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 I personaggi di "Deserto rosso"... di Carla
 

“Le nostre vite da sole non valgono nulla, ma insieme siamo qualcosa di unico.” Oltre il limite

 

Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Carla (del 05/02/2015 @ 14:39:04, in Lettura, linkato 2672 volte)


 Un romanzo che ti legge nella mente

Nell’intitolare questa recensione ho volutamente giocato con la trama del libro. “Mindstar Rising” infatti ha come protagonista un ex-militare, Greg Mandel, in cui è stata impiantata una speciale ghiandola che gli permette di percepire le emozioni delle altre persone e in un certo senso leggere la loro mente, anche se non letteralmente. Mandel è ora un detective privato che si ritrova a investigare su un intrigo di portata globale incentrato sulla giovane erede di un multimiliardario. La storia è ambientata in un futuro vicino notevolmente distopico, un futuro in cui il riscaldamento globale ha trasformato l’Inghilterra in un luogo quasi desertico dove i mari hanno invaso le coste e modificato la loro morfologia, dove il petrolio è finito, e le persone vivono in un mondo degradato in una mescolanza tra bassa e alta tecnologia, la seconda soprattutto ad appannaggio dei più ricchi.
L’ambientazione è suggestiva, sebbene io non sopporti le storie post-apocalittiche, ma la trama gira intorno a ben altro e quindi questo aspetto non ha avuto influenze negative sul mio giudizio.
Nonostante ci troviamo di fronte a situazioni ben diverse da quelle dei soliti libri di Hamilton, il suo stile è riconoscibilissimo nell’estrema complessità della trama, la descrizione disinvolta di situazioni erotiche raccontate come qualcosa di naturale, le sue lunghe scene che ti tengono incollato alle pagine del libro, il suo linguaggio ricercato che ti costringe a concentrarti al massimo nella lettura, il finale che riesce a strapparti un sorriso.
Si tratta del primo romanzo di Hamilton, primo di una trilogia che continuerò presto a leggere. In un certo senso l’ho apprezzato anche di più della sua space opera, forse perché immaginare un futuro vicino mi ha dato più riferimenti nel presente e rende più semplice l’immedesimazione. I personaggi di Hamilton sono vivi e viene voglia di sapere di più su di loro. Inoltre si tratta di un thriller ambientato nel futuro con sfumature di transumanesimo, in altre parole un technothriller cyberpunk, ma molto contemporaneo, sebbene sia stato pubblicato vent’anni fa e qualche aspetto tecnologico sia leggermente sorpassato. Ma si differenzia da una certa astrusità di altri libri di questo sottogenere di dieci o più anni prima, rendendolo una lettura accessibile a un pubblico più vasto che prescinde anche la stessa fantascienza.
Purtroppo il libro non è mai stato tradotto in italiano e la lettura in inglese richiede una buona conoscenza della lingua, vista la ricchezza del linguaggio usato dall’autore e il suo registro elevato. Ma può essere anche un’occasione per migliorare il proprio inglese.
Infine l’edizione che ho letto, quella pubblicata in occasione del ventennale del romanzo (ogni copia è numerata e autografata dall’autore), contiene anche una novella precedentemente inedita riportata nella parte iniziale del libro, inserita cronologicamente alla fine della trilogia. Si tratta è un vero e proprio poliziesco, ma ambientato nel futuro e con un finale imprevedibile e politicamente scorretto, che definirei alla Hamilton e che lo fa distinguere da altre storie di questo genere.

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Di Carla (del 13/02/2015 @ 18:09:07, in Lettura, linkato 3570 volte)


