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 I personaggi di "Deserto rosso"... di Carla
 

“Non avevo mai ucciso qualcuno prima d’oggi.”
Affinità d’intenti

 

Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Carla (del 27/07/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3048 volte)

 Terrificante, angosciante, geniale
 
Questa recensione sarà breve. Mi vengono così, quando un libro mi piace tanto da non riuscire a trovargli difetti e allo stesso tempo quando a renderlo un buon libro sono pochi elementi orchestrati magistralmente. È il caso di questo romanzo abbastanza breve di Matheson. Esso racconta la vicenda singolare di un uomo che, a causa di una nube radioattiva, ha sviluppato una patologia che lo sto facendo rimpicciolire di tre millimetri al giorno.
La storia si svolge su due piani temporali che scorrono in parallelo. Uno narrato dal protagonista ormai piccolissimo e bloccato nel seminterrato di casa sua, dove deve lottare quotidianamente per procurarsi da mangiare e sopravvivere agli agguati di un ragno enorme (dal suo punto di vista). Nel secondo, invece, il personaggio ripercorre gli eventi che l’hanno portato da uomo normale a un essere tanto piccolo da non riuscire a uscire dal seminterrato.
Durante la lettura l’immedesimazione col protagonista è totale. La sua vergogna mentre diventa sempre più piccolo è anche del lettore, come pure il terrore che prova nel destreggiarsi nell’ambiente ostile del seminterrato che diventa ogni giorno più grande. Da una parte sei curioso di sapere come mai è finito là sotto e apparentemente a nessuno importi, dall’altra vuoi scoprire cosa accadrà quando arriverà il giorno in cui la sua altezza dovrebbe azzerarsi. E l’autore gioca bene le proprie carte, facendo accrescere la tensione al massimo per poi passare all’altro piano temporale, e quindi ripetere lo stesso crescendo.
E così, nell’andare avanti con la lettura, non hai mai idea di cosa potrà accadere nella pagina successiva e lo stesso finale, meraviglioso e geniale nella sua semplicità, ti lascia a bocca aperta.
Aggiungo inoltre che, nonostante si tratti di un libro con qualche decennio sulle spalle e di cui ho letto una traduzione non recentissima, sembra quasi contemporaneo. Non ho notato, né nel linguaggio né nel modo in cui si sviluppa la narrazione, alcuna ingenuità o altro aspetto che mi ricordasse la sua età. Ma ciò non mi stupisce più di tanto, poiché finora è stato quasi sempre così con i romanzi di Matheson.
 
 
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Di Carla (del 18/07/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3755 volte)

