per le scarpe e per lo stesso motivo, il confronto, però, deve essere fatto nel più breve tempo possibile.
E se il cacciavite fosse l’arma del delitto?
Di certo ha lasciato sul corpo della vittima un’impronta, magari non distinguibile come sull’infisso, a meno che non abbia intaccato l’osso. Ritrovare un’arma simile a casa del sospettato e individuare su di essa delle tracce di sangue (che, come tutti sappiamo, è molto difficile da togliere, tanto da rimanere lì anche se non lo si vede a occhio nudo) potrebbe essere una prova schiacciante. Ancora di più se su di essa ci sono le sue impronte e lui non ha un alibi per l’ora del delitto. A meno che qualcuno non abbia deciso di incastrarlo, usando il suo cacciavite, cosa che nella finzione capita molto più spesso che nella realtà.
 Per individuare l’arma del delitto abbiamo visto spesso i criminologi delle serie TV mettersi a infilzare omini di gelatina o carcasse di animali con gli oggetti ritrovati a casa del sospettato. Di solito questa dispendiosa pratica non porta a nulla, eccetto il raro caso che il sospettato sia stato incastrato.
Il vero colpevole, ovviamente, si libera dell’arma del delitto!
Ancora più dispendiosa è la pratica di infierire sui surrogati delle vittime con oggetti a caso che i protagonisti dei vari CSI piazzano su un tavolo e provano uno per uno. Lo scopo è perlomeno quello di capire che arma devono cercare. La possibilità di beccare quella giusta tra un numero quasi infinito di oggetti che lacerano la carne in maniera simile rasenta lo zero. Be’, in questo caso invece ecco che salta subito fuori un utensile strano (che fortuna!), che corrisponde alla perfezione alla forma della ferita. Di solito, quando accade, fornisce un’informazione preziosa, poiché un sospettato usa qualcosa del genere per lavoro o per hobby.
E poi ci sono i famosi traumi da corpo contundente.
La vittima è stata colpita in testa da un oggetto che potrebbe essere un martello, una mazza, una lampada, un trofeo o chissà cosa. L’impatto ha provocato un trauma peri-mortem (talvolta non immediatamente visibile, ma che appare sotto forma di ematoma dopo che il corpo viene tenuto nella cella frigorifera per alcune ore) e magari ha lasciato una bella impronta sulle ossa del cranio.
Ed ecco che i criminologi, con grande divertimento, infilano le tute e gli occhiali protettivi (quell’attrezzatura che non usano sulla scena del crimine; vedi foto sopra tratta da “ CSI: NY”) e iniziano a prendere a mazzate dei poveri manichini, finché non trovano l’oggetto giusto.
Il meccanismo è identico al caso del cacciavite: se l’arma viene rinvenuta a casa del sospettato, qualcuno lo ha incastrato; se invece non si trova, loro riusciranno comunque a individuarla andando a tentativi tra migliaia di possibilità, sprecando senza ritegno pupazzi, gelatina e carcasse di maiale, e da lì scoveranno l’impensabile colpevole che usa lo stesso tipo di strumento per fare dell’innocente bricolage. Poi, analizzando la sua cassetta degli attrezzi, troveranno la spranga con lo stesso identico profilo, che sarà insanguinata oppure recentemente pulita con candeggina (a differenza dei restanti attrezzi che saranno a dir poco luridi).
Potrei andare avanti così all’infinito nel raccontarvi di tutte queste prove che sono il pane quotidiano dei criminologi della finzione e il cui rinvenimento è, di conseguenza, la base su cui poggiano le trame delle storie investigative incentrate sulla scienza forense.
Come autrice ne uso diverse pure io, soprattutto perché so che è quello che il lettore si aspetta di leggere. E poi, diciamocelo, è divertente utilizzarle! Però preferisco mettere in evidenza come la loro utilità sia limitata, sfruttandole spesso come elementi che supportano il processo dell’investigazione fatto di intuito e immaginazione, oppure che escludono alcuni scenari. Questo perché spesso tali prove sono più utili per escludere che per confermare.
 Così, in “ Sindrome”, un elemento interessante durante l’analisi delle scene di due omicidi è proprio la totale assenza di impronte di scarpe in un appartamento praticamente immacolato, dove giace un cadavere sporco e le cui suole presentano del terriccio. Una tale constatazione porta il detective Shaw e la sua squadra a ritenere che l’assassino abbia cancellato tali tracce o, ancora meglio, che la vittima non abbia mai camminato su quel pavimento, dove è stata semplicemente scaricata, perciò quella non è la scena primaria.
Ne “ Il mentore”, invece, sfrutto il caso dell’ ematoma che compare a scoppio ritardato (perché non visibile sul cadavere subito dopo la morte) e che rivela che la vittima è stata spinta con una scarpa il cui profilo appuntito ricorda la calzatura di una donna. Ciò porta gli investigatori a teorizzare che una donna sia l’assassina (o la complice dell’assassino) e spingerà la detective Leroux a porre determinate domande a un testimone oculare, che forse ha visto qualcuno lasciare la scena del crimine.
