Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Nel precedente post di questa serie ( che trovate qui, mentre qui trovate il podcast) ho introdotto l’argomento della vita post-fisica nell’ambito della fantascienza, individuando i tre approcci con i quali viene rappresentata ( soft, intermedio e hard) e facendo degli esempi dei primi due.
Oggi, invece, voglio presentarvi alcuni esempi del cosiddetto approccio hard, che è tipico del cyberpunk e di tutta quella fantascienza in cui il ruolo della rete (comunque questa venga rappresentata) e della realtà virtuale è predominante.
Il cyberpunk a dire il vero nasce negli anni ’80, cioè prima di internet (che arriva per la prima volta al pubblico nel 1991), ma è proprio l’accesso alla rete e il concetto di realtà virtuale che hanno aggiunto a questo sottogenere della fantascienza la capacità di rappresentare la vita post-fisica. Ciò avviene grazie al presenza nelle storie di una qualche tecnologia in grado di digitalizzare la coscienza di un essere umano, dando l’illusione di renderla eterna, sconfiggendo così la morte.
Al di là del fatto che si stia sconfiggendo o meno la morte, se si accetta il concetto che un software creato come copia di una coscienza organica di fatto sia vivo (e ciò viene dato per scontato in questo tipo di storie), si può a tutti gli effetti parlare di vita post-fisica.
Visto il tema attualissimo, esistono numerosi esempi di questo tipo di approccio. Quelli che seguono riguardano alcune mie letture e un film visto di recente, ma ci si potrebbe scrivere un trattato sull’argomento.
In realtà ho già parlato di vita post-fisica in alcuni miei post (e podcast) precedenti dedicati al rapporto tra fantascienza e spiritualità.
Nell’ambito della Trilogia del Vuoto di Peter F. Hamilton ( trovate qui la serie di post a essa dedicati) abbiamo visto il cosiddetto ANA-Governo, dove ANA sta per Advanced Neural Activity. L’ANA altro non è che un’insieme di coscienze digitalizzate di tutti gli esseri umani che stanchi della vita fisica (la storia è ambientata nel 36esimo secolo dove la vita fisica può essere protratta in maniera pressoché indefinita), decidono di migrare verso la Terra per poi scaricare la propria coscienza digitalizzata nell’ANA, all’interno del quale possono comunicare tra di loro in una realtà virtuale, mentre, grazie alla rete e/o alla possibilità di scaricarsi temporaneamente in cloni o proiezioni solide, possono continuare a interagire col mondo fisico.
Nel franchise di Battlestar Galactica ( qui trovate il post a esso dedicato), invece, in particolare nello spin-off Caprica, abbiamo visto un tipo diverso di vita post-fisica. Zoe Greystone crea una sua copia virtuale grazie a un programma di sua invenzione che la genera tramite un processo di estrapolazione a partire da tutte le attività in rete dell’originale. Questa copia di Zoe non solo ha tutti i ricordi dell’originale, ma non si sente affatto una copia e, quando Zoe muore, viene considerata come una sua versione post-fisica.
Ma vediamo brevemente altri due esempi.
Criptosfera di Iain M. Banks è un romanzo cyberpunk in cui in un futuro lontano, dopo aver usato le 8 vite fisiche concesse, le coscienze digitalizzate passano a una vita post-fisica nella criptosfera (una realtà virtuale molto complessa) dove vengono loro concesse altre 8 vite digitali. Con la differenza che le coscienze digitali non invecchiano, ma possono comunque venire uccise in seguito a incidenti o ammazzate.
Transcendence è film recente con Johnny Depp in cui, nel tentativo di creare un’intelligenza artificiale forte, si arriva alla conclusione che l’unico modo per avere con certezza una IA che abbia una coscienza sia copiarne una esistente. Will Caster che sta per morire fa l’upload della sua coscienza (tramite un lungo processo spiegato in maniera pseudo-scientifica) creando una copia immortale di sé, che ha con sé tutto il bagaglio di esperienze e sentimenti dell’originale tanto da sentirsi come tale.
Un aspetto curioso di (quasi) tutte queste storie che parlano di coscienze virtuale è che si tende a considerare la copia digitale al pari dell’originale, come se la vera coscienza/anima sia passata alla realtà virtuale, in un processo paragonabile a quello dell’approccio soft (ascensione dell’anima). In verità non è affatto così.
L’originale muore e ciò che resta è sola una copia.
Raramente questo aspetto viene affrontato, perché chi interagisce con questa copia ha l’impressione, o preferisce illudersi, di farlo con l’originale. Difatti però la digitalizzazione della coscienza non sconfigge la morte, è solo un’illusione di sconfiggerla, perché l’originale non esiste più. L’originale muore comunque. Chi pensa di diventare immortale digitalizzando la propria coscienza sta solo creando un’altra forma di vita (non organica) con i suoi ricordi e il suo carattere, una sorta di gemello virtuale (che come tutti i gemelli è uguale ma comunque un’altra persona).
