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 Tramonto sull'Isola di San Pietro... di Carla
 

“Il fatto che le nostre specie sono nemiche non significa che anche tu e io dobbiamo esserlo.” Per caso

 

Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Carla (del 14/05/2014 @ 15:00:00, in Lettura, linkato 3160 volte)

 Affascinante, coinvolgente, amaro
 
Ammetto di essere affascinata dai libri che narrano di storie lontane da me, non solo dal punto di vista geografico, ma soprattutto da quello culturale. Questo romanzo di Tahmina Anam che racconta il Bangladesh degli anni ’80 (con qualche piccolo scorcio dei ’70) è uno di quei libri che finisce per attrarmi già dalla copertina e dalla promessa di una storia “esotica” che questa suggerisce. Solo durante la lettura ho scoperto che si trattava del secondo libro di una trilogia, ma si può apprezzare tranquillamente senza aver letto il precedente.
Come sempre, quando affronto tali storie, provo dei sentimenti contrastanti. C’è la tendenza a voler trovare al loro interno dei riferimenti che in qualche modo richiamino ciò che conosco. In questo senso mi sono subito immedesimata nel personaggio della protagonista, Maya, una donna moderna, vicina alla nostra idea occidentale di donna, nonostante venga raccontata in un Paese e in un tempo relativamente lontano (trent’anni sono tanti). Accanto a lei ci sono piccoli dettagli, come sua madre che guarda “Dallas” alla TV, esattamente come facevo io a quei tempi da bambina.
Il resto è per gran parte diverso, quasi alieno, a tratti inquietante. Il fratello diventato da ateo a fanatico religioso, dopo la guerra, chiusosi ostinatamente nel suo mondo arretrato, trascinandoci dentro suo figlio Zaid, fa arrabbiare. Il suo modo di essere sordo di fronte ai suoi cari sconvolge e incuriosisce, poiché porta a chiedersi perché sia diventato così e a voler trovare insieme alla protagonista ancora in lui un barlume dell’uomo che era stato prima. Il desiderio mai soddisfatto di comprendere cosa passi nella sua testa ci accompagna per gran parte del libro.
E poi ci sono le vicende personali e sentimentali di Maya che rappresentano alla fine l’unico aspetto confortante della storia una volta giunti alla sua conclusione.
Il tutto ci viene mostrato con una prosa evocativa e intensa, unita a un gioco di flashback che come le tessere di un puzzle ricostruiscono la storia di Maya e Soheil, sullo sfondo di un Paese lontano, difficile da comprendere e immaginare, in una realtà impietosa dove non c’è posto per un lieto fine, ma solo per la speranza.
Nonostante abbia letto questo libro con grande piacere, nonostante mi sia lasciata trasportare con estrema facilità dalle sue parole, e nonostante abbia deciso di dargli il massimo dei voti, di certo non leggerò quello precedente né il seguito. L’autrice è talmente brava nel farci vivere le sue storie che preferisco non andare avanti, poiché non riesco proprio a sopportare quel serpeggiante senso di amarezza che è rimasto in me nel leggerle.
 
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Questo libro è in lingua inglese!

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Di Carla (del 21/05/2014 @ 20:34:57, in Scrittura & pubblicazione, linkato 4571 volte)

Vent’anni fa Eric l’aveva salvata.
Adesso chi avrebbe salvato lui?

È con questo slogan che vi presento il mio nuovo romanzo, "Il mentore". Ambientato nella Londra odierna, questo crime thriller da una parte strizza l'occhio ai vari CSI e simili, di cui da amante delle serie TV praticamente mi nutro, e dall'altra invece si concentra più sui personaggi, detective e criminologi che di solito si occupano dei casi rimanendo sullo sfondo, che sul caso vero è proprio.
In realtà è tutto un gioco di inganni.
Il confine tra crimine e investigazione si confonde
, in una storia il cui scopo non è tanto scoprire il colpevole bensì osservare come il protagonista, il detective Eric Shaw, caposquadra della polizia scientifica di Scotland Yard, decide di reagire alla sua scoperta.

In una Londra in cui il bene e il male si confondono, il lettore non può immaginare dove la storia lo condurrà. Le informazioni a disposizione del lettore e del protagonista non corrispondono. Il lettore sa da subito chi è il colpevole, ma non la sua identità nella storia. Al contrario il protagonista ne conosce l'identità (e non la rivela), ma non è certo della sua colpevolezza. O è meglio dire che non vuole esserne certo.

Con un matrimonio fallito alle spalle per via della sua eccessiva dedizione al lavoro, Eric si trova di fronte a un dilemma.
Cosa viene prima: la giustizia o l'amore per i suoi cari?
E se la ricerca della giustizia a tutti i costi non fosse altro che un'ossessione nata per occupare quel vuoto che adesso qualcuno potrebbe colmare?

Le risposte, forse, le troverete ne "Il mentore", disponibile su Amazon a soli 2,99 euro.
L'ebook è senza DRM, quindi può essere convertito in tutti gli altri formati.

È inoltre disponibile anche su GiuntiSmashwords , Kobo, inMondadori, laFeltrinelliGoogle Play, iTunes, Nook (tramite l'app per Windows 8.1) e Tolino (tramite l'ereader).

In cartaceo il libro è disponibile a 7,99 euro su: Amazon e Giunti.

Ecco la descrizione del libro.

Il quasi cinquantenne detective a capo di una squadra scientifica di Scotland Yard, Eric Shaw, si trova a investigare insieme alla detective Miriam Leroux sulla morte di un pregiudicato, ucciso con due colpi di pistola: uno al collo, in uno stile simile a quello di una inusuale esecuzione, ma preceduto da uno all’inguine, che sembra avere una connotazione più personale.
La sua attenzione sul lavoro è, però, spesso distratta dalla presenza di una criminologa della sua squadra, Adele Pennington, oltre vent’anni più giovane di lui, per la quale si rende conto di avere un interesse extra-professionale, peraltro non ricambiato.
Nel frattempo i dettagli di un delitto molto simile vengono descritti in uno dei tanti blog anonimi sulla rete, della cui esistenza la polizia londinese è completamente all’oscuro. L’autrice del blog si firma col nome Mina, come una delle vittime di un caso di Shaw di molti anni prima.

