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 Lago di Ledro... di Carla
 

“Quindi usavate queste capsule per andare a invadere altri pianeti.” Nave stellare Aurora

 

Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Carla (del 22/07/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1999 volte)

Le streghe e gli inquisitori sono tra noi?

Pur non essendo un’amante dell’urban fantasy, sono stata incuriosita dall’originalità della storia: questa presenta una realtà odierna in cui ci sono veramente le streghe ed esiste ancora l’Inquisizione, il tutto ambientato a Milano. A ciò si aggiunge la classica storia d’amore impossibile, stavolta proprio tra una strega e un inquisitore.
Devo dire che Sara Simoni, che qui è alla sua prima esperienza da self-publisher, se l’è cavata egregiamente su diversi fronti. La storia è godibile e si chiude con un finale aperto e non scontato, che allontana il romanzo dal genere puramente romantico, consolidando la propria posizione nell’ambito del fantasy, ma anche che ci fa capire come l’autrice ci abbia mostrato solo un piccolo scorcio di questo suo universo. La scrittura è molto pulita, ma allo stesso tempo caratterizzata da un registro ricercato e mai banale. Il ritmo è veloce, tanto che mi ha spinto a leggere il libro in pochi giorni, proprio perché mi chiedevo cosa sarebbe successo dopo. È inoltre evidente il lavoro di ricerca che mescola con sapienza elementi storici e altri inventati, in maniera tale da rendere invisibile a chi non è un esperto dell’argomento il sottile limite che li separa.
Infine l’edizione appare ben curata, ulteriore elemento di merito che mi ha spinto a dare il massimo dei voti a questo libro, nonostante la trama non sia del tutto nelle mie corde, come gusto personale.
Lo consiglio sicuramente agli amanti del genere che vogliano avventurarsi in qualcosa di diverso dal solito.

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Di Carla (del 13/06/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3144 volte)


 Trama interessante, ma esecuzione non convincente

Questo libro non decolla mai.
Parte con la classica scena di un certo genere di crime thriller narrata dal punto di vista della vittima, scena che sappiamo già come andrà a finire. La protagonista, Erika Foster, è una detective di origini slovacche, come l'autore, che è considerata molto brava nel suo lavoro, ma da poco ha perso il marito durante un'azione di polizia. Viene richiamata al lavoro per dirigere l'investigazione di questo caso per via della sua bravura, ma viene continuamente ostacolata dal proprio capo, che pare volere tutto tranne risolverlo (almeno fosse stato così... e invece si comporta semplicemente in maniera insensata). Erika, rientrando nel classico cliché di poliziotta rude e impulsiva a tutti i costi (caratteristiche che automaticamente renderebbero chiunque inadatto ad avere un ruolo di comando in polizia), disubbidisce al proprio capo, diventa aggressiva, si comporta un po' da matta e finisce anche per metterlo in imbarazzo, poiché sembra non avere altra ragione di vita se non risolvere il caso.
Onestamente ho trovato il comportamento di tutti i personaggi spesso artificioso, sopra le righe o poco logico.
Possibile che una bravissima detective che si ritrova un biglietto dell'assassino in tasca non si preoccupi di trovare delle cose fuori posto nel proprio appartamento? Astutissima, direi. Altro che Sherlock Holmes!
Il romanzo di tanto in tanto si allontana dalla protagonista, mostrando scene da punti di vista poco rilevanti. La stessa scena del climax non è dal punto di vista della Foster, che tra l'altro non aveva assolutamente capito chi fosse l'assassino finché non se l'era ritrovato di fronte a minacciarla.
Insomma, a parte una minima curiosità di capire l'identità dell'assassino, il romanzo non è riuscito a coinvolgermi.
L'edizione (ho letto quella originale in inglese), poi, lascia a desiderare, tra refusi involontariamente comici (il dessert diventa un deserto!), altri incomprensibili (lo stesso nome a distanza di poche parole scritto in due modi diversi), fastidiose ripetizioni e persino errori di formattazione.
Mi ha dato l'impressione del primo tentativo ingenuo di scrivere un thriller, ispirato magari dal cinema, più che una storia immaginata e strutturata per la parola scritta. Probabilmente lo stile dell'autore sarà migliorato nei libri successivi della serie, ma credo proprio che non lo scoprirò mai.