Chi avrà l’illusione di aver vinto la morte è solo la copia che, avendo i ricordi dell’originale, ha la percezione di essere passato da uno stato fisico a uno post-fisico. Ma niente del genere è avvenuto.
Se ci pensate, dall’idea originale di combattere le proprie paure nei confronti della morte si arriva al fatto che, pur morendo, nessuno ti piangerà, perché per gli altri tu non sarai morto.
Personalmente trovo tutto ciò abbastanza inquietante. Più che vittoria sulla morte questa è semplice negazione della morte. Sarebbe interessante vedere questo aspetto affrontato nella fantascienza. (Magari qualcuno mi sa suggerire qualche libro o film?)
Persino in Caprica, in cui il fatto che la Zoe digitale sia una copia è palese, essendo stata creata dall’originale e avendo convissuto con lei per un certo tempo, quando la vera Zoe muore, gli altri personaggi, pur essendo consapevoli della vera natura di quella virtuale, decidono di ignorare questo fatto.
Alla fine la digitalizzazione della coscienza appare un metodo per evitare di soffrire per la morte altrui piuttosto che evitare di temere per la propria morte.
Con queste considerazioni quasi filosofiche chiudo il post.
Nel prossimo, che sarà anche l’ultimo dedicato alla vita post-fisica ( lo trovate qui), riporterò altri due esempi di libri decisamente meno conosciuti rispetto a quelli della Trilogia del Vuoto, nei quali però riappare il ritorno dalla vita post-fisica a quella fisica. A partire da questo ultimo aspetto farò alcune considerazioni finali sulle similitudini e differenze fra l’argomento della vita post-fisica e un altro che compare per vie traverse nella fantascienza, cioè la reincarnazione.
Si chiama “ Ticket To Rise” la campagna di fund raising organizzata da Mars Initiative che, a fronte di una donazione a partire da 10 dollari, permette di partecipare all’estrazione di un biglietto per volare sul veicolo spaziale XCOR Lynx Mark II (vedi foto) che raggiungerà la quota di 100 km di altitudine, riconosciuta internazionalmente come il confine dello spazio.
Si tratta di un’occasione davvero unica!
Il vincitore farà parte delle prime 100 persone a sperimentare questo volo spaziale a bordo del veicolo della XCOR (maggiori info sul veicolo e il volo a qui www.spacexc.com). Viaggerà da solo insieme al pilota nella cabina di comando. Il valore del biglietto è di 100 mila dollari, ma chi verrà estratto volerà gratis e al suo ritorno potrà fregiarsi del titolo di astronauta.
Il pacchetto, oltre a includere il biglietto “founder”, comprende:
- lo stato esclusivo di “Founding Astronaut” di SXC;
- training sul simulatore a 4g;
- partecipazione al party di prima esibizione al pubblico o assegnamento del veicolo;
- video dell’intera esperienza.
- diritto di vantarsi per tutta la vita.
Durante il volo, inoltre, si sperimenterà l’assenza di gravità per circa 5-6 minuti.
Le donazioni partono da 10 dollari. Il proprio nominativo viene inserito nell’estrazione per un numero di volte pari a 5 per ogni dollaro donato.
Facendo una donazione a Mars Initiative si partecipa alla raccolta di fondi che verranno destinati al primo progetto di missione umana su Marte che dimostrerà di essere in fase di realizzazione. In pratica si contribuirà a mandare i primi uomini su Marte.
Allora, che aspettate?
Partecipate e, se sarete fortunati, andrete nello spazio!
Di Carla (del 14/07/2014 @ 20:18:26, in Lettura, linkato 2591 volte)
Tra fantasy e storia
Da buona appassionata di romanzi storici ambientati nell’antico Egitto non ho saputo resistere alla tentazione di leggere questo libro di un autore italiano che in questo genere si confronta con autori famosi quali Jacq e al pari di quest’ultimo mescola con efficacia i fatti storici reali con l’aspetto fantasioso della religione e magia del tempo.
Come ogni romanzo che cerca di racchiudere in sé gran parte della vita di un personaggio risente un po’ della sua struttura episodica. Vengono raccontati vari eventi, ognuno dei quali si conclude per dare spazio a sviluppi avvenuti in un periodo successivo. Per questo motivo al termine di ogni singola sfida che i protagonisti devono affrontare ci si può staccare dal libro senza grossi problemi. La narrazione è però così piacevole che si finisce poi per tornarci con la stessa facilità.
Gli eventi narrati vanno dall’arrivo di Archimede ad Alessandria fino alla sua “scomparsa” molti anni dopo a Siracusa, per la quale l’autore offre una spiegazione molto interessante.
Elemento centrale della storia, come si può desumere dal titolo, è la sua storia d’amore con la sacerdotessa Cleoth. Con delicatezza e sensibilità Bertoni ci racconta questo loro sentimento e le vicende cui esso li ha condotti, impreziosite da elementi fantasy che contribuiscono a dare a questo libro un alone di mistero in cui tutto è davvero possibile.