Non vi resta che immergevi in una Londra di inizio estate, dove cadavere dopo cadavere si consumerà una vendetta vecchia di vent'anni.
Chi è il vero cattivo: il carnefice o la vittima?

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Di Carla (del 24/05/2014 @ 03:19:37, in Podcast, linkato 2491 volte)


Dopo ben sei mesi ce l'ho fatta: sono tornata a FantaScientificast. Nonostante vari problemi tecnici che hanno ritardato ulteriormente la mia partecipazione al podcast e i mille (esageriamo) impegni che mi hanno portato a girare (riesageriamo) mezza penisola (e considerando che vivo in Sardegna non è poco), sono tornata.

L'argomento è uno di quelli che non lasciano dubbio riguardo alla sua connotazione spirituale/religiosa: la vita post-fisica.
Questa nell'ambito della fantascienza può essere vista come una metafora del tema dell'immortalità dell'anima, caposaldo praticamente di tutte le religioni. La ricerca umana di una spiritualità nasce anche dal bisogno di capire cosa accade dopo la morte e, magari, di trovare il modo di sconfiggerla. Questo stesso desiderio si ritrova con diverse sfaccettature anche nella fantascienza.
E allora ho deciso di parlarne insieme a Omar Serafini e Paolo Bianchi nell'episodio 38 di Fantascientificast, che trovate qui.

Potete ascoltarmi a partire dal minuto 40 (il mio intervento dura circa 19 minuti), ma vi consiglio di riprodurre dall'inizio questa la puntata che darà ampio spazio a Godzilla, in occasione dell'uscita del suo ennesimo remake (o reboot?).
Non voglio anticiparvi altro, ma come sempre fra qualche settimana il mio intervento nel podcast sarà seguito da uno (o più) post di approfondimento sul tema.

Intanto ascoltate la puntata facendo clic sull'immagine o su questo link. E ricordate, se volete, di lasciare il vostro commento sul blog del podcast e di condividere la puntata con i vostri amici.

Terminato l'ascolto, tornate sul sito del podcast, dove a fine post trovate i link di riferimento per scoprire di più sugli argomenti trattati.

Buon ascolto!

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Lo scorso 9 maggio ho partecipato in qualità di relatrice all’evento “Self-publishing: i sogni si pubblicano, non si chiudono nel cassetto” nell’ambito del Salone Internazionale del Libro di Torino 2014.
È stata un’esperienza molto interessante ed è un peccato che avessimo solo 50 minuti per l’evento, perché ci sarebbe stato da parlare per ore.
Insieme a me c’erano, oltre Alberto Grandi di Wired, che coordinava l’evento, Camille Mofidi e Diego Marano di Kobo, e Antonio Tombolini di Narcissus.
È stato molto bello conoscere tutti loro. Abbiamo avuto l’opportunità di scambiare quattro chiacchiere sia prima che dopo l’evento. Ma è stato molto piacevole ascoltarli e discutere con loro davanti al numeroso pubblico che ha affollato l’area Book To The Future del Salone.
 
Ho apprezzato particolarmente il discorso fatto da Antonio Tombolini su cosa significa essere self-publisher oggi e su come il self-publishing digitale non sia vanity press, ma anche il contributo di entrambi gli inviati di Kobo. Diego Marano, che è italiano, è manager per il Regno Unito di Kobo Writing Life, mentre Camille Mofidi è la manager europea sempre della piattaforma di self-publishing di Kobo. Diego Marano ha integrato il discorso di Tombolini, concentrandosi sul contributo di Kobo Writing Life nell’ambito del self-publishing, e Camille Mofidi ha riferito riguardo alla situazione a livello europeo. A questo proposito vi rimando a un articolo sull’evento di Equilibri Digitali che ne parla più diffusamente.
 
Per quanto mi riguarda, sono stata introdotta per prima da Alberto Grandi per parlare della mia esperienza con la pubblicazione della serie di “Deserto rosso” tra il 2012 e il 2013 e, successivamente, sono intervenuta in altre tre occasioni (incluse due domande a me rivolte dal pubblico). Probabilmente sono quella che ha parlato di più.
In questo post vorrei però fare alcune riflessioni su due argomenti emersi durante l’evento e che ritengo particolarmente significativi.
 
Il primo è venuto fuori in seguito a una domanda che è stata posta proprio a me, dopo che ho riferito di come io interagisco con i miei lettori tramite i social network e come questo sia alla base dei meccanismi di promozione di un self-publisher (e non solo).
L’insieme di questi metodi di promozione costituisce il self- branding, cioè il fare di sé un marchio autorevole. In questo contesto l’autore interagisce nella rete con i lettori o i possibili lettori, sfruttando le tematiche dei propri libri e qualunque aspetto a essi legato, come nel mio caso l’esplorazione di Marte e la stessa serialità della pubblicazione, che mi ha permesso di coinvolgere in parte le persone anche nella fase creativa.
In poche parole, l’autore deve sapersi “vendere”, esporsi in prima persona, interagire con persone competenti del proprio genere, deve essere egli stesso un personaggio, un marchio.
Ed ecco che mi è stato chiesto se non ci potrebbe essere il “rischio” che la gente compri i libri per via dell’autore e non per il loro valore intrinseco o del loro contenuto.
 
Ammetto che per mezzo secondo ho fissato la mia interlocutrice come se fosse una marziana (lei!). Il pensiero successivo è stato: e allora?
Ho cercato di spiegarle che fa tutto parte del gioco dell’essere un autore, che insomma il mondo gira così.
 
Ditemi voi. Qual è la differenza tra il self-branding e i grandi editori che spendono fior fior di quattrini in pubblicità, creando nel lettore la necessità di leggere un libro che poi magari non vale quanto viene pubblicizzato?
 