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Di Carla (del 16/05/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1649 volte)

 Sorprendentemente bello
 
Mi sono imbattuta in questo libro in un mercatino dell’usato. La copertina oggettivamente brutta, che ricorda quella di un manuale, mi stava quasi scoraggiando dall’acquisto, ma convinta dal prezzo irrisorio ho deciso di prenderlo. Nell’iniziare la lettura sono rimasta subito piacevolmente sorpresa dalla scena d’apertura caratterizzata da una certa azione, che ha vinto le mie ultime remore dovute ai numerosi errori del testo (tutte le “i” e le “u” sono accentate al contrario - cosa quasi incredibile, trattandosi di un libro della Fanucci, per quanto sia da edicola - e i refusi, le virgole che separano soggetto e verbo e altri errori si sprecano).
Nonostante il libro originale sia stato pubblicato nel 1990, il futuro in esso raccontato continua a essere abbastanza plausibile, sebbene si noti qualche anacronismo. Ma non sono poi così tanti.
La storia porta avanti in parallelo le vicende di alcuni personaggi, che poi finiscono per intrecciarsi in maniera inattesa. Ho subito legato col personaggio di Christopher, che per la notevole presenza in scena, e per il fatto che viene mostrata una sua approfondita introspezione psicologa, ha un ruolo molto simile a quello di protagonista.
La trama tratta dell’imminente lancio di una nave interstellare, la Memphis, con diecimila futuri coloni di un nuovo mondo, del metodo con cui vengono selezionati e del tentativo di boicottare questa missione da parte di un movimento contrario a essa, poiché i suoi sostenitori ritengono che si debba migliorare la situazione sulla Terra prima di andare in cerca di altri mondi e che, nello specifico, privare il nostro pianeta di alcune delle sue menti più brillanti sia sbagliato. La loro convinzione sfocia nel fanatismo fino al compimento atti di violenza, all’omicidio e porta persino al terrorismo.
Il modo in cui gli appartenenti a questi movimenti ragionano (si fa per dire) fa davvero paura. Ignoranza, follia e crudeltà li contraddistingue e pone delle riflessioni che possono essere tranquillamente applicate a certe uscite aggressive fatte al giorno d’oggi sui social network, quando si parla di colonizzazione di Marte o in generale di esplorazione spaziale. C’è da sentirsi sollevati del fatto che siano solo parole e che non ci sia nessuno, come il Jeremiah di questo romanzo, capace di fomentare tali persone, proprio perché non saprebbero andare oltre l’esibizione della propria ignoranza e lo sfogo delle proprie frustrazioni sul web.
Eppure nella lettura delle terribili azioni svolte dai seguaci di Jeremiah in questo romanzo, per quanto si trattasse di finzione, ho provato lo stesso disgusto velato di timore che certi commenti di questo tipo letti su Facebook riescono sempre più spesso a suscitare.
In tale contesto già di per sé interessante, si inseriscono una serie di personaggi estremamente controversi, come pure lo è per certi versi il tipo di società futura mostrata nel romanzo. Tra essi, per esempio, l’esistenza di matrimoni con più di due persone, spesso addirittura aperti, mi ha fatto storcere il naso, poiché nel modo in cui viene mostrato riduce il concetto stesso di matrimonio all’avere qualcuno per cui si prova attrazione fisica a disposizione nella stessa casa. L’argomento sembrava messo lì per evidenziare alcuni problemi personali di un personaggio, senza però godere di una propria credibilità. E alla fine sono stata contenta del modo in cui quel particolare aspetto si è risolto nella storia di quel personaggio (e devo dire che ciò ha contribuito al gradimento generale del libro).
Comunque, non voglio entrare nel dettaglio, poiché credo che meno si sappia sulla trama di questo libro più si abbia la possibilità di venirne positivamente sorpresi. Dico solo che si tratta di un romanzo complesso, ma talmente ben strutturato da non rendere necessaria una lunghezza eccessiva. Ciò probabilmente dipende dal fatto che la storia originale era quella di un vecchio racconto inedito dell’autore, che poi quest’ultimo ha ampliato, impedendo che esplodesse in mille direzioni, come invece capita quando si parte da un’idea non abbastanza definita. Ne è venuta fuori un’opera che unisce alla sintesi uno sviluppo soddisfacente dei filoni narrativi, impreziositi qua e là da colpi di scena e accelerazioni dell’azione del tutto imprevedibili.
Se amate la fantascienza hard in cui, però, non si trascuri l’introspezione dei personaggi, poiché svolge un ruolo fondamentale nella trama a pari merito con uno dei cosiddetti “grandi temi”, e doveste mai incappare in questo testo, non lasciatevelo sfuggire.
 