Accanto a esso c’è la storia, quella vera, e i racconti delle mirabolanti invenzioni di Archimede, genio del suo tempo, che vanno sapientemente ad arricchire il romanzo senza appesantirlo di nozioni e senza mai creare cali di tensione.
Insomma, un bel libro che vale molto più del prezzo irrisorio cui viene venduto.
Come di consueto rieccomi a trattare di questo argomento con un post di approfondimento.
La vita post-fisica nell’ambito della fantascienza può essere vista come una sorta di metafora dell’immortalità dell’anima, come viene intesa in campo religioso/spirituale. In un certo senso è un modo di rappresentare nella letteratura, ma anche nel cinema, in TV, nei fumetti e così via, l’ambizione umana di vincere la morte, o anche solo di ritardarla il più possibile. Lo stesso accade nelle religioni, che nascono dal desiderio di dare una risposta alle grandi domande della vita, tra cui “dove andiamo?”. Le religioni offrono spesso una risposta a questa domanda che implica l’esistenza di una vita dell’anima che continua dopo la morte del corpo.
Il pensiero della possibilità di una vita post-fisica, sia in campo religioso/spirituale che fantascientifico, è di conforto di fronte alla paura della morte, non solo per i credenti nella vita reale, ma anche (diciamocelo) per chi legge o guarda le storie di fantascienza (o per chi le crea), se non in senso assoluto, almeno nel momento in cui si immerge in quei mondi e perde il contatto con la realtà.
Nella fantascienza esistono diversi modi per rappresentare la vita post-fisica, che però possono essere riassunti in tre approcci da me definiti, rispettivamente, soft, hard e intermedio.
L’approccio soft si osserva in quelle storie in cui i personaggi, dopo la morte o per loro scelta a un certo punto della loro vita, “ascendono” a una vita di puro pensiero e possono riapparire nelle vicende sotto forma di fantasmi, emanazioni, apparizioni o simili. L’ascensione alla vita post-fisica porta a un’esistenza indefinita in una realtà alternativa (concetto che ricorda il paradiso). Questo passaggio non viene in alcun modo spiegato scientificamente e perciò l’approccio soft implica una forte deriva fantasy.
L’approccio hard, invece, si osserva tipicamente nel cyberpunk o comunque nella fantascienza che parla di realtà virtuale. In questo caso per forza di cose ci riferiamo a una fantascienza più recente, successiva all’avvento di internet o di poco precedente.
In queste storie la coscienza dei personaggi viene digitalizzata (e ciò rappresenta un tentativo di spiegazione scientifica) per crearne una versione virtuale che ha la percezione di essere l’essere umano (o alieno che sia) originale, sebbene non sia altro che una copia. Questa coscienza digitale copia di una reale (da ciò si differenzia dall’intelligenza artificiale che è, invece, creata ex-novo) è potenzialmente immortale, appunto come l’anima.
Sebbene qui si tenti di dare una spiegazione pseudoscientifica, a questa tipologia appartengono storie sia della fantascienza hard che di quella più o meno soft (come la space opera), ciò però non implica necessariamente una deriva fantasy.
Infine abbiamo l’approccio intermedio che è tipico di storie concepite prima della nascita di internet in cui si mescolano aspetti scientifici, o psedoscientifici, ad altri spirituali oppure addirittura onirici. Spesso il confine tra i due non è affatto definito.
E adesso veniamo a qualche esempio. In questo post mi limiterò a farne qualcuno sul primo e l’ultimo approccio, lasciando il secondo, ben più corposo, a uno nuovo che vi presenterò fra qualche giorno.
Rientra a pieno titolo nell’approccio soft la saga di Star Wars, soprattutto la vecchia trilogia che era caratterizzata da un alone fantasy. In quella nuova si è poi provato a dare delle spiegazioni pseudoscientifiche, anche se non particolarmente convincenti (e direi anche del tutto inutili). In particolare mi sto riferendo al fatto che alcuni Jedi, come Obi-Wan Kenobi o Anakin Skywalkerdopo la morte del corpo, riappaiono nella storia sotto forma di “fantasmi”. Addirittura in “Guerre Stellari” (come a noi fan sentimentali piace ancora chiamarlo), quando Obi-Wan Kenobi viene colpito a morte da Darth Vader, si smaterializza!
Un altro esempio di approccio soft è quello che si osserva nel franchise di Stargate SG-1. Qui si viene a sapere dell’esistenza di una razza aliena ormai “estinta”, cioè la razza degli Antichi, che non esiste più nello spazio tempo reale poiché è ascesa. L’ ascensione ha un ruolo importante nelle varie stagioni della serie e dei suoi spin-off, poiché a essa ambiscono altre razze, tra cui addirittura i replicanti di Stargate Atlantis, che però non potranno mai raggiungerla in quanto non sono degli esseri organici. In questo caso l’ascensione alla vita post-fisica non necessariamente segue la morte, ma è uno stato che gli individui, in particolari condizioni, possono raggiungere di propria volontà da vivi, in quanto considerato molto più desiderabile della stessa vita fisica.