Se non altro, un lettore che interagisce con l’autore è in grado di valutare prima dell’acquisto se ha davanti a sé una persona di un qualche valore. Ne può apprezzare la competenza, le capacità scrittorie (l’autore interagisce scrivendo, per esempio, nel proprio blog, ma anche nei social), la sua disponibilità, il suo valore umano.
Mi sembra una motivazione migliore per comprare un libro rispetto al vederlo sbattuto davanti agli occhi ovunque.
È chiaro che, se poi il potenziale lettore non è interessato al contenuto, con tutta probabilità non comprerà comunque il libro, anzi è poco probabile, in primo luogo, che arrivi a interagire con l’autore, visto che non hanno gli stessi interessi.
In ogni caso non l’autore si può prescindere dal self-branding, che non basta, ma è un punto di partenza fondamentale.

Nella foto sopra: Antonio Tombolini, Alberto Grandi, io (!), Camille Mofidi e Diego Marano durante l'evento. Potete vedere altre foto qui.
 
Il self-branding è la versione dell’author-branding applicata al self-publisher. L’autore pubblicato da un editore, uno grosso ovviamente, può contare su una squadra di persone che si occupa della sua promozione e quindi dell’author-branding. Il self-publisher fa da sé.
 
Ma in realtà il self-branding ormai esiste in tutta l’editoria. Tutti gli autori sono tenuti a essere presenti in rete, a interagire, a farsi conoscere, a mostrarsi disponibili, simpatici. Nei casi di autori si può trattare di qualcuno pagato per impersonarli, ma il meccanismo è lo stesso.
Autori di fama mondiale come Patricia Cornwell pubblicano foto e post su Facebook, rispondono ai tweet su Twitter, uno per uno. Magari non a tutti, ma ci provano.
L’autore britannico Peter F. Hamilton, che è forse il più grande autore contemporaneo di fantascienza del suo Paese, tra le altre cose su Facebook risponde alle domande su dove acquistare certi suoi libri. Lo dico perché ha risposto a me e io ho seguito il suo suggerimento. Addirittura si è preso la briga di leggere tre miei articoli dedicati a una sua serie di libri, che avevo linkato sulla sua pagina Facebook, e di commentarli. E so per certo che li ha letti, visto che l’ha dimostrato col suo commento ben argomentato.
È normale che, se un giorno dovessi scegliere tra l’acquistare un suo libro e quello di un altro autore di fantascienza, mi sentirei più portata a prendere il suo. Ma è altrettanto chiaro che, se non mi piacesse come scrive o la fantascienza, non mi sognerei di spendere i miei soldi, fosse solo un euro, né impegnare il mio tempo (scrive dei tomi di 800 pagine) con i suoi libri solo perché è simpatico.
 
Il secondo argomento è stato in parte affrontato nella domanda posta da uno del pubblico a Tombolini e Marano. Ho poi avuto modo di parlarne diffusamente con una persona di Meetale.com con cui mi sono intrattenuta qualche tempo dopo l’evento.
Il quesito è questo.
 
Ma se abbiamo già i nostri lettori perché non vendiamo i libri direttamente a loro invece di passare attraverso i retailer che si prendono una fetta del prezzo del libro?
Non arriverà un momento in cui i self-publisher non avranno più bisogno di un distributore o addirittura di un retailer, visto che avranno già i loro lettori?
 
La risposta è no, perché nei grandi retailer ci sono i lettori. Lì i libri vengono categorizzati per genere, finiscono quindi nelle classifiche, dove i lettori, tantissimi lettori, li possono trovare.
Ciò che segue forse non è stato ben chiarito dagli altri relatori, sia perché il loro non è il punto di vista di un autore, sia perché il discorso interessa soprattutto il retailer per eccellenza: Amazon.
 
Lo zoccolo duro di lettori di un self-publisher fa sì che al lancio del libro questo salga in cima alle classifiche di genere, rendendolo visibile ad altri lettori. Questi, comprandolo in massa, lo tengono in alto e permettono che venga inserito in breve tempo nei suggerimenti della pagina del prodotto di libri simili.
Si crea quindi un circolo virtuoso che, per esistere, richiede due elementi essenziali: 1) i lettori fidelizzati che lo innescano; 2) il retailer con altri potenziali lettori che lo alimentano.
Il risultato è il successo (eventuale) del libro, che non dipende solo da quante copie si vendono, ma soprattutto dal fatto che il mondo là fuori ne abbia la prova, determinando di conseguenza la vendita di molte altre copie.
 
Nel mio piccolo, io cerco come posso di sfruttare questi semplici meccanismi.
Sono riuscita tramite il self-branding a creare un certo numero di lettori affezionati, molti dei quali sono diventati quasi degli amici, tanto è costante la nostra interazione. Queste stesse persone sono state essenziali nel lancio del mio ultimo libro, Il mentore, avvenuto lo scorso mercoledì (21 maggio 2014).
 
Qui c’è da fare una piccola premessa. Questo libro è un thriller, mentre i miei libri precedenti erano di fantascienza. Il target di lettori non è lo stesso, anche se in parte si può sovrapporre. Nell’editoria tradizionale non avrei mai potuto fare questo cambio di genere, a meno che non fossi stata già un’autrice molto famosa. Come self-publisher, invece, potevo, ma sapevo che avrei potuto perdere una parte dei miei lettori appassionati di fantascienza, che magari non leggono thriller.
Comunque sia, ho deciso di “rischiare” (si fa per dire).
 
In occasione del lancio, ho messo il libro in promozione a 99 centesimi per soli tre giorni (su Amazon), spingendo i miei lettori ad acquistarlo in massa in un breve lasso di tempo. Da una parte coloro che mi seguono con costanza sono stati premiati perché hanno avuto il libro a poco, dall’altra hanno ricambiato diffondendo la notizia e generando altre vendite esterne.
Così il libro nello stesso giorno di pubblicazione è entrato nella top 100 del Kindle Store e nella top 20 del genere thriller e ci è rimasto per i tre giorni successivi, incluso il primo in cui non era più presente la promozione.
Ora il prezzo del libro è salito a 2,69 euro. Questo prezzo è stato scelto perché è poco sopra la soglia di raddoppiamento della percentuale di diritti sulle vendite applicata da Amazon. Questo lo dico per spiegare che non ho alzato il prezzo perché voglio lucrare sui miei lettori, ma sto cercando di evitare che Amazon lucri eccessivamente su di me. Stiamo comunque parlando di una cifra irrisoria se paragonata a 9,99 euro dei romanzi appena usciti dei grossi editori, ma ancora molto bassa nei confronti dei 4,99 euro di quelli di editori più piccoli.
Ovviamente le vendite sono scese in numero e pure la posizione in classifica, ma intanto il libro è comparso nei suggerimenti di molti altri libri simili (e il loro numero cresce di continuo) e continua a vendere in maniera costante.
 