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Di Carla (del 09/05/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1952 volte)

 La tomba del re Tut
 
Sono passati oltre venticinque anni da quando mi capitò di leggere il saggio “Tutankhamen. Il faraone dimenticato” di Philipp Vandenberg e rimasi affascinata per la prima volta dalle scoperte archeologiche relative all’antico Egitto. Da allora mi sono interessata parecchio all’egittologia, per quanto solo in qualità di curiosa, e quindi adesso nel leggere questo romanzo breve di Isabel Giustiniani, che ripercorre la scoperta della tomba del re Tut, mi sono goduta una sorta di ripasso di un argomento che conoscevo bene, ma narrato in una chiave romanzata, cosa che permette di colmare le effettive conoscenze sull’operato di Howard Carter con la fantasia dell’autrice. Ne viene fuori un racconto scorrevole, che può rappresentare un’opportunità per venire a conoscenza di un evento storico di portata eccezionale attraverso il filtro di un personaggio immaginario (Na’im).
In realtà l’aspetto romanzato del libro è abbastanza marginale. I personaggi non sono approfonditi più del necessario, lasciando ampio spazio agli eventi storici, già di per sé talmente straordinari da non aver bisogno dell’aggiunta di troppa fantasia. Ciò fa sì che quest’ultima funga da guida, rendendo i fatti più fruibili a un lettore che ne sia interessato, ma che allo stesso tempo non ami i saggi.
Si osserva infine, in alcune scene, la comparsa di un fantomatico bracciale a forma di serpente. Il suo inserimento nella storia è così ben fatto da far quasi sorgere il dubbio che tale manufatto esista davvero. Non è così. Esso, invece, rappresenta l’unico elemento che determina la definizione di prequel data a questo libro. Di fatto, però, “La tomba del canarino” può essere letto come un libro autoconclusivo ed è un tipo di romanzo storico molto diverso da “L’ombra del Serpente”, in cui l’elemento fantasy ha un ruolo più predominante nella storia e quella dell’Egitto è solo una delle ambientazioni.
 
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Di Carla (del 02/05/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2160 volte)