 Orrore sulla Luna

E va bene, ho comprato questo libro perché c’era la parola Luna in copertina, anche se dalla descrizione avevo intuito che si trattava di un romanzo young adult, che non è proprio il mio genere. Devo dire che non sono rimasta delusa, anche perché sapevo dove stavo andando a cacciarmi.
Il linguaggio del libro è molto semplice, come è giusto che sia trattandosi di un romanzo rivolto agli adolescenti. Per chi come me parla l’inglese come seconda lingua è sicuramente un vantaggio, poiché la lettura è andata avanti senza alcun intoppo. La parte scientifica, che poi è il motivo per cui ho deciso di leggerlo, è abbastanza accurata e alcune sequenze sulla superficie lunare sono davvero emozionanti.
C’è da specificare che si tratta di una fantascienza che sfocia nell’horror e questo in parte giustifica l’assunto assurdo che esista una stazione sulla Luna di cui nessuno sa nulla, che le missioni lunari siano state interrotte perché c’è qualcosa di pericoloso lassù e che adesso si sia deciso di mandarci dei ragazzi e non una squadra super addestrata. Ma perché? Gli assunti delle storie dell’orrore sono spesso assurdi o comunque fanno già presagire il peggio. Il finale è in piena linea col genere del libro e senza dubbio è l’unico finale possibile che impedisca alla storia di crollare su se stessa e trasformarsi in qualcosa di insulso.
Il libro però non è esente da difetti. La storia ci mette molto tempo a decollare. Il primo terzo del libro è troppo lento. L’autore si sofferma a presentare i personaggi che (sorpresa?!) saranno selezionati per la missione. Il loro background in realtà non è affatto funzionale alla trama e avrebbe potuto inserirlo qui e là, piuttosto che dedicarci interi capitoli.
L’altra cosa che era proprio evitabile è la scelta di inviare degli adolescenti sulla Luna. Se proprio volevano mandarci della gente qualunque a scopo propagandistico, considerati i rischi, non vedo perché avrebbero dovuto inviarci dei ragazzini. Va bene che il libro è rivolto a un target giovane e si vuole far immedesimare i lettori, ma credo che avrebbe funzionato ugualmente se si fosse trattato almeno di maggiorenni. Se non altro, la sospensione dell’incredulità avrebbe retto un po’ di più.
Nel complesso comunque non è un brutto libro. È stata una lettura piacevole.

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Di Carla (del 26/02/2015 @ 04:23:46, in Lettura, linkato 4106 volte)


 La serie che mi ha fatto rivalutare il cyberpunk

Il cyberpunk è un genere con cui non ho mai avuto grande affinità. I miei precedenti tentativi di leggerlo (“Luce virtuale” di Gibson e “Criptosfera” di Banks) non mi hanno particolarmente entusiasmato, benché, per ironia, mi sia cimentata nella scrittura (anche) di questo sottogenere della fantascienza. Sospettavo insomma che non fosse il sottogenere in sé il problema, ma che mi fossi imbattuta nei titoli sbagliati, almeno per ciò che riguardava i miei gusti personali. Infatti, leggendo libri più recenti in cui l’elemento cyberpunk era sì importante ma non predominante (come la Trilogia del Vuoto di Hamilton) mi sono sempre molto divertita.
Per fortuna, quando ho iniziato a leggere i libri di Effinger non avevo idea di trovarmi di fronte a uno dei padri del cyberpunk nel suo periodo di massimo sviluppo, gli anni ’80. Ciò dimostra come le etichette certe volte facciano più male che bene. Avevo solo due dei libri della serie, procurati in tempi diversi, senza neppure sapere che fossero collegati. Appena ho iniziato a leggere il primo, e ne sono rimasta rapita, mi sono subito prodigata a trovare una copia del terzo, poiché sapevo che mi sarebbe servito molto presto.
Avendoli letti uno di fila all’altro, ho deciso di recensirli insieme, anche perché mi è difficile giudicarli separatamente senza farmi influenzare dalle letture precedenti o successive.
 
La trilogia del Budayeen (sarebbe più corretto chiamarla serie, poiché l’autore aveva progettato almeno altri due libri, che purtroppo non ha fatto in tempo a scrivere prima di morire) non è solo cyberpunk. La storia è ambientata fra due secoli, in un quartiere malfamato, il Budayeen, di una città del mondo arabo non meglio specificata. Nel futuro immaginato da Effinger la gente si fa “circuitare” il cervello per potervi inserire dei moduli che permettono di fornire all’individuo nuove nozioni, capacità e persino personalità. L’elemento cyberpunk è fornito da questa tecnologia, che è di fatto uno dei pochi elementi fantascientifici presenti nella storia. Qui la fantascienza è solo uno strumento per raccontarci la storia dei personaggi e soprattutto per gran parte del primo libro (ma anche per ampie parti degli altri) la stessa storia funzionerebbe altrettanto bene se raccontata in un contesto al di fuori del fantastico.
 