L’esempio classico dell’approccio intermedio può essere riassunto con un nome: Philip K. Dick.
In “Ubik”, per esempio, Dick unisce l’elemento scientifico (la conservazione dei corpi dei morti che permette il mantenimento di una piccola attività cerebrale con modalità non del tutto spiegate) all’aspetto onirico e a una prima invenzione di una “realtà virtuale” (nel senso di opposta a quella reale) ben prima della nascita di internet.
Non voglio entrare nel dettaglio per evitare anticipazioni nei confronti di chi non l’avesse letto, ma già da queste poche informazioni si nota la presenza di elementi degli altri due approcci, in particolare di quello hard, con l’essenziale differenza che quando Dick scrisse questo libro non esisteva di certo internet né tanto meno il concetto di realtà virtuale. Si tratta di vere e proprie speculazioni scientifiche, fatte sulla base delle conoscenze del periodo, in cui, però, si potrebbe vedere addirittura qualcosa di profetico.
E qui mi fermo. Nel secondo post dedicato a questo tema, invece, mi soffermerò su degli esempi relativi all’approccio hard nella rappresentazione della vita post-fisica nella fantascienza ( lo trovate qui).
Di Carla (del 09/07/2014 @ 10:24:03, in Lettura, linkato 2750 volte)
Affascinante ma deludente
Sono sempre molto attratta da libri ambientati in luoghi lontani e i cui protagonisti vivono culture profondamente diverse dalla mia. Sono storie che aprono la mente, che ci insegnano a vedere il diverso e a rispettarlo, per quanto ci appaia estraneo e contrario al nostro modo di vedere, a ciò che noi consideriamo giusto. E, da donna, mi piacciono le storie di questo tipo raccontate dal punto di vista di una donna, che spesso mi portano a notare che, sebbene nelle differenze, esistono comunque dei punti in comune, che sono universali.
Con queste aspettative mi sono cimentata nella lettura di “An Unproductive Woman”. Dal titolo si può immaginare di cosa parli. È la storia di una donna che non riesce ad avere figli, ma è allo stesso tempo molto più complessa di così.
È ambientata in Senegal, in un contesto musulmano, con una figura di donna intesa come madre di figli e in situazioni di poligamia in cui spesso il marito è molto più vecchio delle sue mogli.
È già un argomento difficile da trattare per una donna occidentale, ma ha un suo fascino. È interessante apprendere il modo di pensare di queste donne per le quali è normale sposare un uomo ben più grande di loro, per le quali la presenza di altre mogli è qualcosa che può accadere, sebbene non vadano matte per l’idea, ma tendono comunque ad adattarvisi. È interessante vedere questo tipo di dinamiche familiari e tutti i problemi di gelosie, discussioni e litigi che vi si possono osservare.
C’è da specificare che non siamo di fronte a situazioni che implicano abusi. Le donne raccontate in questo romanzo sono donne libere di fare ciò che vogliono. Gli unici limiti che hanno sono quelli dettati dalla loro stessa mentalità.
Il libro è scritto molto bene, lo stile evocativo dell’autrice ti porta dentro la testa di queste donne e dei loro uomini.
Eppure non ne sono stata soddisfatta.
La trama abbastanza complessa aveva degli spunti interessanti. Adam dopo aver vissuto un lungo periodo in America dove aveva una moglie e un figlio maschio, torna in Senegal per “dovere”, perché la sua famiglia, che non sa nulla di questa moglie e questo figlio, vuole che lui prenda moglie nel suo Paese.
E lui lo fa. Per poi passare il resto della sua vita a pentirsi di aver perso quel figlio maschio. Sì, avete letto bene, il figlio maschio, non perché ha abbandonato la sua famiglia.
Il motivo del suo pentimento è soltanto che la sua nuova giovane moglie, Asabe, sembra non essere in grado di dargli alcun figlio, tanto meno maschio. In caso contrario appare evidente che mai si sarebbe pentito.
Mentre Adam si affanna a trovare una moglie capace di ciò, una serie di sfortune, morti, nascite di figlie femmine, malattie e così via gli impediscono di raggiungere questo sogno. Qui l’ironia della sorte, o il karma, o il suo stesso Dio lo stanno punendo per il suo comportamento. E questo è forse l’aspetto più equilibrato della storia.
Dal canto suo Asabe, che non sa nulla del suo passato, continua ad amarlo e subire quel suo desiderio che lei non può esaudire. Mentre il figlio perduto da adulto scopre che il padre lo cercava.
Tutto ciò ha le potenzialità di un grande dramma e, invece, si sgonfia in un insulso buonismo davvero difficile da mandare giù.
Non c’è vero pentimento laddove ci dovrebbe essere, e c’è perdono laddove pare del tutto impossibile che ci sia.
Onestamente non so se la storia possa essere realistica. Da occidentale non lo sembra, ma cercando di aprire la mente ad altre culture le concedo il beneficio del dubbio e dico che forse la sospensione dell’incredulità potrebbe aver retto.