 Ingenuo cliché
 
Dovrei dire che la recensione contiene qualche anticipazione sulla trama, ma in realtà quest’ultima è talmente scontata che non credo che sia necessario.
Partiamo dai pochi aspetti positivi del romanzo.
La prosa è sicuramente molto bella e pulita, ed è esaltata da una buona traduzione. L’autrice ha un’ottima gestione del punto di vista della protagonista e nel complesso il testo ti porta a una lettura veloce, anche se devo confessare che ho avuto fretta di finirlo pur di liberarmene al più presto.
Ma, nonostante le ottime doti tecniche, la storia è soltanto un ingenuo cliché.
L’inutile prologo fa capire subito come si svolgerà la storia e come finirà: anticipa la morte del bambino (cosa che poi effettivamente avviene a circa l’80% del romanzo), che lei è sola e che c’è qualcosa di strano che riguarda il marito.
Tutto il resto si chiarisce nei primi capitoli.
Jenny, la protagonista, è assolutamente non credibile. Quando mai una madre single, divorziata, che quindi ci è già passata, a New York (mica in un paesino di zotici), si fida subito del primo tipo che si interessa a lei? Anzi, dovrebbe dubitare di questo interesse subitaneo. Lui le chiede di sposarla dopo una settimana! Qualunque donna sarebbe scappata a gambe levate e una come lei, che ha due figlie, più veloce di qualunque altra. Questa poca credibilità la rende un personaggio fastidioso per la sua eccessiva stupidità, debolezza e per la totale mancanza di carattere.
Il fatto che la storia sia ambientata negli anni ’80 può giustificare la trama trita a ritrita (al tempo lo era un po’ meno), ma non la sua pessima esecuzione e i suoi personaggi bidimensionali.
Lui ha un’aria sinistra già da subito. Dopo aver letto il prologo, viene naturale dubitare subito di lui, tanto più per via del suo modo di essere invadente e prevaricante con una donna appena conosciuta e cui si interessa perché è quasi identica alla madre morta, altro motivo per cui qualunque persona sana di mente sarebbe fuggita subito da lui.
I tentativi dell’autrice di confondere la carte e far dubitare della protagonista falliscono miseramente. Non una volta è riuscita a sviarmi dalla convinzione, maturata dal primo momento che ho incontrato Erich nel primo capitolo, che ci fosse qualcosa di sbagliato in lui, che fosse lui la causa di tutto. L’inserimento tardivo di elementi di dubbio sembra un arrampicarsi sugli specchi e la tendenza della protagonista a dare credito a essi ne dà un’immagine ancora più stupida e debole.
Il finale è scontato. E come volete che finisca una storia del genere? Dai!
La citazione velata, ma neanche tanto, a Psycho avrà fatto rivoltare Hitchcock nella tomba.
Era la prima volta che leggevo un libro della Higgins Clark e, senza dubbio, sarà l’ultima.
 
Nella notte un grido su Amazon.it.
 
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Di Carla (del 13/07/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2504 volte)


 Realistico, inquietante, imprevedibile

Non è un caso che Marc Elsberg venga paragonato a Frank Schätzing. Questo suo romanzo è davvero un bellissimo techno-thriller europeo, che dà molti numeri alle opere dei colleghi d’oltreoceano. La storia di un blackout esteso per tutta Europa è particolarmente inquietante poiché gli scenari descritti sono molto realistici. Non si parla del futuro, ma di qualcosa che potrebbe accadere anche in questo momento. Siamo abituati a dare per scontata la disponibilità di corrente elettrica, ma cosa accadrebbe se questa venisse a mancare per giorni o settimane? Quali sarebbero le conseguenze? Ma, soprattutto, quale o chi ne potrebbe essere la causa?
Tutti questi aspetti vengono esplorati in “Blackout”.
La parte tecnica è molto accurata e interessante, segno che l’autore deve aver fatto grandi ricerche (sebbene lui stesso ammetta di essersi preso diverse licenze), ma, nonostante l’abbondanza di informazioni, non è mai noiosa.
Il romanzo può essere definito corale, in quanto in esso si muovono tanti personaggi, all’inizio apparentemente separati gli uni dagli altri, ma le cui vicende finiscono per convergere. E, anche se sono numerosi, Elsberg riesce a caratterizzarli bene. In particolare mi sono sentita coinvolta nelle peripezie di Piero, che è quello che potrebbe essere indicato come protagonista.
La scelta di dare il ruolo di eroe a un italiano è sorprendente, essendo stata fatta da un autore di lingua tedesca (ma di nazionalità austriaca). Anzi, praticamente tutti i personaggi più positivi del romanzo non sono tedeschi, mentre questi ultimi fanno spesso la figura di quelli che sbagliano (talvolta in maniera fraudolenta) o sono troppo rigidi nelle proprie posizioni e quindi incapaci di trovare reali soluzioni.
Ho letto un altro romanzo su un argomento simile, intitolato “Cyberstorm”, di Matthew Mather (autore canadese). Parlava del blocco di internet e del conseguente venir meno della fornitura di elettricità in una New York flagellata da una lunghissima tormenta di neve. Ma “Blackout” è, a mio parere, un’opera migliore poiché illustra uno scenario più realistico e soprattutto è un vero techno-thriller, in quando racconta il fenomeno del sabotaggio alla rete elettrica e di come tutti i cerchino di venirne a capo fino alla sua risoluzione. “Cyber Storm”, invece, si concentra sul dramma del protagonista che non ha idea di cosa stia accadendo e non ha nulla a che vedere con le investigazioni. Inoltre la tecnologia è solo accennata, facendo scivolare la trama nell’americanata post-apocalittica. Non c’è nulla da fare: in certi ambiti creativi gli europei hanno la capacità di uscire dai cliché, di pensare fuori dalle righe e di creare delle storie originali e dagli sviluppi imprevedibili. Mentre gli autori di oltreoceano tendono a ricadere su certi temi. Probabilmente è perché gli americani di fatto conoscono poco le altre culture (anche per motivi geografici) e finiscono per interpretare tutto attraverso la loro, mentre gli europei sono già di per sé un guazzabuglio di culture in continua interazione e che ricevono da sempre le conoscenze di quelle esterne, prendendo da ognuna diversi aspetti e creando così innumerevoli combinazioni originali.
È ottima persino la traduzione, cosa più unica che rara al giorno d’oggi. Dal tedesco in un certo senso è più facile ottenere un italiano perfetto, vista la notevole somiglianza a livello di sintassi. Comunque è bello leggere finalmente un libro in italiano che non sembra tradotto.
Lo stesso personaggio di Piero, un hacker di Milano, è credibile. Non ci sono le solite forzature che si vedono nelle opere di autori stranieri quando descrivono dei personaggi italiani.
Infine devo dire che, pur essendo un libro molto lungo, l’ho fatto fuori in pochi giorni. Non riuscivo a smettere e non vedevo l’ora di rimettermi a leggere.
Ho provato a pensare quale potesse essere un aspetto negativo di “Blackout”, in relazione ai miei gusti, ma in tutta onestà non ne ho trovato uno.

