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La fibra che inchioḍ l’assassino
Di Carla (del 29/07/2016 @ 09:30:00, in Scena del crimine, linkato 5812 volte)

Non esiste niente del genere. Mi riferisco al titolo di questo articolo. Nonostante quanto accade nella finzione, in cui capita spesso che la risoluzione di un caso sia affidata a una fibra, in genere unica e isolata, trovata sulla scena e sulla vittima (a Sara Sidle di “CSI” capita spesso; vedi foto), nella realtà tale fibra non servirebbe a dimostrare proprio un bel nulla.
È chiaro che certi materiali rilasciano delle fibre minuscole che, volendo, possono essere confrontate, per esempio, con i vestiti di un sospettato o con qualche altro oggetto di natura tessile che appartiene a quest’ultimo.
 
Tralasciamo completamente i soliti fantomatici database, come quello che in una delle ultime puntate di “Bones” che ho recentemente visto ricollegava una fibra sintetica al tappetino di un’auto lussuosa, che, come al solito, era un serie limitata, permettendo così di individuare il sospettato. Comunque, anche ammesso che il database esista (non ci credo), ho forti dubbi che una particolare fibra venga usata solo per il tappetino di un modello di auto (sappiamo bene che li fanno tutti in Cina, spesso nella stessa fabbrica da cui escono quelli della più economica delle utilitarie).
Torniamo, invece, al caso in cui il sospettato c’è già ed è quindi possibile effettuare un confronto. Ma, se anche tale confronto fosse positivo, che cosa dimostrerebbe? Nulla.
Fibre identiche si trovano in materiali molto diversi, inoltre la nostra fibra potrebbe trovarsi lì per via di una innocente contaminazione precedente all’omicidio oppure perché trasferita alla vittima in seguito a un suo precedente contatto con qualcuno totalmente estraneo ai fatti.
Per questo motivo le fibre sono soltanto delle prove a supporto, che quindi non aggiungono certezza.
 
Un discorso simile vale anche per i capelli. In questo caso magari il confronto può essere più utile, in quanto aiuta a restringere il campo. Se sull’arma del delitto, per esempio, è attorcigliato un lungo capello biondo e il sospettato ha dei lunghi capelli biondi che da un confronto risultano della stessa tonalità e hanno altre caratteristiche simili (come la grossezza o il fatto che il colore sia o meno naturale), esiste una certa probabilità che appartenga a quella persona, ma probabilità non è certezza e ciò la rende ancora una semplice prova a supporto.
La vera svolta si avrebbe se il capello in questione avesse ancora il bulbo pilifero da cui prelevare e quindi analizzare il DNA. Se non dovesse esistere un buon motivo, indipendente dall’omicidio, in grado di spiegare la presenza del capello incriminato sull’arma il sospettato si troverebbe in grossi guai.
 
© CBSUn altro tipo di prova che si può rinvenire sulla scena è l’impronta di una scarpa, magari insanguinata. Se è diversa da quella della scarpa della vittima, quasi certamente quell’impronta appartiene all’assassino o altra persona che si trovava con lui al momento dell’omicidio.
L’impronta può permettere ai criminologi di risalire al numero di scarpe e, se ha un disegno particolare, anche alla marca precisa (soprattutto se esistesse quel famoso database delle suole delle scarpe!). Ancora una volta può essere molto utile per un confronto. Resta il problema che, se non si tratta di scarpe uniche fatte su misura (al giorno d’oggi parecchio rare), anche questo tipo di prova non dà certezza, a meno che non si trovi una specifica corrispondenza riguardante l’usura della suola, dovuta al modo unico che ognuno di noi ha di camminare e che permette di consumare in maniera diversa alcune sue aree. In questo frangente il fattore tempo diventa essenziale, perché il logorio continua, se l’assassino seguita a portare quelle scarpe. Bisogna essere in grado di fare il confronto entro pochi giorni, al massimo un paio di settimane, altrimenti non sarà possibile trovare alcuna corrispondenza.
 
Analogamente alle impronte di scarpe, esistono altri tipi di segni caratteristici. Mettiamo il caso di un cacciavite usato per forzare una finestra. Di certo lascia un segno sull’infisso, che corrisponde alla sua forma. Se il cacciavite non è nuovo, con l’uso si è logorato, quindi l’impronta che si lascia dietro è unica. Come per le scarpe e per lo stesso motivo, il confronto, però, deve essere fatto nel più breve tempo possibile.
 
E se il cacciavite fosse l’arma del delitto?
Di certo ha lasciato sul corpo della vittima un’impronta, magari non distinguibile come sull’infisso, a meno che non abbia intaccato l’osso. Ritrovare un’arma simile a casa del sospettato e individuare su di essa delle tracce di sangue (che, come tutti sappiamo, è molto difficile da togliere, tanto da rimanere lì anche se non lo si vede a occhio nudo) potrebbe essere una prova schiacciante. Ancora di più se su di essa ci sono le sue impronte e lui non ha un alibi per l’ora del delitto. A meno che qualcuno non abbia deciso di incastrarlo, usando il suo cacciavite, cosa che nella finzione capita molto più spesso che nella realtà.
 