Ma ciò non impedisce l’esistenza di due aspetti veramente deludenti.
Il primo è il tentativo di presentare una situazione controversa per poi farla piegare al conformismo dell’ambiente in cui si sviluppa. In tutto questo dov’è la crescita dei personaggi? Non c’è. Sono tutti statici, fermi sulle loro convinzioni o, peggio, invece finiscono per regredire. La riconciliazione è di una prevedibilità disarmante.
Nella vita reale sono convinta che succeda così, la gente per quieto vivere lascia correre, perdona, va avanti. Ma questa è finzione. Se nella finzione il conflitto non porta a una crescita e a una risoluzione inattesa, i fatti sono due: non funziona lasciando il lettore perplesso o semplicemente lo annoia poiché non offre nulla di nuovo.
L’altro aspetto che proprio non riesco ad accettare è questa immagine della donna che come unici pensieri ha fare figli, avere cura di loro, del marito, i loro sentimenti, i pettegolezzi, le gelosie... ecc... solo e unicamente queste cose. Nonostante il romanzo entri nel dettaglio in tutti questi aspetti, raccontandoci anche la quotidianità di queste donne, mai una volta che in loro riesca a trasparire un benché minimo interesse per un qualsiasi altro argomento. A parte forse Asabe che vediamo qualche volta curare il giardino (ma pare più che altro un aspetto di contorno), possibile che non abbiano altri interessi nella vita? E, badate bene, non parliamo di una famiglia che vive in condizioni di indigenza in cui le donne non si possono permettere “frivolezze” (ovviamente non sono veramente frivolezze, visto che gli interessi di una persona ne definiscono la sua essenza), tutt’altro. Adam è un imprenditore. Le sue mogli hanno tutto quello di cui hanno bisogno. Capisco che tradizionalmente si occupino di faccende “da donne”, okay, ma oltre a questo il nulla. O sono donne di una pochezza di spirito pazzesca (tutte?) o, come penso, l’autrice ha deciso di volerci mostrare dei personaggi la cui continua preoccupazione è quella di ottenere l’attenzione di un uomo codardo ed egoista. Sembra quasi che la sua sia una provocazione nei confronti del mondo occidentale in cui lei vive.
Niente mi convincerà che una cosa del genere possa essere realistica. E purtroppo, benché io possa apprezzare il suo intento, ne sono rimasta delusa, poiché, in poche parole, non me l’ha data a bere.
Questo libro è in lingua inglese!
Di Carla (del 02/07/2014 @ 01:09:19, in Lettura, linkato 4887 volte)
Quando la natura toglie il respiro
Un bel thriller pescato per caso dalla mia collezione di ebook. La storia è ambientata in una cittadina dell’Oklahoma che viene periodicamente colpita dai tornado. Dopo uno di essi particolarmente forte, lo sceriffo trova un’intera famiglia morta nella sua casa, all’apparenza uccisa dai detriti lanciati della forti raffiche di vento. Ma qualcosa non quadra.
E così che inizia una storia che parla di un impavido serial killer che uccide durante i tornado, sfruttando la forza della natura per non lasciare traccia.
Il romanzo è una sorta di incrocio tra un classico crime thriller e un techno-thriller alla Crichton (non a caso mi viene in mente “Twister”). Infatti alla suspense, gli omicidi e le indagini, si unisce una dettagliata spiegazione scientifica dei fenomeni meteorologici e del modo in cui vengono studiati, che mi ha reso la lettura del libro particolarmente interessante.
Unico neo è una certa prevedibilità riguardo all’identità dell’assassino. In realtà la Blanchard avrebbe anche giocato bene le sue carte, ma il suo compitino è troppo perfetto. Un esperto lettore di thriller non ha difficoltà a individuare l’unico personaggio che rientra nel profilo del serial killer, che rimane un po’ in disparte e sul quale non si hanno mai sospetti. Insomma ci si arriva per esclusione.
Per quanto mi riguarda, poi, non mi sono sentita eccessivamente coinvolta dai personaggi, ma ciò potrebbe essere dovuto a motivi miei di gradimento personale e non a un difetto del romanzo.
Le scene finali sono davvero emozionanti e qui l’autrice si fa perdonare. A un certo punto, quando tutte le carte sono scoperte, i protagonisti si trovano ad affrontare il più grande nemico che possano avere: la natura. E, per quanto mi aspettassi che tutto sarebbe andato bene, devo ammettere che mi pareva quasi di sentire il vento fischiarmi nelle orecchie.
Per vent’anni aveva atteso invano che venisse fatta giustizia.
Londra, 1994. Una bambina di sette anni è testimone del massacro della sua famiglia. Unica sopravvissuta, viene tratta in salvo dalla scena del crimine da un giovane criminologo, Eric Shaw.
Vent’anni dopo, nel giugno 2014, Eric, ora detective e a capo di una squadra della polizia scientifica di Scotland Yard, si trova a indagare su alcuni insoliti omicidi che gli riportano alla mente quel vecchio caso, indirizzando i suoi sospetti su una persona a lui molto cara.