Cosa succederà adesso non so dirlo, ma niente di questo sarebbe potuto succedere, se non avessi creato un seguito di lettori grazie al self-branding e se non avessi potuto contare su un retailer in grado di mettere in evidenza i risultati dei miei sforzi di promozione.
 
Dovendo tirare le somme di questa esperienza al Salone Internazionale del Libro di Torino, possono affermare che è stato senza dubbio un evento di successo grazie al quale ho creato anche qualche interessante contatto.
Al di là dell’aspetto personale, credo poi che sia stato un ulteriore passo in avanti nell’affermazione di come il self-publishing, anche in Italia, sia un fenomeno in crescita sia a livello di numeri che soprattutto di qualità.
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Di Carla (del 28/05/2014 @ 06:26:51, in Lettura, linkato 3094 volte)

 Stava per osare, ma poi non ce l’ha fatta neanche stavolta
 
Ho letto quasi tutti i libri di Nick Hornby. Lo trovo per certi versi geniale. È capace di prendere dei personaggi (quasi) normali in ambientazioni comuni e tirarne fuori delle storie che non avresti ma in alcun modo pensato. La sua è una fantasia che si muove fuori dagli schemi. Le situazioni che racconta sono inusuali ma plausibili. I suoi personaggi sono vivi nella nostra mente. E tutti ci fanno ridere, talvolta fino alle lacrime, per le cose fanno o che dicono.
Anche in questo “Juliet, Naked” (Tutta un'altra musica) Hornby tira fuori il meglio di sé. Racconta la storia di una rockstar dimenticata e della compagna di uno dei suoi pochi inossidabili fan (che rasenta l’ossessione). Due personaggi lontanissimi, non solo geograficamente, che grazie a internet entrano in contatto.
Il personaggio dell’ex rocker Tucker è così ben costruito, con tanto di pagina di Wikipedia, che ti viene quasi il dubbio che sia esistito davvero un musicista famoso con quel nome negli anni ’80. Nonostante l’assurdità oggettiva della storia, dovuta a un eccesso di eventi e personaggi inusuali, la sospensione dell’incredulità è totale.
Eppure anche questo romanzo di Hornby, come quasi tutti, sembra perdersi nel finale. Dopo aver ecceduto senza farsi tanti scrupoli per tutto il libro, non riesce a osare nel chiuderlo. Diversamente da altri romanzi in cui è caduto in una conclusione buonista, dove i personaggi tornano alla normalità, dopo la follia della storia, qui l’autore si lascia andare a un finale aperto. Questo di per sé non sarebbe affatto male. Io adoro i finali aperti, il problema di questo è che però Hornby non prova neppure a dare una vera indicazione della direzione verso cui, verosimilmente, la situazione si evolverà. Eccetto forse ancora una volta la conclusione scontata, da nulla di fatto. E mi sorge di nuovo il dubbio che si ripresenta ogni volta: non sarà forse che l’autore non sapeva proprio come finirla questa storia?
 

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Quando l’amico e collega Francesco Zampa (autore della serie di gialli del Maresciallo Maggio) mi ha proposto di unirmi a lui per un evento sul self-publishing a Todi, non sapevo esattamente cosa attendermi. Reduce dalla partecipazione al Salone Internazionale del Libro di Torino, appena una settimana dopo, il 16 maggio, mi sono recata in Umbria per partecipare all’evento “Leggere e scrivere ai tempi di internet”, il secondo della rassegna “Lettura tra fruscio di carta, silenzio di bit e calore di voce” organizzata da Fabiola Bernardini insieme al Comune di Todi presso la Biblioteca Comunale nell’ambito della manifestazione “Il Maggio dei Libri”.
L’evento è stato moderato da Sonia Montegiove, giornalista ed esperta di web, che a ottobre era stata come me relatrice durante l’evento COM:UNI:CARE Live Conference all’Università di Salerno e che qualche mese fa mi aveva intervistato per Girl Geek Life.
 
Nell’atmosfera accogliente e intima della biblioteca ci siamo ritrovati a discutere di lettura digitale e di self-publishing di fronte a un pubblico interessato e attento, proprio perché conosceva poco dell’argomento.
Non sto a riassumervi tutto quello che è stato detto, anche perché lo spazio sul blog non me lo consente. Francesco Zampa ha già commentato l’evento su un bel post sul suo blog (che vi invito a leggere) aggiungendo a esso le proprie riflessioni.
Qui, invece, io vorrei proporvi le mie.
 
Ancora prima che l’evento iniziasse ufficialmente, ci siamo ritrovati a parlare con alcuni dei presenti a proposito di self-publishing e di come in questo modello editoriale verrebbe meno la cosiddetta funzione di “controllo di qualità” da parte dell’editore per quanto riguarda la correttezza della lingua.
Una persona del pubblico ha messo in evidenza come, quando uno legge un libro, dia per scontato che l’italiano in esso utilizzato sia corretto, tanto che la gente legge proprio per migliorare l’uso della propria lingua.
Se nel libro ci sono degli errori e il lettore non ha gli strumenti per accorgersene, c’è il rischio che questi li prenda come buoni e li faccia suoi. L’editore, in teoria, dovrebbe assicurare che tali errori siano assenti e, se il suo ruolo viene meno, questa certezza della correttezza del testo verrebbe quindi meno a sua volta.
 