 Un altro eroe imperfetto di Ludlum
 
Un grande autore come Ludlum aveva la capacità di addentrarsi in ambientazioni e storie completamente diverse, proponendo al contempo una sua versione di eroe “difettoso”, cui nell’arco del libro succedevano di tutti i colori e che rischiava più di una volta di morire, ma alla fine se la cavava, nonostante compiesse sempre numerosi passi falsi e si facesse un bel po’ male.
In questo caso si tratta di un insegnante universitario d’inglese, James Matlock, che si trova coinvolto nel tentativo di sgominare un’enorme organizzazione di traffico di droga, prostituzione e tanto altro che coinvolge numerosi atenei americani. Matlock non è uno sprovveduto. Ex-militare, è uno pieno di inventiva. Si ritrova però a combattere qualcosa di più grande di lui e nel farlo, in un’escalation di omicidi, inseguimenti, rapimenti, esplosioni e tanto altro, a un certo punto non saprà neanche quante sono le parti in gioco e se ne esista almeno una di cui possa fidarsi.
In questo libro Ludlum, come sempre, mostra una grandissima inventiva e la sua capacità di tenerti incollato alle pagine. Insieme a Matlock, il lettore cercherà di venire a capo di un’intricata rete di intrighi e, magari, di sopravvivere.
Nonostante si tratti di un libro scritto nel 1973, risulta molto attuale. Certo, non ci sono i cellulari, non c’è internet e tante altre tecnologie che possiamo trovare nei thriller d’azione di questi anni, ma la difficoltà creata dall’assenza di tali mezzi, con il protagonista che si vede costretto ad andare a caccia di cabine telefoniche (!), rende la lettura ancora più godibile e il senso di pericolo più realistico.
La traduzione del 1984 è ottima (a parte qualche virgola “all’inglese”), cosa che purtroppo non si osserva in quelle dello stesso autore, e di altri, fatte in tempi più recenti. Si nota il passaggio del tempo per via dell’uso di qualche termine non comune, che però conferisce al testo un aspetto ricercato, ricco, ed è in perfetta sintonia con l’ambientazione.
 
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Di Carla (del 25/04/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1976 volte)

 Insieme di cose già viste e colpi di scena telefonati
 
La mia opinione su questo libro è variata alcune volte durante la lettura. L’inizio non mi ha entusiasmato, ma circa a metà della storia mi sono trovata coinvolta in essa, per poi venire miseramente delusa alla fine.
Iniziamo dagli aspetti positivi.
Dugoni scrive bene, su questo non c’è dubbio. E la traduzione di Roberta Marasco, salvo qualche piccola imperfezione (un paio di virgole sbagliate, perché riportate tali e quali dall’inglese, e che avrebbero dovuto essere corrette da chi si è occupato della revisione), è ottima.
La storia è senza dubbio scorrevole, grazie anche alle ambientazioni suggestive che non possono non rimandare alle immagini uggiose di familiari paesini inquietanti dello stato di Washington visti al cinema o in tivù. Come dicevo prima, inoltre, intorno alla metà si fa interessante e ti viene la voglia di sapere come continua, poiché speri in qualche colpo di scena.
Purtroppo questa speranza viene disillusa.
Di fatto siamo di fronte a un insieme di cose già viste, a partire dalla ragazza scomparsa/uccisa nel paesino in cui non era mai successo nulla prima, a continuare col classico caso irrisolto vecchio di vent’anni e per finire con la bufera di neve che arriva proprio nel momento più drammatico della storia.
Il personaggio di Tracy, la protagonista, non è abbastanza approfondito e non sono riuscita a immedesimarmi in lei. Mi è piaciuto il personaggio di Dan, ma alla fine non ha così tanto spazio nella risoluzione della storia. È vittima degli eventi. Inoltre lo sviluppo sentimentale tra i due è scontato fin da subito e viene mostrato in maniera fredda, senza coinvolgere il lettore.
I flashback sono tristi e deprimenti, a volte non portano avanti la trama, sono lì solo come elemento drammatico.
La trama in sé è il problema principale del romanzo. Possibile che in vent’anni Tracy si sia concentrata su chi non potesse essere l’assassino della sorella e non su chi potesse esserlo?
Le motivazioni dei personaggi sono molto deboli, soprattutto di coloro che hanno mandato in prigione Edmund House. Il motivo per cui non l’hanno mai spiegato a Tracy, facendola dannare per vent’anni, non regge proprio.
L’autore non ci porta mai a pensare a chi possa essere l’assassino, tanto che a un certo punto ho sperato fosse uno dei personaggi comparsi per caso oppure insospettabili, ma purtroppo mi sbagliavo. In teoria la sua intenzione è suggerircene qualcuno attraverso il comportamento delle persone coinvolte nella manomissione delle prove, ma la loro motivazione per tale azione è evidente, quindi neanche per un istante ho pensato che uno di loro potesse aver ucciso Sarah. Solo nell’ultima parte Dugoni cerca di indirizzarci verso un personaggio in particolare, ma anche in questo caso è evidente che la teoria non regge, e alla fine dei giochi l’assassino è il più ovvio possibile.
E infatti per tutto il tempo mi sono stupita di come una detective della Omicidi di Seattle non riuscisse a vedere l’ovvio.
Di fronte a tutto ciò in pratica non ho rilevato alcun colpo di scena e in generale molti eventi che avrebbero dovuto stupire sono di fatto telefonati, poiché l’autore li anticipa o comunque li indirizza verso sviluppi scontati. Dal momento della “rivelazione” (ovvia) dell’identità dell’assassino ho saputo come sarebbe finita la storia, anche perché non c’era il minimo dubbio che Tracy si sarebbe salvata, essendo la protagonista e trattandosi del primo libro di una serie.
Infine, gli ultimi capitoli sono abbastanza inutili. Le scene in cui lei va trovare le persone in ospedale erano evitabili, idem si può dire per l’epilogo.
In poche parole mi spiace dover dire che, una volta capito che non presentava alcuna originalità né sorpresa, ho trovato nel complesso il romanzo abbastanza noioso.
 