Cosa era rimasto di quella bambina nella donna che portava ancora oggi quegli stessi occhi?
In un gioco d’inganni in cui le informazioni in possesso del lettore e del protagonista non corrispondono, verrai catapultato nella Londra dei nostri giorni e ti chiederai quale sia veramente il confine tra il bene e il male.
O l’ha già oltrepassato?
“Tu hai creato la nuova me.”
Da oggi “ Il mentore” è disponibile anche in edizione cartacea a soli 7,91 euro (268 pagine) su Amazon.
Conosci il detective Eric Shaw... e la sua allieva.
La Mars Society è un’associazione no-profit internazionale che si prefigge come scopo quello di promuovere l’esplorazione umana e la colonizzazione di Marte. Per raggiungere questo obiettivo la Mars Society promuove attività che portino a un vasto coinvolgimento del pubblico per instillare la visione della conquista del pianeta rosso. Essa inoltre sostiene programmi di esplorazione finanziati da governi e privati e cerca di coinvolgere medie e piccole imprese nella ricerca collegata all’esplorazione di Marte, in modo da permettere la creazione di una nuova economia basata sulla colonizzazione dello spazio.
L’associazione è stata fondata negli USA nel 1998 da Robert Zubrin e adesso conta sedi in numerosi Paesi del mondo. Tra questi c’è anche l’Italia, con la Italian Mars Society, fondata da Antonio Del Mastro, che ho avuto il piacere di intervistare.
Come è nata la Sua passione per Marte e come questa l’ha portata all’Italian Mars Society?
Come molte passioni è nata per caso quando più di dieci anni fa, navigando in internet, ho scoperto dell’esistenza della Mars Society fondata in Usa da Robert Zubrin. Mi sono accorto che non esisteva una sede italiana della Mar Society, mentre erano già presenti sedi in Francia, Germania, Regno Unito, Olanda, Austria. Così ho proposto la mia candidatura quale rappresentante italiano a Robert Zubrin. Dopo la verifica di alcuni requisiti la candidatura è stata accettata.
Oggi per me la Italian Mars Society è qualcosa di più di una passione, è un lavoro particolare che mi consente di venire a contatto con le tecnologie più avanzate e con tutti quelli che se ne occupano in tutte le parti del mondo. La Italian Mars Society mi consente anche di condurre una forma particolare di attività imprenditoriale basata sulla ricerca e la diffusione dei risultati in questo nascente settore della ricerca spaziale.
Quali sono i principali progetti portati avanti dall’Italian Mars Society negli anni passati per instillare nel pubblico la visione della conquista di Marte?
Il primo progetto di cui ci siamo occupati è stata la traduzione in Italiano del testo di Robert Zubrin “The case for Mars” ( la questione marte in Italiano). Poi abbiamo organizzato nel 2009 la prima conferenza europea della Mars Society a Bergamo. Sempre risalente al 2009 è la nascita del nostro progetto ERAS: www.erasproject.org
Parliamo del progetto ERAS. Di cosa si tratta?
Il progetto ERAS consiste nella costruzione di una stazione di simulazione marziana con annessi laboratori di ricerca e spazi per conferenze e divulgazione scientifica.
È il primo progetto con queste caratteristiche ad essere portato avanti in Italia ed, in tante sue componenti, è anche unico per l’intera Europa. ERAS sta infatti per European Mars Analog Station, in quanto per esso abbiamo individuato una serie di partner tecnologici e scientifici Europei di primo livello. Per le attività connesse alla ricerca biologica abbiamo anche stretto una collaborazione con un laboratorio specializzato della NASA. Una volta costruito, ERAS sarà un incubatore di innovazione non solo per lo specifico settore della ricerca spaziale ma anche per molti settori industriali come quello IT, delle telecomunicazioni, della robotica, dei materiali, dei dispositivi medici, etc.
In che modo una persona interessata potrebbe partecipare al progetto o comunque dare un suo contributo a esso?
Le persone che hanno una formazione scientifica possono dare un contributo diretto in alcune aree come la programmazione software, il design, la modellazione cad, lo studio delle applicazioni energetiche, la robotica, etc. Le persone con diversa formazione possono aiutarci semplicemente nella divulgazione del progetto e nella diffusione delle nostre idee. Chi vuole può anche iscriversi alla nostra associazione, per esserci più vicini anche con un piccolo contributo personale.
Nel sito dell’Italian Mars Society è riportata una selezioni di libri relativi a Marte in lingua italiana. Quale consiglierebbe a chi per la prima volta volesse avvicinarsi al pianeta rosso?