Questo ragionamento apparentemente giusto presenta però a sua volta due errori di fondo.
Il primo è che nel caso di un self-publisher l’editore non esista. Il secondo è che gli editori tradizionali, inclusi quelli più grossi, pubblichino libri esenti da errori (e con questo termine non mi riferisco solo ai refusi, che sono fisiologici, ma alla grammatica e la sintassi).
Entrambe le affermazioni sono false.
 

Nella foto da sinistra verso destra: Sonia Montegiove, Francesco Zampa, io e... i nostri libri. Potete vedere altre foto qui.
 
Il self-publisher è un editore. Essere self-publisher significa coordinare la preparazione e pubblicazione dei propri libri, invece che quelli di altri autori. E uno dei compiti fondamentali del self-publisher in quanto editore è assicurarsi che questi siano esenti da errori, coinvolgendo nel proprio team editoriale delle persone competenti, né più né meno di come dovrebbe fare qualsiasi altro editore, incluso quello tradizionale, che si differenza dal primo in quanto possiede un’azienda e pubblica (anche) i libri degli altri. Quell’anche tra parentesi si riferisce a piccoli editori che, oltre a pubblicare libri degli altri, pubblicano i propri attraverso la propria azienda editoriale (casa editrice).
Il self-publisher che non si cura di questo aspetto è semplicemente un cattivo editore.
 
Ma i cattivi editori si trovano anche nell’editoria tradizionale, poiché di libri scritti in un italiano non corretto, vuoi per scelta stilistica (?), vuoi per incompetenza di autore, editor e correttori di bozze vari, ne è pieno il mercato. E non parlo solo di piccoli o medi editori. Ci sono libri di tutti grandissimi editori (non facciamo nomi, ma pensate a quello più grande) che sono scritti male, con espressioni palesemente tradotte alla lettera dalla lingua originale, che nella nostra significano poco o sono sbagliate, affetti da carenza cronica di congiuntivi, da virgole che separano soggetti e verbi, dal verbo piovere usato con l’ausiliare avere, da quantità impressionanti di refusi che vanno ben oltre il loro tasso fisiologico e da mille altri problemi.
Cosa succede al lettore sprovveduto che prende in mano questi libri, convinto che essi contengano il vero italiano, quello corretto?
Ve lo potete immaginare.
Se non altro, se questo prende in mano il testo di un self-publisher, parte dal presupposto (pregiudizio?) che il suo contenuto non vada preso per oro colato.
 
È quindi priva di vero fondamento l’accusa rivolta ai self-publisher di diffondere un italiano non corretto nei confronti dei lettori incapaci di rendersene conto, poiché tutti gli editori, grandi e piccoli, lo fanno di continuo. Forse l’hanno sempre fatto, ma lo fanno ancora di più adesso che tutto deve andare veloce proprio a discapito della qualità, poiché, essendo delle aziende nell’ambito di un mercato, quello editoriale italiano, tutt’altro che florido, ciò che per loro conta è prima di tutto il profitto. È normale, perché, se non producono profitto, falliscono.
 
Il self-publisher, al contrario, non ha l’assillo del profitto. Non ha velleità di campare esclusivamente di questo mestiere, anche perché in genere ha anche un altro lavoro (o comunque altra fonte di sostentamento), né tanto meno di far campare dei dipendenti con i profitti derivanti dai propri libri. Libero da questa esigenza, il self-publisher può pubblicare ciò che l’editoria tradizionale non pubblica, perché non appetibile per la grande massa dei lettori e quindi non in grado di generare un profitto sufficiente. Il self-publisher può rivolgersi alle nicchie di lettori (che tanto piccole non sono, perché comprendono migliaia di persone: un numero sufficiente per un self-publisher, ma non per tenere a galla un’azienda editoriale dalla struttura più complessa), a quelli che vogliono leggere qualcosa di diverso, alternativo. Il self-publisher può sperimentare, può passare da un genere all’altro (come sto facendo io con la pubblicazione de “Il mentore”, passando senza alcun timore dalla fantascienza al crime thriller). Può scrivere ciò che sente suo. Non ha nulla da perdere.
Il suo scopo primario non è il profitto, ma diffondere il proprio messaggio, in altre parole comunicare, senza filtri, senza controllo.
 
Una seconda riflessione che voglio fare riguarda l’evento in sé. Mi sono divertita davvero tanto, mentre vi partecipavo, più che in quelli precedenti, poiché l’atmosfera raccolta ha permesso di creare delle connessioni dirette con le persone del pubblico. Questo ascoltava in perfetto silenzio, attento, annuendo di tanto in tanto e reagendo spontaneamente con esclamazioni e commenti alle nostre parole.
In tale contesto ho ritrovato il piacere del contatto diretto con le persone, con un mondo diverso da quello distorto con cui noi autori ci misuriamo sui social network, tramite lo strumento che usiamo per scrivere, il computer, dove siamo circondati da altri scrittori, con tutte le loro fisime, le piccole invidie e le inutili fissazioni dei “nazisti” dello stile.
 
La gente comune non si interessa di queste cose. La gente comune, i lettori comuni, quelli che comprano i libri, vogliono che venga loro raccontata una bella storia. Loro ti ascoltano, mentre racconti la trama del tuo libro, quasi pendono dalle tue labbra, vogliono essere stupiti, sedotti dalle tue parole.
 