Per individuare l’arma del delitto abbiamo visto spesso i criminologi delle serie TV mettersi a infilzare omini di gelatina o carcasse di animali con gli oggetti ritrovati a casa del sospettato. Di solito questa dispendiosa pratica non porta a nulla, eccetto il raro caso che il sospettato sia stato incastrato.
Il vero colpevole, ovviamente, si libera dell’arma del delitto!
Ancora più dispendiosa è la pratica di infierire sui surrogati delle vittime con oggetti a caso che i protagonisti dei vari CSI piazzano su un tavolo e provano uno per uno. Lo scopo è perlomeno quello di capire che arma devono cercare. La possibilità di beccare quella giusta tra un numero quasi infinito di oggetti che lacerano la carne in maniera simile rasenta lo zero. Be’, in questo caso invece ecco che salta subito fuori un utensile strano (che fortuna!), che corrisponde alla perfezione alla forma della ferita. Di solito, quando accade, fornisce un’informazione preziosa, poiché un sospettato usa qualcosa del genere per lavoro o per hobby.
 
E poi ci sono i famosi traumi da corpo contundente.
La vittima è stata colpita in testa da un oggetto che potrebbe essere un martello, una mazza, una lampada, un trofeo o chissà cosa. L’impatto ha provocato un trauma peri-mortem (talvolta non immediatamente visibile, ma che appare sotto forma di ematoma dopo che il corpo viene tenuto nella cella frigorifera per alcune ore) e magari ha lasciato una bella impronta sulle ossa del cranio.
Ed ecco che i criminologi, con grande divertimento, infilano le tute e gli occhiali protettivi (quell’attrezzatura che non usano sulla scena del crimine; vedi foto sopra tratta da “CSI: NY”) e iniziano a prendere a mazzate dei poveri manichini, finché non trovano l’oggetto giusto.
Il meccanismo è identico al caso del cacciavite: se l’arma viene rinvenuta a casa del sospettato, qualcuno lo ha incastrato; se invece non si trova, loro riusciranno comunque a individuarla andando a tentativi tra migliaia di possibilità, sprecando senza ritegno pupazzi, gelatina e carcasse di maiale, e da lì scoveranno l’impensabile colpevole che usa lo stesso tipo di strumento per fare dell’innocente bricolage. Poi, analizzando la sua cassetta degli attrezzi, troveranno la spranga con lo stesso identico profilo, che sarà insanguinata oppure recentemente pulita con candeggina (a differenza dei restanti attrezzi che saranno a dir poco luridi).
 
Potrei andare avanti così all’infinito nel raccontarvi di tutte queste prove che sono il pane quotidiano dei criminologi della finzione e il cui rinvenimento è, di conseguenza, la base su cui poggiano le trame delle storie investigative incentrate sulla scienza forense.
Come autrice ne uso diverse pure io, soprattutto perché so che è quello che il lettore si aspetta di leggere. E poi, diciamocelo, è divertente utilizzarle! Però preferisco mettere in evidenza come la loro utilità sia limitata, sfruttandole spesso come elementi che supportano il processo dell’investigazione fatto di intuito e immaginazione, oppure che escludono alcuni scenari. Questo perché spesso tali prove sono più utili per escludere che per confermare.
 
Così, in “Sindrome”, un elemento interessante durante l’analisi delle scene di due omicidi è proprio la totale assenza di impronte di scarpe in un appartamento praticamente immacolato, dove giace un cadavere sporco e le cui suole presentano del terriccio. Una tale constatazione porta il detective Shaw e la sua squadra a ritenere che l’assassino abbia cancellato tali tracce o, ancora meglio, che la vittima non abbia mai camminato su quel pavimento, dove è stata semplicemente scaricata, perciò quella non è la scena primaria.
 
Ne “Il mentore”, invece, sfrutto il caso dell’ematoma che compare a scoppio ritardato (perché non visibile sul cadavere subito dopo la morte) e che rivela che la vittima è stata spinta con una scarpa il cui profilo appuntito ricorda la calzatura di una donna. Ciò porta gli investigatori a teorizzare che una donna sia l’assassina (o la complice dell’assassino) e spingerà la detective Leroux a porre determinate domande a un testimone oculare, che forse ha visto qualcuno lasciare la scena del crimine.
 
Il bello è che buona parte di tutto questo non l’ho imparato leggendo trattati di scienza forense, ma leggendo i romanzi di Patricia Cornwell, guardando i “CSI”, “Bones”, “NCIS”, “Body of Proof” e tanti altri. Tutti mezzi che, prendendo spunto dalla scienza per creare delle storie, oltre a divertire il proprio fruitore, nel loro piccolo di strumenti di intrattenimento, alla fine, arricchiscono in un certo senso quest’ultimo, lasciandolo con un po’ di conoscenza in più e, nel contempo, con una certa curiosità di acquisirne dell’altra.