Il bello è che buona parte di tutto questo non l’ho imparato leggendo trattati di scienza forense, ma leggendo i romanzi di Patricia Cornwell, guardando i “ CSI”, “ Bones”, “ NCIS”, “ Body of Proof” e tanti altri. Tutti mezzi che, prendendo spunto dalla scienza per creare delle storie, oltre a divertire il proprio fruitore, nel loro piccolo di strumenti di intrattenimento, alla fine, arricchiscono in un certo senso quest’ultimo, lasciandolo con un po’ di conoscenza in più e, nel contempo, con una certa curiosità di acquisirne dell’altra.
Non avevo più di diciotto anni quando mi capitò di leggere il mio primo libro di Patricia Cornwell ed era in inglese. Si trattava di “Oggetti di reato” (Body of Evidence) e mi piacque così tanto che decisi di continuare con “Postmortem”. Solo allora mi accorsi non solo che erano collegati, ma che li avevo letti nell’ordine sbagliato! Un errore che non ho più ripetuto e che invito qualsiasi lettore che intenda avvicinarsi alle opere di questa autrice a non commettere.
Sicuramente la serie più famosa della Cornwell, che a oggi include ben venticinque romanzi (tra cui “Chaos” del 2016), è quella che vede come protagonista il medico legale Kay Scarpetta. Un personaggio di origine italiana che pare sia ispirato a una persona reale, la dottoressa Marcella Farinelli Fierro, con cui la stessa Cornwell ha lavorato negli anni ’80. La realtà e la finzione si mescolano nei suoi romanzi, nei quali racconta con minuzia di particolari il lavoro del medico legale e porta alla ribalta della narrativa il tema della scienza forense, tanto che pare che essi abbiano avuto un’influenza notevole nelle serie TV su questo argomento, come CSI.
La scienza forense è sicuramente un elemento essenziale in questa serie di romanzi. L’autrice attinge a piene mani dalla propria esperienza di lavoro presso l’Ufficio del Medico Legale Capo della Virginia. Lei non è un medico, ma lavorava come analista informatica, cosa che ha senza dubbio contribuito alla creazione in un altro personaggio, quello di Lucy Farinelli (ancora questo cognome), la nipote della Scarpetta.
Nei primi libri Lucy è una ragazzina con una grande abilità nell’uso del computer, ma poi la vediamo crescere e diventare un personaggio complesso e a tratti problematico. E infatti, benché i romanzi di questa serie rientrino nella cosiddetta crime fiction, ciò che davvero conta, ed il motivo per cui vanno letti in ordine, non è il singolo caso narrato, bensì le sottotrame che seguono Kay Scarpetta, Lucy, Pete Marino e tutti gli altri personaggi ricorrenti. Alla fine il criminale di turno, spesso e volentieri un serial killer (ma non sempre), è uno strumento per costruire atmosfere cupe, mostrare l’investigazione che parte dal cadavere della vittima e dalle altre prove fisiche, ma è solo uno degli elementi di conflitto dei singoli libri.
Non a caso, una cosa che notai già da quella prima lettura, è che la risoluzione,che spesso porta alla morte del cattivo, si realizza in fretta, nel giro di un paio di capoversi, tanto che ogni volta mi ritrovo a tornare indietro e a rileggere perché me la sono quasi persa!
Eppure continuo a leggere i suoi libri, perché trova sempre un modo diverso di sorprendermi. Ci si potrebbe chiedere come sia possibile per un autore continuare a raccontare per venticinque libri gli stessi personaggi, riuscendo a rendere le loro vicende interessanti.
La Cornwell in qualche modo ci riesce, spesso sperimentando. Alcuni suoi libri sono scritti in prima persona, altri in terza, alcuni addirittura al presente. Nell’ultimo che ho letto, “ Autopsia virtuale” (sono quasi sei romanzi indietro, ma li tengo da parte e me li leggo sempre con calma; tanto i romanzi non scadono!), riesce a sviluppare una storia in prima persona nell’arco di circa ventiquattro ore. Scarpetta non era presente all’omicidio, ovviamente, e partecipa solo in parte alle investigazioni, ma tramite tutta una serie di espedienti l’autrice riesce comunque a rendere il romanzo avvincente e a fare in modo che il caso tocchi da vicino i personaggi principali, divenendo un’unica cosa con le sottotrame.
Questa sua capacità fa sì che i suoi libri siano dei crime thriller e non dei gialli o polizieschi.
Ma la Cornwell non ha scritto soltanto la serie di Scarpetta. Si tratta solo della sua serie più famosa e che continua a sviluppare per via nel successo che continua ad avere.
Ha provato a scrivere altro e, come spesso capita, il suo tentativo non è stato apprezzato da molti dei suoi fan (soprattutto quelli che rientrano nella poco interessante categoria di lettori che amano fossilizzarsi in un certo tipo di letture).