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Di Carla (del 08/07/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3245 volte)

 Geniale distopia d’altri tempi
 
Non vado matta per i romanzi distopici contemporanei, mentre mi ritrovo sempre più spesso ad apprezzare questo sottogenere della fantascienza quando si tratta di libri di qualche decennio fa, destinati a diventare dei classici. L’inevitabile anacronismo di certi elementi della trama dona a “Il sistema Dayworld” di Farmer un fascino particolare e un’originalità che stento a vedere nelle storie più recenti.
Nello specifico in questo romanzo si tratta l’argomento dell’animazione sospesa da un’angolatura diversa da quella per cui si presume che tale tecnologia del futuro debba essere usata: per combattere la sovrappopolazione. Siccome nel mondo ci sono troppe persone, si decide di far loro vivere un solo giorno alla settimana, riducendo a un settimo il numero degli individui attivi sul pianeta. Questa idea folle è alla base della storia di Jeff Caird, un “violagiorno”, cioè una persona che, invece di vivere un solo giorno alla settimana, li vive tutti, calandosi in sette identità diverse. E qui salta subito fuori un secondo elemento geniale: Caird ogni giorno cambia nome, vita, ma anche personalità. Ognuna delle sue sette versioni è un personaggio distinto, cosa che è evidente anche al lettore, e ha persino difficoltà a “connettersi” con le sue altre versioni.
Come se non bastasse avere un protagonista che vive sull’orlo della follia a causa delle presenza di ben sette personalità nella sua testa, Caird (e tutti gli altri) è un ribelle del sistema che finisce per ribellarsi a chi vuole rovesciare il sistema. E proprio per questo motivo rischia di essere ucciso, mettendo in luce che nessuna delle due parti è veramente “buona”.
La struttura del libro, in cui vediamo una dopo l’altra mostrarsi a noi tutte le declinazioni del protagonista, è un meccanismo perfetto, che riesce comunque a coinvolgere il lettore, nonostante i continui cambi di prospettiva.
Inoltre, anche se sono trascorsi più di trent’anni dalla pubblicazione di questo romanzo, esso regge bene il passaggio del tempo. Gli anacronismi non sono eccessivi e talvolta potrebbero anche essere visti come una naturale regressione.
Molto belle ed emozionanti le scene d’azione, totalmente imprevedibili gli sviluppi compreso il finale, che è impossibile da prevedere.
Nel complesso è davvero un bel libro, il primo di una trilogia che si prospetta molto godibile.
Ho, invece, qualche perplessità su alcune scelte di traduzione dell’edizione italiana. Il traduttore, per esempio, si sofferma a spiegare in una nota il significato di “immer” e di “pathos e bathos”, anche se nel testo originale non è specificato, ma non traduce Jacob e Israel in Giacobbe e Israele, quando viene citato un episodio biblico. Un altro aspetto che stona è la scelta di non localizzare le unità di misura. Ciò è problematico, visto che sono ampiamente utilizzate, quindi risulta quasi incomprensibile per chi non conosca la lunghezza dei piedi o delle iarde (stranamente tradotte con “yarde”!) avere una corretta impressione delle distanze, soprattutto nelle concitate scene d’azione nell’ultima parte del libro.
 