Riguardando adesso, dopo trent’anni, questo futuro immaginario, esso appare costellato di elementi anacronistici, quasi fosse un universo alternativo o semplicemente al di fuori del tempo.
Il Budayeen in realtà è una metafora del quartiere francese di New Orleans (Effinger non l’aveva mai nascosto), con i suoi night club, dove pare sia abbastanza difficile trovare una donna che sia geneticamente tale, e con la sua malavita organizzata. A ciò si aggiunge il tocco esotico dell’averlo inserito nel mondo islamico, che viene rappresentato in maniera accurata con tutte le sue contraddizioni, ancora più evidenti se viste fra duecento anni. Il rapporto dei personaggi con la religione islamica, il rispetto verso di essa, accompagnato alle azioni più efferate è un astuto richiamo al contraddittorio ma tristemente reale binomio cattolicesimo-mafia, che non può far che sorridere. È un po’ come dire che anche nel futuro, pur cambiando le persone, i luoghi e persino la religione, i risultati che si ottengono sono sempre gli stessi.
 
Al di là di questa ambientazione, i romanzi di Effinger girano tutti intorno alla figura del protagonista, Marîd Audran, un investigatore drogato, cauto (per non dire codardo), pieno di difetti, ma estremamente umano, che cerca di sbarcare il lunario facendo lavoretti più o meno legali, tra un’ubriacatura e l’altra, coadiuvato dall’assunzione di pastiglie tra le più varie (a seconda delle occasioni: una per dormire, una contro l’ansia, una per stare sveglio e così via), e rischiando di farsi ammazzare a ogni istante. In tutto questo Marîd, che ci racconta la sua storia in prima persona, non perde mai la sua autoironia, neppure nelle situazioni peggiori. Insomma, è una simpatica canaglia, anzi un simpatico antieroe.
Ho riso tanto nel leggere questi romanzi, ma ciò che li rende così belli è la loro imprevedibilità. Effinger non segue schemi. La storia è realistica grazie al modo in cui gli eventi si susseguono quasi casualmente, proprio come nella realtà, senza una logica. Non sai mai cosa accadrà nella pagina dopo e non puoi fare altro che continuare a leggere. Così ogni giorno mi ritrovavo ad attendere con trepidazione il momento in cui sarei andata a letto e avrei preso in mano il libro.
 
Marîd si infila in un guaio dopo l’altro. Quando pensi che peggio di così non gli potrebbe andare, be’, gli va peggio. Ma bene o male se ne tira fuori, nel senso che sopravvive.
Nel primo libro si trova a investigare su degli omicidi, cerca di tenere in piedi la sua storia con la bella ballerina Yasmin (di cui lui è molto innamorato), che non è sempre stata una donna, cerca di evitare di finire sotto il controllo di Friedlander Bey, il “capo mafia” del Budayeen, e ovviamente di non farsi ammazzare.
Nel secondo si trova a scoprire un oscuro programma, chiamato Fenice, a causa del quale molte persone vengono uccise, e si ritrova a lavorare con la polizia.
Nel terzo finisce in esilio nel deserto arabico, dove vive per un certo tempo con i nomadi. Questo libro sembra quasi diviso in due, con una parte ambientata nel deserto e un’altra nel Budayeen che sono completamente separate.
 
Effinger era un grande autore e lo dimostra la maestria con cui usava le tecniche narrative più disparate.
Una cosa che ho particolarmente apprezzato è l’artificio narrativo con cui ci mostra le scene in cui Marîd indossa un modulo di personalità (detto moddy). Di colpo si passa dalla prima persona alla terza, creando una distanza tra il lettore e il personaggio che simula la sensazione che questo deve avere mentre il controllo di se stesso viene filtrato da un software, mentre la sua coscienza è quasi messa da parte, come se fosse uno spettatore. Nel leggere queste scene si ha davvero l’impressione di vivere in una sorta di stato alterato, un po’ come capitava allo stesso Marîd. Particolarmente divertente è quando il protagonista prova il moddy di Nero Wolf e si sente più grasso e del tutto disinteressato alle donne.
Lo stesso artificio viene utilizzato nelle due scene ambientate nella realtà virtuale (nel secondo libro), mentre Marîd e Chirinda stanno facendo un gioco. Le scene di per sé non portano avanti la trama, ma Effinger le ha scritte lo stesso e sono comunque molto godibili proprio per via della sensazione di “partecipazione filtrata” che esse danno e che le distingue dal resto del romanzo.
 