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Di Carla (del 18/04/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1914 volte)

 Grande ricostruzione storica del maestro
 
Quella della grande rapina al treno del 1855 è una delle storie vere in cui la realtà supera la fantasia. il modo ingegnoso con cui la rapina è stata preparata, il suo sviluppo pieno di colpi di scena e il finale a sorpresa sembrano frutto della fantasia di qualcuno, e invece sono storia.
Crichton ha scritto questo libro a metà strada tra resoconto e romanzo, mescolando fatti desunti dalle sue ricerche con scene romanzate da lui create sulla base di tali fatti. Non c’è da stupirsi che ne sia stato tratto un film. Sembra concepito e scritto per il cinema!
Il lettore ha l’opportunità di calarsi nella Londra vittoriana e conoscerne usi e costumi, soprattutto della criminalità, a partire dal pittoresco gergo. Non si può non ridere in alcuni passaggi e si deve tifare per il ladro gentiluomo e i suoi compari. La lettura è avvincente per tutta la sua lunghezza, ma è il finale a essere davvero fantastico.
 
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Di Carla (del 11/04/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2288 volte)

 Stupisce senza essere credibile
 
Nonostante la valutazione positiva data complessivamente a questo romanzo, sono tanti gli aspetti che mi hanno lasciato perplessa.
La trama è quella del classico serial killer superefferato che per motivi imperscrutabili se la prende con le coppie, ma con la peculiarità di far scegliere a uno dei due chi deve morire, e finisce per iniziare un gioco perverso con la polizia.
Una delle prime cose che ho notato durante la lettura è la totale assenza di un riferimento geografico. Ho capito che era ambientato nel Regno Unito solo quando hanno parlato di sterline, ma per il resto ho avuto difficoltà a visualizzare un’ambientazione precisa. Questa cosa mi ha disorientato e ha dato da subito alla storia un senso di irrealtà.
A un certo punto ho intuito l’identità l’assassino, ma non tutta la sua complessa macchinazione e tuttora mi sfugge il senso di quest’ultima, poiché è autodistruttiva. Si ha l’impressione che il 50/50 Killer non avesse alcuna intenzione di farsi beccare, eppure finisce per fare a se stesso delle cose che gli avrebbero reso la vita più difficile in futuro, se fosse sfuggito alla polizia. Non capisco questo eccesso solo per mettere in atto un piano così complesso. Non capisco il suo dare una tale importanza a questo piano, nonostante le circostanze. L’autore non è riuscito a convincermi. Questo personaggio è così centrale nella storia che non mi accontento della follia come motivazione per le sue azioni.
Non mi ha convinto neppure il suo comportamento alla fine. È stato troppo facile batterlo e ciò mi ha dato ben poca soddisfazione. Mi è sembrata una soluzione escogitata con l’unico scopo di portare a compimento la storia, ma che manca di una propria logica intrinseca.
Non sono riuscita a legare in particolare con nessun personaggio, inclusa la voce narrante in prima persona (Mark, il giovane detective). Ho trovato l’interiorità di ognuno di essi poco convincente, anche perché supportata da una realtà esterna priva di riferimenti chiari.
In particolare ho trovato irritante il comportamento paranoico di Eileen (la moglie del capo di Mark). Non ne capivo la necessità, finché alla fine mi è stato chiaro che si trattava soltanto di un espediente per creare un colpo di scena. Anche in questo caso è assente una logica intrinseca o almeno non è stata mostrata a sufficienza nel testo da renderla credibile.
Ho odiato l’uso del nome all’inizio di ogni sezione del libro per indicare il personaggio del punto di vista. È assolutamente superfluo e di conseguenza fastidioso. Sembra che l’autore pensi che i lettori non siano in grado di desumerlo dal testo, il che è grave perché presuppone che ritenga il proprio testo non ben scritto o i lettori non abbastanza intelligenti (o entrambe le cose!).
Nel complesso ho trovato la storia deprimente e non solo per il fatto che inizia e finisce con un funerale.
Sono stata tentata di dargli solo tre stelle, ma alla fine sono salita a quattro, perché l’inganno del killer è davvero ben pensato e sviluppato e bisogna dare merito all’autore di una notevole originalità, non tanto nell’idea in sé, ma nel modo in cui è riuscito a metterla in atto.
Una nota sulla traduzione: perché chiamare il personaggio che dà il titolo al libro 50/50 Killer, all’inglese, invece che Killer 50/50, come sarebbe stato corretto in italiano? Mistero.
 