Il sistema Dayworld su Amazon.it.
 
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Di Carla (del 30/05/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2205 volte)

 Dolore, speranza e… Napoli
 
Leggere questo libro è stata un’esperienza particolare. Partivo dai ricordi di “Le parole confondono” in cui il personaggio di Francesco era secondario rispetto al protagonista, Andrea, ma era abbastanza tratteggiato da fornirmi un’immagine di lui, da conoscere alcuni aspetti della storia che avrei letto. Ma il Francesco raccontato da Andrea nel primo libro di questa serie era appunto filtrato dal suo punto di vista, dalle sue esperienze di vita e dalla sua morale ben più rigida. Ciò mi aveva dato un’idea del personaggio che era parziale e in parte distorta. In “Certe incertezze”, invece, ho avuto modo di conoscere Francesco dall’interno della sua anima, in tutti i suoi aspetti contradditori e controversi. Ciò che è apparso di fronte ai miei occhi è stata una persona reale con tutte le complessità e le sfumature di un vero essere umano.
Questa semplice consapevolezza mi ha permesso di apprezzare la bravura dell’autore che è riuscito a immedesimarsi in due personaggi così diversi dando la reale impressione che a narrare fossero due persone diverse. Gli eventi sono mostrati da una prospettiva diversa, i sentimenti sono diversi, il modo stesso con cui i personaggi parlano al lettore è diverso. Immagino che questa illusione abbia funzionato bene anche perché è passato del tempo tra la scrittura del primo e del secondo libro, durante il quale altre storie sono state create, un tempo in cui Giovanni Venturi è senza dubbio maturato, regalandoci un’opera che, nonostante la lunghezza, non annoia mai.
Se ne “Le parole confondono” il tema intorno cui girava la trama era l’amore in tutte le sue forme, grazie a una visione del mondo da parte di Andrea per certi versi intrinsecamente tesa versa un lieto fine, che poi è arrivato alla conclusione del libro, “Certe incertezze” è un racconto di dolore, dalle sue manifestazioni più semplici a quelle più tragiche. Ogni volta che la speranza sembra farsi strada nel rischiarare la vita di Francesco, nuovo dolore lo colpisce, lo piega. Ma lui resiste, diventa più forte, maturo, raccoglie gli insegnamenti che la vita gli impartisce e va avanti.
Pur non amando le storie tristi, per qualche strano motivo, nonostante gli eventi che Francesco ha dovuto affrontare, ho amato la sua storia, poiché ho amato Francesco, il suo essere incerto, confuso, arrabbiato, bugiardo, fragile dentro, e allora stesso tempo determinato, solido, sicuro, schietto, indisponente, forte fuori. Ho amato Francesco perché è palesemente umano, quasi un antieroe, proprio come ognuno di noi.
Ma questo romanzo, oltre a raccontare la storia di Francesco, è una dichiarazione d’amore dell’autore verso la sua Napoli, la cui presenza preponderante ne fa quasi un personaggio. Napoli non è solo il teatro di una parte delle vicende, quelle del passato, ma ne è anche fautrice. Circonda e forgia il protagonista, che la odia tanto da lasciarla dopo ciò che gli ha tolto eppure non può smettere di amarla per ciò che ancora riesce a dargli. E non sorprende il fatto che sia proprio Napoli il luogo e l’origine della sensazione di speranza con cui il romanzo si chiude e che mi ha fatto provare l’assoluta certezza che Francesco avrebbe preso in mano il proprio futuro per proiettarlo verso quell’esistenza felice che merita di raggiungere.
E tale certezza mi è bastata per chiudere il libro con un sorriso.