Altro aspetto che ho apprezzato è la tendenza dell’autore di mostrarci Marîd a un certo punto della storia e poi far sì che lui ricostruisca, tramite i suoi ricordi spesso offuscati, cosa è accaduto prima, con una transizione verso il flashback che imita alla perfezione il modo associativo con cui la memoria funziona. Marîd torna indietro nei suoi pensieri e ci mostra tutto ciò che è accaduto, anche per molte pagine, fino ad arrivare al punto di apparente tranquillità da cui il capitolo è iniziato. Così pian piano scopriamo che si trova in un grosso guaio da cui è impossibile immaginare come lui riuscirà a venire fuori. Spesso questa consapevolezza viene seguita da un colpo di scena che peggiora ancora di più le cose, se possibile.
 
Proprio per l’assenza di schemi e per la sottile vena di imperfezione che attraversa tutti i libri, ognuno di essi è caratterizzato da un finale malinconico o al massimo dolceamaro, ma comunque sempre aperto. E, considerato che Effinger è morto prima di scrivere i libri successivi, questi finali ci autorizzano a immaginarne noi il seguito.
A questo proposito aggiungo che esiste una raccolta postuma di racconti, purtroppo mai pubblicata in italiano, “Budayeen Nights” (la recensirò a parte), che include tutta una serie di scritti di Effinger tra cui l’inizio del quarto libro e soprattutto un racconto che ha come protagonista Marîd (benché il suo nome non venga mai pronunciato) che ci permette di dare uno sguardo al suo futuro in cui a quanto pare si è liberato dal controllo del “capo mafioso” del Budayeen e ha una vita abbastanza tranquilla, anche se ogni tanto viene coinvolto in qualche investigazione pericolosa.
I tre romanzi della trilogia del Budayeen sono: “Senza tregua” edito dalla Nord, che è poi stato ripubblicato da Hobby & Work col titolo de “L’inganno della gravità” (fedele all’originare “When Gravity Fails”); “Programma Fenice” della Nord, poi ripubblicato da Hobby & Work come “Fuoco nel sole” (originale “A Fire in the Sun”); ed “Esilio dal Budayeen” della Nord e la sua riedizione di Tascabili Nord intitolata “La guerra di Marid Audran ­ Esiliato dal Budayeen”.
Se avete l’occasione di procurarveli, non fateveli scappare.
 
L'inganno della gravità, Fuoco nel sole ed Esilio dal Budayeen su Amazon.it.
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Di Carla (del 10/03/2015 @ 20:30:00, in Lettura, linkato 3104 volte)

 Mummie!
 
Ho riletto da poco questa novelization del film “La Mummia”. L’avevo già letta due volte, ma stiamo parlando di quindici anni fa. Avendo visto molte volte il film, ricordavo la storia, ma non altrettanto bene i dettagli del romanzo, quindi l’ho rivisto con occhi nuovi.
Ricordo che all’epoca avevo notato delle piccole differenze nella svolgersi degli eventi, ma adesso la mia memoria fa fatica a distinguerle. Per farlo dovrei rivedere il film. Erano comunque dettagli non significativi.
Il modo in cui è narrato soffre parecchio del fatto di essere tratto da una sceneggiatura. Ciò impone un punto di vista onnisciente, simile appunto a quello di una macchina da presa. A tratti questo aspetto crea notevole distanza dai personaggi e fa perdere l’immedesimazione nella storia. È un peccato perché il potenziale per tenere il lettore incollato alle pagine c’è tutto. D’altra parte si tratta di un libro che a suo tempo era stato pensato per i fan del film.
Ciò che lo rende particolarmente interessante è il fatto che rivela alcuni aspetti che poi non sono apparsi nel film stesso e come la mano del regista abbia modificato alcuni dettagli della trama.
Per esempio, nel film si dice erroneamente che gli antichi egizi rimuovessero il cuore dai defunti prima dell’imbalsamazione. Non è così e ciò era considerato un “errore” del film (per quanto il termine errore avesse senso parlando di una storia di mostri della Universal che non pretendeva in alcun modo di riportare realtà storiche). Leggendo il libro, si scopre che nella sceneggiatura i personaggi dicevano che la rimozione del cuore avveniva per le persone cattive e che fosse una punizione dopo la morte.
Questo è solo un piccolo dettaglio, ma leggendo il romanzo molti passaggi della storia hanno molto più senso rispetto al film, proprio perché viene dato più spazio per spiegarli.
Nel complesso è una lettura niente male, adatta anche a chi non abbia mai visto il film.
Il linguaggio fa a tratti uso di termini obsoleti riproducendo il fatto che gli eventi narrati appartengono a un passato non vicinissimo (il 1925). La traduzione non è affatto male, salvo qualche piccola imprecisione tipica del passaggio dalla lingua inglese, ma considerando che si tratta di un’edizione economica è molto buona rispetto a prodotti equivalenti pubblicati negli ultimi anni.
Pur non essendo un’opera di grande letteratura, svolge in maniera perfetta il suo ruolo di novelization di una sceneggiatura, per cui si merita i pieni voti.
 