Quando ho accennato alla storia di Anna Persson (la protagonista di “Deserto rosso”) che decide di partire alla volta di Marte per colonizzarlo e non tornare mai più sulla Terra, il pubblico ha avuto delle reazioni di stupore. Hanno commentato con parole come “inquietante”. È bastato poco per trasmettere loro il senso di angoscia alla base della storia, prima ancora che aprissero il libro per leggerla, poiché loro, come tutti i lettori (me inclusa), non vogliono altro che trovarsi di fronte a una storia nuova e immedesimarsi nei personaggi, per vivere nell’arco di tempo della lettura una vita diversa dalla loro.
E sono queste stesse persone uno stimolo per l’autore a creare nuove storie. Per questa ragione è proprio tra la gente che l’autore dovrebbe cercare e trovare le idee, non solo quella con cui interagisce virtualmente, ma anche e soprattutto quella che ha modo di sperimentare di persona nella vita reale, utilizzando tutti i sensi.
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Di Carla (del 04/06/2014 @ 23:16:37, in Lettura, linkato 3758 volte)
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 Fantasia che potrebbe già essere realtà

È sempre più difficile recensire un libro di Michael Crichton, un po’ perché si rischia di ripetere sempre le stesse cose, un po’ perché ogni libro letto è uno in meno da leggere di questo compianto autore, nonostante continuino a uscire da chissà dove dei romanzi postumi.
“Next” è l’ultimo dei suoi romanzi pubblicato quando era ancora in vita e in esso si ritrova il tono di denuncia della sua opera precedente, “Stato di paura”. Al centro di tutto c’è la tematica scientifica dell’ingegneria genetica e di ciò che questa potrebbe portare in futuro, o anche solo già domani. Intorno a questo tema si muove un coro di personaggi, ognuno con la sua storia, un sottile filo conduttore li unisce, quello di una scienza in grado di modificare la natura a proprio uso e consumo. Accanto a tecnologie realmente esistenti Crichton pone altre che potrebbero esistere presto, o magari vengono già usate a nostra insaputa. Il confine tra le due è talmente difficile da discernere che nel leggere di oranghi parlanti o di tartarughe con loghi pubblicitari ci viene il dubbio che stia davvero accadendo, ci chiediamo cosa di tutto ciò sia veramente realizzabile con le attuali biotecnologie.
Se state cercando una lettura di puro intrattenimento, questo non è il libro per voi. Non lo è neppure se siete in cerca di grandi personaggi in cui immedesimarvi.
“Next” si legge per speculare sul futuro della scienza, e della legislazione a essa correlata, per imparare nuove nozioni e immaginare scenari affatto impossibili. Lo si chiude, alla fine, con la soddisfazione di esserne stati arricchiti e nel contempo con un senso di inquietudine, che nasce dal timore che ciò che abbiamo letto possa diventare reale e noi non potremmo far nulla per impedirlo.
 
 
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Avete letto bene il nome dell’autrice di questo post. Sono proprio io, Anna Persson. Sono riuscita a sgattaiolare da Twitter e insinuarmi nel blog della mia creatrice. E adesso sono qui che parlo con voi!
Spero che Carla non se la prenda (perché altrimenti chissà che mi fa capitare!), ma volevo festeggiare di persona (si fa per dire) questa ricorrenza. Sì, perché oggi è il secondo anniversario di “Deserto rosso.

Sono passati già due anni da quando la mia creatrice ha pubblicato il primo libro della serie “Deserto rosso - Punto di non ritorno”, abbandonandomi nel bel mezzo del deserto marziano col rischio di morire da un momento all’altro. E da quel giorno, il 7 giugno 2012, tanti di voi hanno letto la mia storia e hanno iniziato a viaggiare con me. Hanno vissuto con me e i miei amici (e nemici) quest’avventura tra il pianeta rosso e la nostra Terra. Insieme abbiamo combattuto contro una minaccia invisibile e siamo diventati parte di essa. Insieme ci siamo innamorati e abbiamo fatto innamorare. Insieme abbiamo fatto fuori un po’ di persone (pardon, personaggi). Alcuni se l’erano meritato, altri un po’ meno. Insieme abbiamo attraversato molti anni della mia vita da quel fatidico incontro a Bruxelles fino a quello a Londra, 18 anni dopo. Insieme abbiamo sognato, lottato, vinto e perso.
E siamo ancora qui, tanti. Voi siete tanti, perché “Deserto rosso” sta per raggiungere le 4000 copie vendute!
 
Grazie a questa serie di fantascienza la mia creatrice, Rita Carla Francesca Monticelli (dico tutti i nomi, perché ci tiene!), si è fatta conoscere un po’ nel panorama editoriale italiano. È stata indicata come una dei dieci migliori self-publisher italiani da Wired.it, è stata ospite del Salone Internazionale del Libro di Torino, ma soprattutto ha conosciuto voi, che avete condiviso il suo sogni, lettori, amici.
 
Ma il nostro viaggio non finisce qui.
In occasione del secondo anniversario, che è un po’ come se fosse il mio compleanno, Carla mi ha fatto due regali.
Il primo è il sito interamente dedicato a “Deserto rosso e il ciclo dell’Aurora”: www.desertorosso.net
Qui trovate raccolte tutte le informazioni sui libri della serie e su quelli del ciclo dell’Aurora che verranno pubblicati nei prossimi anni.
 
Dateci un’occhiata e subito noterete qualcosa di nuovo, nell’header. Oltre a me e i miei compagni d’avventura, c’è un nuovo personaggio. È questa tipa che vedete qui accanto.
Chi sarà mai?
Non posso svelarvi il suo nome, altrimenti la mia creatrice me la fa pagare (e sapete che ne è capace!), ma posso dirvi che si tratta della voce narrante de “L’isola di Gaia”, il prossimo libro del ciclo dell’Aurora che uscirà il 30 novembre 2014.
La sua identità fa parte del mistero di questo romanzo, che si inserisce nella stessa linea temporale di “Deserto rosso”, ma 35 anni dopo la sua fine. È una sorta di spin-off con nuovi personaggi, la cui storia però pian pianino mostrerà degli elementi che vi saranno familiari, per poi rivelarsi nel finale.
Ritroverete anche qualche vecchia conoscenza, anche se in brevi camei, ma la storia con un balzo in avanti nel tempo aprirà nuovi interessanti scenari, che poi si dipaneranno riunendo tutti i fili nei due libri successivi, “Ophir” (previsto per il 2016) e “Sirius” (previsto per il 2018), che cronologicamente però si inseriscono tra “Deserto rosso” e “L’isola di Gaia”.
Tutto questo in attesa del gran finale (quello vero), intitolato appunto “Aurora”, previsto per il 2020.
A quel punto dovrò dirvi addio, ma nel frattempo abbiamo ancora un bel po’ di strada da fare insieme.
 