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Di Carla (del 21/05/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 4426 volte)
Cosa distingue la dedizione dell’ossessione?
 
Siamo nel giugno 2016 e sono passati ventuno mesi da quella fatidica notte di settembre del 2014 in cui Eric Shaw ha scoperto l’identità del serial killer soprannominato ‘morte nera’. Sospettava da tempo che si trattasse di lei, ma aveva deciso di non crederci, di guardare dall’altra parte e di seguire le tracce lasciate dalla sua allieva, che accusavano qualcun altro di quei crimini.
Da allora la vita del detective a capo di una delle squadre della sezione scientifica di Scotland Yard è stata resa ancora più complicata da una nuova consapevolezza: è connivente nei confronti dei terribili delitti di un’assassina.
 
 
Il rapporto tra il mentore e la sua allieva è il cuore della trilogia del detective Eric Shaw di cui “Sindrome” il secondo volume.
Su questo tema si innestano le investigazioni, svolte dal protagonista insieme alla detective Miriam Leroux della omicidi di Scotland Yard, alla criminologa Adele Pennington e al resto della sua squadra, su due nuovi casi che seminano morte nella Londra odierna. I cadaveri di due spacciatori di Islington vengono rivenuti in altrettanti appartamenti disabitati di Westminster. Nel frattempo un’infermiera dell’Ospedale St Nicholas accusa la madre di un piccolo paziente di causare volontariamente i peggioramenti del figlio.
 
Entrambi i casi finiscono per coinvolgere il protagonista ben oltre il suo ruolo di investigatore e mettere ancora più alla prova il suo senso morale, avvicinandolo sempre più pericolosamente a quel sottile limite che separa ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Ed Eric sa bene che, se mai dovesse oltrepassarlo, non potrebbe più tornare indietro.
 
Riuscirà Eric a scoprire l’identità di uno spietato assassino e a svelare chi sta giocando con la salute dei giovani pazienti dell’Ospedale St Nicholas di Londra, senza perdere del tutto il controllo sulla propria vita?
 
Per scoprirlo dovete leggere “Sindrome”, disponibile in ebook a 2,99 euro su Amazon, GiuntiGoogle Play, Kobo, iTunes, Mondadori Store, laFeltrinelli, Nook (tramite l’app di Windows), 24Symbols (gratuito per gli abbonati) e Smashwords e in edizione cartacea a 10,99 euro su Amazon e Giunti.
 
Ecco la descrizione del libro.
 