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Di Carla (del 04/04/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1915 volte)

 Cartoni cattivi
 
Su questo libro potrei ripetere più o meno quello che ho scritto sul precedente di questa serie, “Infect@”. Dovendomi concentrare sulle differenze, direi che ho trovato “Toxic@” molto più semplice da seguire. Non so se sia dovuto a un’evoluzione nello stile dell’autore o al fatto che avevo già assimilato l’ambientazione del primo libro. Di certo mi sono sentita più attratta nei confronti della sua lettura e curiosa di sapere cosa sarebbe successo dopo.
Rispetto alla storia di “Infect@” sono passati sette anni (se non erro) e la situazione di degrado dovuta ai cartoon, in questa Milano del futuro, è diventata critica. Un’ampia zona della città si è trasformata in una discarica del materiale derivato dai cartoni morti, che ha formato una melma immensa. In cielo “splende” anche di notte il Sole di Bart, ciò che resta di una versione gigante di Bart Simpson. E i cartoni, molto più cupi e minacciosi, sono il veicolo di una pericolosissima infezione chiamata il Morbo dei 30 Minuti.
C’è però una speranza: una Purga, che potrebbe eliminare di colpo tutti i cartoni. Una task force condotta dall’ex-commissario Montorsi deve piazzare quest’arma, ma il cattivo di turno, il Mescolatore, un serial killer che si diverte ad attaccare insieme pezzi di cadaveri umani e di cartoon, vuole fermarla. A ciò si aggiunge un terzo personaggio, quello di Cora, una cacciatrice di cartoon.
I tre filoni della storia si dipanano, per poi incrociarsi, in una lunga notte.
A costo di essere ripetitiva, devo affermare che, nonostante questo libro non rientri in alcun modo nel genere di romanzi che preferisco per una serie di motivi (per esempio, ambientazione deprimente e introspezione limitata dei singoli personaggi, dovuta in parte all’impronta corale data al libro, in cui la trama è più importante dei personaggi), sono stata ammaliata dalla scrittura di Tonani, evocativa ed efficace.
Una cosa che non sono riuscita a sentire (ma credo valga anche per il libro precedente) è la drammaticità. I personaggi, pur trovandosi in situazioni impossibili, mantengono dei toni ironici e persino sarcastici, dando un ulteriore senso di irrealtà all’ambientazione. Ma questo tutto sommato è un bene, poiché ne stempera la cupezza e rende la storia più godibile, proprio perché non si prende tanto sul serio.
 