Il secondo regalo che la mia creatrice mi sta facendo (manca poco) è la pubblicazione di “Deserto rosso” in inglese, col titolo “Red Desert”. Il primo libro “Point of No Return” uscirà il 30 giugno 2014. Gli altri seguiranno nei mesi successivi. Tutta la serie verrà pubblicata in meno di un anno.
In questo modo la mia storia potrà lasciare l’Italia ed essere conosciuta nel resto del mondo.
 
Prima che Carla si accorga di quello che sto facendo, concludo invitandomi a seguirmi su Twitter, dove spesso posto dei tweet sull’esplorazione di Marte, quella vera intendo, con informazioni sulle missioni della NASA, dell’ESA, dell’agenzia spaziale indiana che presto avrà una sonda in orbita intorno al pianeta rosso, su Mars One e altri progetti presenti e futuri di esplorazione e colonizzazione, e sulle attività di associazioni che promuovono questi progetti, come Mars Initiative, di cui la mia creatrice è rappresentante italiana, e la Mars Society (inclusa l’Italian Mars Society).
 
 
E ricordate: io so cosa devo fare.
E voi?

Be’, potreste farmi conoscere ai vostri amici e permettermi di vivere anche nei loro sogni.

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Di Carla (del 11/06/2014 @ 19:26:55, in Esplorazione spaziale, linkato 4006 volte)

L'associazione no-profit Mars Initiative, che si prefigge lo scopo di raccogliere dei fondi da dare al primo progetto che dimostrerà di essere in grado di portare l'Uomo su Marte, ha appena aperto un piccolo negozio di merchandising.

I prodotti a disposizione per ora sono t-shirt, felpe, borse e coprilattine. I prezzi partono da 16 dollari (20 dollari per la t-shirt, che sono meno di 15 euro) e i prodotti vengono inviati in tutto il mondo.

Acquistando uno di questi prodotti, il guadagno ricavato verrà devoluto al fondo di Mars Initiative. In pratica darete il vostro contributo a portare l'Uomo su Marte e in cambio riceverete uno di questi bellissimi prodotti, con cui potrete mostrare con orgoglio agli altri il vostro impegno per l'esplorazione spaziale e dare una mano a noi di Mars Initiative a diffondere il nostro impegno.

Per sapere di più su Mars Initiative visitate il sito ufficiale e leggete l'articolo in italiano in cui ve ne parlo.

Per acquistare questo bellissimo merchandising (nella foto è presente solo un esempio), visitate il negozio online ufficiale di Mars Initiative.

Ci vediamo su Marte!

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Di Carla (del 16/06/2014 @ 10:00:00, in Scena del crimine, linkato 13959 volte)
Copyright: Eagle Picture
A partire dal 2000, la prima stagione di CSI: Crime Scene Investigation ha debuttato in TV divenendo ben presto una delle serie di genere definito “procedurale”, cioè che segue le procedure di polizia, più popolare al mondo. Altre serie simili, a partire dai suoi spin-off (CSI:Miami e CSI:NY) per continuare con i vari NCIS, Bones e così via, hanno seguito le sue orme ripetendo quasi sempre gli stessi successi.
 
Esse hanno permesso di avvicinare il pubblico a un aspetto delle indagini sui crimini in precedenza poco conosciuto, benché nell’ambito della narrativa avesse già iniziato a ritagliarsi uno spazio importante (un esempio su tutti i romanzi della serie dell’anatomopatologa Kay Scarpetta scritti da Patricia Cornwell, sebbene la prospettiva fosse leggermente diversa), cioè quello del meticoloso lavoro della polizia scientifica basato sulle prove fisiche e la loro analisi, contrapposto alla classica investigazione fatta soprattutto di intuito.
 
Il successo di queste serie ha, però, dato origine anche a un fenomeno che ha tuttora delle conseguenze negative nell’ambito delle vere scienze forensi, o meglio della loro applicazione in campo giuridico. Questo fenomeno viene chiamato “CSI Effect”, effetto CSI.
Esso è dovuto al fatto che ciò che queste serie raccontano è per buona parte finzione, per quanto ci sia una base di realtà. Il telespettatore (o il lettore nel caso dei romanzi), non esperto del campo, non è spesso in grado di distinguere la finzione dalla realtà e ciò genera delle aspettative nei confronti del lavoro della vera polizia scientifica, in rapporto a veri casi di crimini, tutt’altro che realistiche.
 
Nei vari CSI e simili, per esempio, si nota come tutti i casi vengano risolti grazie al ritrovamento di prove fisiche che risultano schiaccianti nel collegare un sospetto alla scena del crimine e quindi identificarlo come colpevole.
Al di là del fatto che nella realtà le prove fisiche veramente utilizzabili sono spesso molto poche e dalla difficile interpretazione, raramente si mette in evidenza come solo alcune di essere siano considerate dal punto di vista giuridico veramente rilevanti. Rientrano in questa categoria quelle che possono essere fatte risalire al 100%, o quasi, a un’unica persona. In altre parole le uniche prove fisiche veramente schiaccianti sono i riscontri del DNA (che ha una percentuale di errore praticamente pari a zero, a meno che non si abbia a che fare con gemelli omozigoti) e le care vecchie impronte digitali. Ma persino queste ultime hanno indotto a errori anche clamorosi, poiché la loro identificazione può presentare una percentuale di incertezza non del tutto trascurabile.
Aggiungiamo poi che trovare impronte digitali identificabili non è affatto così comune come sembra, mentre nella quasi totalità dei casi di DNA non vi è la minima traccia.
 
Tutte le altre prove fisiche spesso e volentieri non provano assolutamente nulla. Quando nelle serie TV vediamo i criminologi arrivare a un sospettato da una piccola fibra, grazie anche al supporto di un fantomatico (e anche un po’ fantascientifico) database, e come ciò porti al suo arresto e presumibilmente alla sua condanna, be’, in quei casi è la finzione a prevalere.
Queste prove fisiche nella realtà possono essere fatte risalire a una certa persona con percentuali di probabilità molto basse, poiché ci sono tutta una serie di fattori per cui per esempio la fibra di cui dicevo prima può provenire dagli oggetti più disparati e soprattutto essere stata trasmessa del tutto per caso, attraverso una catena di individui, fino alla scena del crimine.
 