Mentre indaga sull’omicidio di due pregiudicati collegati a un noto trafficante di droga londinese, resosi protagonista di una spettacolare evasione dal cellulare che lo stava riportando al penitenziario di Coldingley dopo un’udienza in tribunale, la squadra scientifica di Scotland Yard diretta dal detective Eric Shaw si ritrova coinvolta nel caso di un’infermiera che accusa una madre di essere responsabile di una serie di violenti episodi febbrili che hanno colpito suo figlio Jimmy, di soli dieci anni. Quest’ultima si accanirebbe sul proprio bambino, peggiorandone le condizioni di salute, per attirare su di sé l’attenzione e la compassione del personale sanitario.
Eric ne viene a conoscenza casualmente, poiché la pediatra che ha in cura il piccolo paziente, Catherine Foulger, è una sua vecchia fiamma, che il detective ha ripreso a frequentare di recente nella speranza di rimettere ordine nella propria vita dopo aver scoperto l’identità del serial killer denominato ‘morte nera’.
Ma la sua ex-compagna Adele Pennington, criminologa del Laboratorio di Scienze Forensi, non ha affatto accettato di buon grado questa nuova relazione.
 
 
Come spiego anche nei ringraziamenti del libro, “Sindrome” non sarebbe dovuto esistere, poiché “Il mentore” era stato concepito come romanzo autoconclusivo. La prospettiva della pubblicazione in inglese mi ha spinto a pensare che il detective Shaw meritasse che il resto della sua storia venisse raccontata.
 
Essendo il secondo libro di una trilogia, è necessaria la lettura del primo per una completa comprensione della trama.
 “Il mentore”, che è un bestseller internazionale con oltre 165.000 lettori in tutto il mondo, è disponibile in ebook su Amazon, Giunti, Google Play, Kobo, iTunes, Mondadori Store, LaFeltrinelli, Nook (tramite l’app di Windows), 24Symbols (gratuito per gli abbonati) e Smashwords e in edizione cartacea su Amazon e Giunti.
 
 
E il detective Shaw e la sua allieva vi aspettano a Londra per farvi conoscere da vicino il male che alberga nell’animo delle persone.
 
Di Carla (del 18/05/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2419 volte)

 Un originale viaggio nella storia
 
Questo primo libro di quella che si prospetta una lunga saga è diverso da qualsiasi altra cosa da me letta in passato. L’elemento storico è preponderante, a esso però si aggiunge quello fantastico in una maniera a dir poco originale.
È senza dubbio ammirevole il lavoro di ricerca compiuto dall’autrice. La storia narrata è così approfondita e i dettagli così ben delineati che i periodi storici della narrazione si sono materializzati davanti ai miei occhi, man mano che procedevo con la lettura. A ciò si aggiunge una notevole complessità della trama. Sebbene si tratti solo della prima parte di una saga più ampia, l’autrice ha creato con maestria un preciso intrico di fili narrativi.
La scelta del narratore esterno in un reperto archeologico senziente (che è l’elemento fantastico di cui parlavo) è un buon escamotage, che ho apprezzato anche se in genere non sono una fan delle storie con un narratore esterno. Esso non può entrare nella mente dei personaggi umani e c’è un’oggettiva difficoltà nell’immedesimarsi in una tale entità non del tutto definita. Nonostante ciò sono riuscita a creare una buona empatia con i vari personaggi che si sono susseguiti lungo il romanzo. Peccato che l’effetto episodico me li abbia spesso fatti perdere per strada proprio quando mi stavo affezionando a loro.
Il filone narrativo che ho preferito è senza dubbio quello di Amberlee, proprio perché il punto di vista è il suo e quindi c’è l’introspezione di un personaggio cui ho potuto rapportarmi (un essere umano!). Nei pochi capitoli a lei dedicati si delinea una storia ricca di suspense e azione, e si intravedono grandi possibilità per il libro successivo.
Una particolare nota merita la prosa estremamente ricercata di quest’opera, fatta di periodi lunghi ben costruiti e termini non comuni usati sempre in maniera appropriata. Anche i dialoghi ambientati nel passato sono del tutto credibili, contribuendo all’illusione generale di vivere quel periodo storico.
Il romanzo termina con un cliffhanger, cosa che dal mio punto di vista è assolutamente positiva, poiché accresce in me la curiosità di leggere il seguito.
Gli unici aspetti che ho apprezzato meno, per un gusto personale, sono la presenza di troppi filoni narrativi indipendenti che si muovono in parallelo e la generale struttura episodica della storia dovuta ai salti temporali.
Per quanto riguarda il primo, il fatto che ci siano così tanti filoni mi ha portato quasi a dimenticare quello di Amberlee, cui avrei voluto venisse dato più spazio perché è il mio preferito e ha un taglio narrativo più moderno.
L’aspetto episodico, invece, tende a trasformare il romanzo in una successione di racconti, spesso dimenticabili (nel senso che non contribuiscono alla trama principale). Niente di sbagliato in questo, di per sé, anche perché le singole storie sono davvero molto belle, ma quello del racconto è un formato della narrativa che non amo particolarmente, poiché è troppo breve e non mi dà il tempo di creare un legame con i personaggi.
Comunque confido nel prossimo libro per un maggiore sviluppo della storia ambientata ai giorni nostri, anzi, lo attendo con trepidazione. Visto il modo in cui è strutturata, penso che questa saga potrà essere apprezzata ancora di più quando ci saranno più volumi a disposizione da leggere uno di seguito all’altro.