Direi senz’altro “La questione Marte” di Rober Zubrin. Per quanto sia un testo ormai datato dal punto di vista scientifico, in quanto è stato scritto negli anni Novanta,costituisce un’ottima introduzione al tema dell’esplorazione di Marte, soprattutto per far comprendere ai lettori come l’esplorazione di Marte sia una straordinaria occasione di crescita economica e sviluppo tecnologico per l’intero pianeta terra. Bisogna infatti ricordare ai nostri lettori che una delle ragioni di maggior interesse per spingerci ad andare su Marte è proprio quella di creare un meccanismo di sviluppo economico nuovo per l’intero nostro pianeta. Mi sembra che di questi tempi di profonde crisi economiche sia una cosa importante da sottolineare.
A partire dal 2000, la prima stagione di CSI: Crime Scene Investigation ha debuttato in TV divenendo ben presto una delle serie di genere definito “procedurale”, cioè che segue le procedure di polizia, più popolare al mondo. Altre serie simili, a partire dai suoi spin-off (CSI:Miami e CSI:NY) per continuare con i vari NCIS, Bones e così via, hanno seguito le sue orme ripetendo quasi sempre gli stessi successi.
Esse hanno permesso di avvicinare il pubblico a un aspetto delle indagini sui crimini in precedenza poco conosciuto, benché nell’ambito della narrativa avesse già iniziato a ritagliarsi uno spazio importante (un esempio su tutti i romanzi della serie dell’anatomopatologa Kay Scarpetta scritti da Patricia Cornwell, sebbene la prospettiva fosse leggermente diversa), cioè quello del meticoloso lavoro della polizia scientifica basato sulle prove fisiche e la loro analisi, contrapposto alla classica investigazione fatta soprattutto di intuito.
Il successo di queste serie ha, però, dato origine anche a un fenomeno che ha tuttora delle conseguenze negative nell’ambito delle vere scienze forensi, o meglio della loro applicazione in campo giuridico. Questo fenomeno viene chiamato “CSI Effect”, effetto CSI.
Esso è dovuto al fatto che ciò che queste serie raccontano è per buona parte finzione, per quanto ci sia una base di realtà. Il telespettatore (o il lettore nel caso dei romanzi), non esperto del campo, non è spesso in grado di distinguere la finzione dalla realtà e ciò genera delle aspettative nei confronti del lavoro della vera polizia scientifica, in rapporto a veri casi di crimini, tutt’altro che realistiche.
Nei vari CSI e simili, per esempio, si nota come tutti i casi vengano risolti grazie al ritrovamento di prove fisiche che risultano schiaccianti nel collegare un sospetto alla scena del crimine e quindi identificarlo come colpevole.
Al di là del fatto che nella realtà le prove fisiche veramente utilizzabili sono spesso molto poche e dalla difficile interpretazione, raramente si mette in evidenza come solo alcune di essere siano considerate dal punto di vista giuridico veramente rilevanti. Rientrano in questa categoria quelle che possono essere fatte risalire al 100%, o quasi, a un’unica persona. In altre parole le uniche prove fisiche veramente schiaccianti sono i riscontri del DNA (che ha una percentuale di errore praticamente pari a zero, a meno che non si abbia a che fare con gemelli omozigoti) e le care vecchie impronte digitali. Ma persino queste ultime hanno indotto a errori anche clamorosi, poiché la loro identificazione può presentare una percentuale di incertezza non del tutto trascurabile.
Aggiungiamo poi che trovare impronte digitali identificabili non è affatto così comune come sembra, mentre nella quasi totalità dei casi di DNA non vi è la minima traccia.
Tutte le altre prove fisiche spesso e volentieri non provano assolutamente nulla. Quando nelle serie TV vediamo i criminologi arrivare a un sospettato da una piccola fibra, grazie anche al supporto di un fantomatico (e anche un po’ fantascientifico) database, e come ciò porti al suo arresto e presumibilmente alla sua condanna, be’, in quei casi è la finzione a prevalere.
Queste prove fisiche nella realtà possono essere fatte risalire a una certa persona con percentuali di probabilità molto basse, poiché ci sono tutta una serie di fattori per cui per esempio la fibra di cui dicevo prima può provenire dagli oggetti più disparati e soprattutto essere stata trasmessa del tutto per caso, attraverso una catena di individui, fino alla scena del crimine.
In altre parole nel mondo reale può accadere tranquillamente che, in un caso in cui c’è una marea di prove fisiche non rilevanti (quindi niente impronte e niente DNA), queste non siano affatto sufficienti a far condannare qualcuno. Al contrario può capitare che si arrivi a una condanna in base a tutta una serie di prove che non includono affatto prove fisiche.
Eppure chi guarda queste serie TV ha la falsa percezione che questo non possa e anzi non debba mai accadere.
Questa falsa percezione, che si chiama appunto “CSI Effect”, è l’origine di tanti pareri discordanti da parte dei media e dell’opinione pubblica riguardo a casi famosi, ma soprattutto pone un grosso rischio laddove la si trovi nelle figure di coloro che hanno il compito di giudicare nell’ambito di questi casi e siano nel contempo persone comuni. Sto parlando dei giurati.