In altre parole nel mondo reale può accadere tranquillamente che, in un caso in cui c’è una marea di prove fisiche non rilevanti (quindi niente impronte e niente DNA), queste non siano affatto sufficienti a far condannare qualcuno. Al contrario può capitare che si arrivi a una condanna in base a tutta una serie di prove che non includono affatto prove fisiche.
 
Eppure chi guarda queste serie TV ha la falsa percezione che questo non possa e anzi non debba mai accadere.
Questa falsa percezione, che si chiama appunto “CSI Effect”, è l’origine di tanti pareri discordanti da parte dei media e dell’opinione pubblica riguardo a casi famosi, ma soprattutto pone un grosso rischio laddove la si trovi nelle figure di coloro che hanno il compito di giudicare nell’ambito di questi casi e siano nel contempo persone comuni. Sto parlando dei giurati.
 
I giurati sono persone che non sempre hanno la preparazione scientifica per comprendere veramente la scienza forense o le probabilità a essa correlate, e questo fatto ha portato in alcuni casi a degli errori giudiziari. È infatti capitato che innocenti venissero condannati perché i giurati avevano dato troppo peso a prove fisiche di bassa rilevanza, come appunto la classica fibra sul corpo della vittima che avesse vagamente a che vedere con il sospettato. In altri è accaduto l’esatto contrario e cioè che un colpevole venisse dichiarato innocente poiché non vi era alcuna prova fisica che desse la “certezza” del suo coinvolgimento, anche se vi erano mille altre prove o indizi che davano adito a ben pochi dubbi (come movente, opportunità e persino testimoni oculari).
 
Ho sentito parlare per la prima volta del “CSI Effect”, che è oggetto di studio già a partire dal 2006, durante il corso online di criminologia che ho seguito qualche tempo fa su FutureLearn.com, e mi sono resa conto che anche io non ne sono esente.
Sono una grande appassionata di queste serie TV (e anche dei romanzi della Cornwell) e, per quanto mi renda perfettamente conto che almeno il 60% di quello che vedo è totalmente irreale (avete presente l’identificazione del DNA fatta in cinque minuti?), sono stata portata spesso anche io a pensare che il lavoro della polizia scientifica fosse davvero centrale, anzi indispensabile nella risoluzione di un crimine (soprattutto negli omicidi).
 
Questo pensiero è talmente radicato nelle persone comuni appassionate di gialli e thriller che si aspettano di vederlo nei film, nelle serie TV e nei romanzi.
E noi autori di thriller finiamo per dar loro quello che vogliono, anche perché ciò che noi raccontiamo non è e non deve essere la realtà, ma è finzione. Non bisogna dimenticarlo.
C’è chi cerca di essere più realistico possibile e chi, invece, si allontana in maniera notevole da ciò che avviene nel mondo reale, ma praticamente tutti gli autori di questi generi piegano la realtà alle necessità della storia, affinché questa funzioni e si mantenga nel contempo la sospensione dell’incredulità, che spesso non ha nulla a che vedere con la realtà ma solo con la sua percezione. Anche perché, diciamocelo, raramente la realtà si adatta ai tempi e i modi di narrare delle storie, o comunque può a tratti risultare noiosa al lettore che ha delle aspettative ben precise all’interno di un genere. Persino quando si raccontano delle storie vere si finisce per romanzarle in modo che esse funzionino.
 
Ammetto di averlo fatto anch’io con “Il mentore”, anzi l’ho fatto in maniera molto marcata.
Nel romanzo di vero alla fine c’è solo Londra e le sue strade e qualche informazione generale sull’organizzazione delle forze di polizia. Per il resto mi sono presa un bel po’ di licenze.
Oltre a dare per scontato che gli impiegati della sezione scientifica di Scotland Yard siano di fatto dei poliziotti (nel Regno Unito c’è spesso una notevole separazione tra la polizia, gli investigatori che fanno i rilievi nelle scene del crimine e i tecnici che analizzano i reperti) e a mostrare una cooperazione continua e diretta tra questi e la squadra omicidi, espedienti entrambi essenziali per raccontare la storia nel modo in cui volevo (a questo proposito ho scritto una nota all’inizio del libro), nel romanzo si possono trovare evidenti tracce del “CSI Effect”.
In un’occasione per esempio il protagonista, il detective Eric Shaw, riesce a inchiodare il colpevole con prove fisiche tutt’altro che cristalline. In un’altra, al contrario, una miriade di indizi uniti all’assenza di un solido alibi non sembrano sufficienti a trattenere in custodia neanche per un minuto in più un sospettato, proprio perché non ci sono prove fisiche.
Tutto questo è stato fatto allo scopo di portare la storia in una certa direzione che nel mondo reale non si sarebbe mai presentata. Ma, ricordate, stiamo sempre parlando di finzione, quindi non solo potevo, anzi dovevo farlo. L’importante è farlo come si deve.
 
Qui mi sono divertita a rendere entrambe le situazioni del tutto plausibili, con spiegazioni che sono in linea con la sospensione dell’incredulità, tanto che, sebbene queste siano delle forzature, nessuno finora le ha percepite come tali, un po’ per il modo in cui le ho presentate, ma soprattutto perché qualsiasi lettore di thriller e gialli è a sua volta vittima del “CSI Effect”.
E, anche se ne è consapevole, in fondo, gli piace pensare che la giustizia sia fatta di bianco e nero, di prove schiaccianti senza le quali non si va in galera, che è più facile che il colpevole venga beccato piuttosto che un innocente paghi per un delitto che non ha commesso. Tutto questo è rassicurante nei confronti di un mondo reale fatto di statistiche incomprensibili, incertezze sulla colpevolezza, errori giudiziari, indagini approssimative e tanto altro, che non ci piace e di certo non ci diverte come invece riesce a fare la finzione. Il genere “crime fiction” in tutte le sue sfaccettature è e deve essere intrattenimento. La realtà la lasciamo, forse, ai documentari e ai saggi.
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