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Di Carla (del 17/05/2016 @ 01:05:06, in Lettura, linkato 2311 volte)

 Come una musica
 
Quest’ultimo romanzo di Francesco Zampa è un’opera matura e raffinata. Ambientato a pochi anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, racconta il viaggio compiuto da un giovane giornalista parigino, figlio di un’insegnante di ballo (ex-ballerina) ed ebreo, per fare chiarezza su un particolare episodio accaduto durante lo sbarco degli americani in Normandia e che in qualche modo finisce per intrecciarsi alla sua storia personale. Il tutto è mostrato a noi in un’opera a metà strada tra romanzo storico e di formazione, impreziosita dalla bella prosa di Zampa, che sa essere ricercata ma allo stesso tempo molto diretta ad arrivare all’animo del lettore.
La delicatezza con cui questa storia è narrata ne fa quasi una musica, come quella di Gershwin il cui brano “Someone To Watch Over Me” è citato nel titolo ed è collegato alla trama (ma preferisco non rivelare in che modo).
Ancora una volta, dopo “La scelta”, l’autore ci porta in un passato non tanto lontano e riesce a farlo rivivere in noi in maniera realistica, anche grazie a un’evidente lavoro grazia al quale riesce a mescolare eventi inventati e reali con grande maestria.
Si tratta di una lettura coinvolgente che, oltre a intrattenere con le vicende del giovane René, costituisce un’occasione per esplorare con un occhio diverso eventi storici che troppo spesso si conoscono in maniera superficiale.

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Di Carla (del 05/04/2016 @ 10:00:00, in Lettura, linkato 2899 volte)