I giurati sono persone che non sempre hanno la preparazione scientifica per comprendere veramente la scienza forense o le probabilità a essa correlate, e questo fatto ha portato in alcuni casi a degli errori giudiziari. È infatti capitato che innocenti venissero condannati perché i giurati avevano dato troppo peso a prove fisiche di bassa rilevanza, come appunto la classica fibra sul corpo della vittima che avesse vagamente a che vedere con il sospettato. In altri è accaduto l’esatto contrario e cioè che un colpevole venisse dichiarato innocente poiché non vi era alcuna prova fisica che desse la “certezza” del suo coinvolgimento, anche se vi erano mille altre prove o indizi che davano adito a ben pochi dubbi (come movente, opportunità e persino testimoni oculari).
Ho sentito parlare per la prima volta del “ CSI Effect”, che è oggetto di studio già a partire dal 2006, durante il corso online di criminologia che ho seguito qualche tempo fa su FutureLearn.com, e mi sono resa conto che anche io non ne sono esente.
Sono una grande appassionata di queste serie TV (e anche dei romanzi della Cornwell) e, per quanto mi renda perfettamente conto che almeno il 60% di quello che vedo è totalmente irreale (avete presente l’identificazione del DNA fatta in cinque minuti?), sono stata portata spesso anche io a pensare che il lavoro della polizia scientifica fosse davvero centrale, anzi indispensabile nella risoluzione di un crimine (soprattutto negli omicidi).
Questo pensiero è talmente radicato nelle persone comuni appassionate di gialli e thriller che si aspettano di vederlo nei film, nelle serie TV e nei romanzi.
E noi autori di thriller finiamo per dar loro quello che vogliono, anche perché ciò che noi raccontiamo non è e non deve essere la realtà, ma è finzione. Non bisogna dimenticarlo.
C’è chi cerca di essere più realistico possibile e chi, invece, si allontana in maniera notevole da ciò che avviene nel mondo reale, ma praticamente tutti gli autori di questi generi piegano la realtà alle necessità della storia, affinché questa funzioni e si mantenga nel contempo la sospensione dell’incredulità, che spesso non ha nulla a che vedere con la realtà ma solo con la sua percezione. Anche perché, diciamocelo, raramente la realtà si adatta ai tempi e i modi di narrare delle storie, o comunque può a tratti risultare noiosa al lettore che ha delle aspettative ben precise all’interno di un genere. Persino quando si raccontano delle storie vere si finisce per romanzarle in modo che esse funzionino.
Ammetto di averlo fatto anch’io con “ Il mentore”, anzi l’ho fatto in maniera molto marcata.
Nel romanzo di vero alla fine c’è solo Londra e le sue strade e qualche informazione generale sull’organizzazione delle forze di polizia. Per il resto mi sono presa un bel po’ di licenze.
Oltre a dare per scontato che gli impiegati della sezione scientifica di Scotland Yard siano di fatto dei poliziotti (nel Regno Unito c’è spesso una notevole separazione tra la polizia, gli investigatori che fanno i rilievi nelle scene del crimine e i tecnici che analizzano i reperti) e a mostrare una cooperazione continua e diretta tra questi e la squadra omicidi, espedienti entrambi essenziali per raccontare la storia nel modo in cui volevo (a questo proposito ho scritto una nota all’inizio del libro), nel romanzo si possono trovare evidenti tracce del “CSI Effect”.
In un’occasione per esempio il protagonista, il detective Eric Shaw, riesce a inchiodare il colpevole con prove fisiche tutt’altro che cristalline. In un’altra, al contrario, una miriade di indizi uniti all’assenza di un solido alibi non sembrano sufficienti a trattenere in custodia neanche per un minuto in più un sospettato, proprio perché non ci sono prove fisiche.
Tutto questo è stato fatto allo scopo di portare la storia in una certa direzione che nel mondo reale non si sarebbe mai presentata. Ma, ricordate, stiamo sempre parlando di finzione, quindi non solo potevo, anzi dovevo farlo. L’importante è farlo come si deve.
Qui mi sono divertita a rendere entrambe le situazioni del tutto plausibili, con spiegazioni che sono in linea con la sospensione dell’incredulità, tanto che, sebbene queste siano delle forzature, nessuno finora le ha percepite come tali, un po’ per il modo in cui le ho presentate, ma soprattutto perché qualsiasi lettore di thriller e gialli è a sua volta vittima del “CSI Effect”.
E, anche se ne è consapevole, in fondo, gli piace pensare che la giustizia sia fatta di bianco e nero, di prove schiaccianti senza le quali non si va in galera, che è più facile che il colpevole venga beccato piuttosto che un innocente paghi per un delitto che non ha commesso. Tutto questo è rassicurante nei confronti di un mondo reale fatto di statistiche incomprensibili, incertezze sulla colpevolezza, errori giudiziari, indagini approssimative e tanto altro, che non ci piace e di certo non ci diverte come invece riesce a fare la finzione. Il genere “crime fiction” in tutte le sue sfaccettature è e deve essere intrattenimento. La realtà la lasciamo, forse, ai documentari e ai saggi.
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