Questo libro, purtroppo, essendo un prodotto da edicola, è quasi introvabile.
Potete trovare altri romanzi di Dario Tonani su Amazon.it e su Amazon.com.
 
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Di Carla (del 28/03/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2423 volte)

 L’erede di Bourne (e di Ludlum)
 
Il cambio di penna si nota eccome, nonostante ciò, devo dare merito a Van Lustbader di essersi impegnato per avvicinarsi a Ludlum in tanti piccoli dettagli (per esempio, l’uso di bestemmie, anche se non in maniera così eccessiva). Però la differenza c’è. La scrittura di Van Lustbader è molto più ordinata, ma priva di quella follia che Ludlum conferiva ai propri personaggi e che li rendeva fragili, fallibili e quindi umani. Questo nuovo Jason Bourne è molto più lucido e controllato. Si può prendere come pretesto il passaggio del tempo e una maggiore maturità del personaggio, che pare tenere sotto controllo la propria psicosi, ma ci sono degli aspetti che mancano al lettore abituato al protagonista della vecchia trilogia. Sebbene Bourne menzioni dell’esistenza di una doppia personalità dentro di sé, io non sono riuscita a vederla. Non c’è traccia nel libro della lotta continua tra Jason Bourne e David Webb nella sua stessa mente, spesso costellata di battibecchi.
Questo nuovo Jason Bourne indistruttibile ricorda quello dei film e non ha niente a che vedere con l’uomo che continuava a vivere sull’orlo del fallimento, sia a livello fisico che mentale, visto nei libri di Ludlum.
Devo dire che, soprattutto all’inizio, questa mancanza ha diminuito il mio coinvolgimento nelle vicende del personaggio, finché non è stato messo in luce un elemento essenziale della trama (da cui poi deriva il titolo). Da quel punto in poi Van Lustbader ha giocato bene le proprie carte nello scavare nella psicologia del personaggio e nella sua interazione con questo suo “erede”, spingendomi verso la necessità di continuare a leggere e suscitando in me il piacere dell’attesa del momento in cui avrei letto ancora.
Mi è dispiaciuta la totale assenza di Marie, che viene soltanto nominata, mentre nella vecchia trilogia era un personaggio cardine nell’evoluzione del protagonista.
Rispetto ai libri di Ludlum, dove non avevo mai idea di cosa sarebbe accaduto nella pagina successiva, questo di Van Lustbader è a tratti abbastanza prevedibile, per chi abbia un po’ di esperienza di storie d’azione. Il fatto di seguire un determinato schema naturale di evoluzione della storia non è assolutamente un demerito di per sé, ma, messo a confronto con la prosa indisciplinata di Ludlum, ne esce un po’ male.
Piuttosto, non capisco la necessità, per un libro così ben costruito, di ricorrere a mezzucci come lo spezzare una scena tra due capitoli. Ogni singola scena è così ben scritta e suscita tale e tanta curiosità, che non ha alcun bisogno di obbligare il lettore a non fermarsi alla fine di un capitolo.
L’ultima parte del libro è dir poco perfetta, poiché fonde introspezione (di tutti i personaggi) e azione in maniera equilibrata e coinvolgente. Peccato per una scelta non coerente compiuta da Bourne verso la fine, cioè non raccontare una certa cosa alla moglie. Ciò è totalmente fuori dal personaggio. Ma d’altronde il fatto che lui pensi alla moglie così poco in tutto il romanzo, mentre era di continuo al centro dei suoi pensieri nella trilogia, lo fa allontanare parecchio dal Bourne di Ludlum, rendendolo ancora una volta meno umano.
E anche la scelta compiuta dal suo “erede” non è sufficientemente motivata: è solo un pretesto per lasciare l’argomento in sospeso.
L’epilogo presenta un finale aperto, come è giusto che sia, che fa ben sperare per i romanzi successivi. Questo, insieme alla virtuale perfezione degli ultimi capitoli, soprattutto a livello emotivo, mi ha spinto verso il massimo dei voti, nonostante i difetti, a riprova del fatto che il finale di un libro ha un peso enorme sul suo gradimento.
 
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