 Space opera godibile ma cupa
 
Si tratta di un romanzo complesso e articolato di cui ho apprezzato molto certi aspetti. Uno di questi è il fatto che, nonostante i personaggi principali non siano pochi, l’autore è riuscito comunque ad approfondirli. È semplice creare un legame con uno di essi che permette di immergersi nella storia. Nel mio caso il personaggio con cui sono riuscita da subito a stabilire un legame è stato Dan Sylveste, forse perché è uno dei primi a fare la propria comparsa nel romanzo.
Molto bello anche il world building. Reynolds mostra di possedere un’enorme fantasia nel creare pianeti, società e alieni inimmaginabili, come i Giocolieri Mentali che, di fatto, sono degli oceani viventi. Pur creando dal nulla un universo complesso con pochissimi riferimenti alla nostra realtà, l’autore riesce comunque a renderlo credibile. Non si avverte il senso di distacco che si potrebbe rischiare di provare in questo tipo di storie. In questo senso è di notevole aiuto la bella prosa, coinvolgente e poetica.
Infine la storia si conclude con un finale aperto migliore rispetto a un altro suo libro che ho letto (Century Rain), poiché i personaggi principali hanno una crescita che si concretizza anche grazie al finale.
Vi sono però degli aspetti che mi hanno impedito di dare i pieni voti a questo libro.
Nell’immergersi nella lettura appare subito evidente che si presupponga una certa conoscenza da parte del lettore di alcuni aspetti della storia, dei nomi e dei personaggi stessi. All’inizio del libro c’è un glossario scritto a questo scopo, ma non si può veramente pensare che qualcuno si metta a leggerlo, e poi magari se ne ricordi, prima di iniziare la lettura del romanzo. Così si ha la costante impressione di leggere il secondo libro di una serie, in altre parole che manchi una parte della storia. Sarebbero servite maggiori spiegazioni all’interno del romanzo, laddove erano necessarie per favorire la comprensione del lettore.
Lo stesso finale aperto di cui parlavo prima, per quanto di per sé sia una risoluzione degli eventi ben congegnata, mi provoca comunque un senso di insoddisfazione che non riesco a decifrare, forse perché il ruolo di Sylveste alla fine non mi è piaciuto, in quanto subisce gli eventi, senza poter far nulla per alterarli.
A ciò si aggiunge una visione generale un po’ pessimistica del futuro, sia nelle immagini che nei toni, che non rientra affatto nelle mie corde.
 
Questa recensione si riferisce al libro in sé. Una nota a parte “merita” l’edizione.
Trovo incomprensibile la scelta di dividere il libro in due e pubblicarne le parti a distanza di ben tre mesi. Considerando che si tratta un prodotto di edicola, il prezzo complessivo dei due volumi insieme è troppo elevato rispetto alla qualità scadente dell’edizione, che è infestata, oltre che dai soliti refusi, da continui e ripetuti errori grammaticali, di sintassi e di traduzione. Inoltre, talvolta, la scelta del vocabolo errato in italiano tra due traduzioni possibili dello stesso in inglese dà luogo a passaggi involontariamente comici.
 
 
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Di Carla (del 18/02/2016 @ 03:19:00, in Lettura, linkato 2653 volte)

 Quasi vero
 
Nick Hornby è un autore cui tendo a ritornare ciclicamente, nonostante ogni volta che legga un suo libro rimanga in parte delusa dal finale, ma con il suo stile di scrittura, i suoi personaggi comuni e allo stesso tempo originali e le sue trame cariche di quell’assurdità tipica che si può osservare solo nella vita reale, in cui la realtà supera sempre la fantasia, riesce a incollarmi alle pagine del libro come pochi altri suoi colleghi. Alla fine apprezzo il tempo che trascorro nel leggere un suo romanzo più che il modo in cui la trama si sviluppa e si conclude.
Ma con “Funny Girl” mi ha davvero stupito.
Il modo con cui ci racconta lo storia della protagonista è una mescolanza perfetta di realtà e fantasia tra cui non è possibile scorgere il confine. Per tutta la durata del libro mi sono chiesta se si trattasse di una storia vera, ipotesi corroborata dalle numerose foto a corredo del testo.
L’illusione è alimentata dal fatto che questa viene a tratti illustrata a mo’ di resoconto, con la distanza tipica di un narratore esterno.
La credibilità della storia diventa così totale. Hornby abbandona le situazioni assurde e sopra le righe dei suoi libri precedenti, le stesse che poi deludevano con un finale non all’altezza delle sue trovate geniali, intessendo dall’inizio alla fine una trama equilibrata, divertente ma senza mai diventare comica o eccessiva, che ti lascia con un senso di appagamento e ti fa chiudere il libro con un sorriso.
Per quanto mi sforzi, non riesco proprio a trovare alcun difetto a questo libro.
 
 
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