Un’altra sua serie che conta solo tre libri (“ Il nido dei calabroni”, “ Croce del sud” e “ L’isola dei cani”) è quella di Judy Hammer e Andy Brazil. Nel terzo si scopre che è ambientata nella stessa realtà della serie di Scarpetta (che appare in un breve cameo), ma non ha nulla a che vedere con le storie di quest’ultima.
Abbiamo sempre a che fare con dei crimini, ma il tono è molto più leggero, ironico. Durante la lettura ci si ritrova spesso a ridere. L’autrice sperimenta mostrando delle scene persino dal punto di vista degli animali (ne “L’isola dei cani” ce n’è una favolosa dal punto di vista di un granchio!) e si sofferma a raccontare interessanti storie sulla gente del posto. Il primo dei libri di questa serie è diventato nel 2012 anche un film per la TV con Virginia Madsen.
 Poi c’è la serie di Win Garano, costituita da due brevi romanzi (“ A rischio” e “ Al buio”), che ha come protagonista un detective di colore, ma di origini italiane. I toni sono più cupi, ma la storia galoppa ad alta velocità e ha la caratteristica di essere narrata al presente in terza persona, quasi fosse una sceneggiatura. E guarda caso entrambi i romanzi sono stati tradotti in film per la TV con Daniel Sunjata e Andie MacDowell (in entrambi la stessa Cornwell è apparsa nel ruolo di una cameriera), anche se la storia di questi ultimi ha delle differenze rispetto ai primi e il finale è diverso.
Non ho avuto invece modo di leggere alcuna delle sue opere di non-fiction, come per esempio quella su Jack Lo Squartatore, perché non mi interessano particolarmente o per niente (specialmente i libro di ricette della Scarpetta!).
Comunque sia, posso tranquillamente dire che Patricia Cornwell è uno dei miei autori preferiti, e soprattutto uno dei pochissimi di cui compro sempre il libro cartaceo. Sono affascinata dal suo modo di scrivere tanto che da qualche tempo a questa parte ho deciso di non acquistare le edizioni in italiano (anche perché nelle ultime che avevo letto la qualità della traduzione era diminuita drasticamente, con un’imbarazzante carenza di congiuntivi) e di leggerla in lingua originale. Però, da sua ammiratrice, sia come lettrice che come autrice di crime thriller (come la trilogia del detective Eric Shaw, in cui ho preso in prestito l’espediente del blog all’interno del romanzo, che viene usato ne “ L’isola dei cani”), mi auguro che riesca a svincolarsi (editore permettendo) di nuovo dalle grinfie della Scarpetta (non sarà il caso che vada in pensione?) e che ci mostri presto la propria bravura con nuove storie e nuovi personaggi.
Di Carla (del 27/07/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3453 volte)
     Terrificante, angosciante, geniale
Questa recensione sarà breve. Mi vengono così, quando un libro mi piace tanto da non riuscire a trovargli difetti e allo stesso tempo quando a renderlo un buon libro sono pochi elementi orchestrati magistralmente. È il caso di questo romanzo abbastanza breve di Matheson. Esso racconta la vicenda singolare di un uomo che, a causa di una nube radioattiva, ha sviluppato una patologia che lo sto facendo rimpicciolire di tre millimetri al giorno.
La storia si svolge su due piani temporali che scorrono in parallelo. Uno narrato dal protagonista ormai piccolissimo e bloccato nel seminterrato di casa sua, dove deve lottare quotidianamente per procurarsi da mangiare e sopravvivere agli agguati di un ragno enorme (dal suo punto di vista). Nel secondo, invece, il personaggio ripercorre gli eventi che l’hanno portato da uomo normale a un essere tanto piccolo da non riuscire a uscire dal seminterrato.
Durante la lettura l’immedesimazione col protagonista è totale. La sua vergogna mentre diventa sempre più piccolo è anche del lettore, come pure il terrore che prova nel destreggiarsi nell’ambiente ostile del seminterrato che diventa ogni giorno più grande. Da una parte sei curioso di sapere come mai è finito là sotto e apparentemente a nessuno importi, dall’altra vuoi scoprire cosa accadrà quando arriverà il giorno in cui la sua altezza dovrebbe azzerarsi. E l’autore gioca bene le proprie carte, facendo accrescere la tensione al massimo per poi passare all’altro piano temporale, e quindi ripetere lo stesso crescendo.
E così, nell’andare avanti con la lettura, non hai mai idea di cosa potrà accadere nella pagina successiva e lo stesso finale, meraviglioso e geniale nella sua semplicità, ti lascia a bocca aperta.
Aggiungo inoltre che, nonostante si tratti di un libro con qualche decennio sulle spalle e di cui ho letto una traduzione non recentissima, sembra quasi contemporaneo. Non ho notato, né nel linguaggio né nel modo in cui si sviluppa la narrazione, alcuna ingenuità o altro aspetto che mi ricordasse la sua età. Ma ciò non mi stupisce più di tanto, poiché finora è stato quasi sempre così con i romanzi di Matheson.
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