La mummia (brossura) su Amazon.it.
 
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Di Carla (del 19/03/2015 @ 05:50:32, in Lettura, linkato 2782 volte)

 La lotta contro il mostro
 
Avevo questo libro da un po’ di tempo, non so neppure come me lo fossi procurato, e ho iniziato a leggerlo perché incuriosita dalla descrizione.
In realtà, e direi anche per fortuna, la storia narrata ha ben poco a che vedere con la quarta di copertina, che descrive solo un dettaglio di una delle storie che si intrecciano in questo bellissimo romanzo, ma soprattutto non fa il minimo accenno all’argomento principale che lo anima: l’alcolismo.
Un medico, un operaio, un sacerdote, la giovane rampolla di una famiglia facoltosa, persone diverse che si incontrano all’interno della storia proprio a causa della loro dipendenza dall’alcol.
L’autore entra nella mente dell’alcolista e riesce a mostrare al lettore quale filo di pensieri spinge il primo a tornare bere, anche dopo essere stato malissimo e aver giurato se stesso che avrebbe smesso, anche se questo significa trascurare le persone che ama e che l’amano, anche se può portarlo a un passo dalla morte, anche se ciò costringe lui e la sua famiglia alla povertà, anche se sa perfettamente il motivo di questa sua malattia, tanto da essere in grado di consigliare altri come lui.
L’alcolismo è il mostro che controlla i protagonisti di questo romanzo, che li accompagna nella loro discesa all’inferno. Alcuni non ce la fanno e vengono sconfitti, soprattutto se non hanno nessuno cui affidarsi. Altri, che hanno la fortuna di poter contare sui propri cari, trovano la forza, o almeno obbligano se stessi a trovarla, per combatterlo, e magari vincerlo.
La meravigliosa prosa di Konsalik scorre tra disperazione, ironia e speranza, tra una lacrima e un sorriso, finché arrivi alla fine con la sensazione di aver ricevuto un dono.
 
 
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Di Carla (del 28/03/2015 @ 03:02:55, in Lettura, linkato 2516 volte)

 Un’entusiasmante storia di fantascienza hard
 
Mentre leggevo questa novella, continuavo a ripetermi che era proprio il genere di libro di fantascienza che faceva per me. Contiene, infatti, tutti gli elementi che prediligo.
In primo luogo, è ambientata in un prossimo futuro caratterizzato da sufficienti elementi del presente da renderlo riconoscibile e plausibile. Già dalle prime pagine sei in grado di percepire un tale senso di realismo da credere che tutto ciò che viene raccontato potrebbe davvero accadere in qualche decennio.
La credibilità della narrazione è inoltre accentuata dall’accurato contenuto scientifico e tecnologico. Questa è fantascienza hard nella sua massima espressione. L’autore mostra di essere estremamente preparato nel tema dell’astronautica e dell’esplorazione spaziale.
La trama è avvincente. Da una parte ci mostra un futuro in cui i viaggi spaziali sono resi più semplici dall’esistenza di un ascensore spaziale (proprio a esso si riferisce il titolo). Si tratta di un tema molto caro agli amanti di questo sottogenere della fantascienza, ma anche e soprattutto a coloro che sono interessati nell’esplorazione spaziale e si dilettano a immaginare quali giovamenti in questo campo tale tecnologia potrebbe apportare.
Uno degli aspetti che preferisco è l’immagine di un futuro positiva, nonostante la fisiologica presenza di intrighi, complotti e tradimenti. Un futuro in cui la tecnologia permette all’umanità di fare grandi cose.
Accanto a questo tema c’è quello dell’asteroide. Potrebbe essere un pericolo per Terra? O solo un qualcosa di interessante da studiare? E se celasse qualche meraviglioso mistero? E qui l’autore gioca le sue carte in maniera davvero originale (non posso entrare nel dettaglio perché rischierei di cadere nello spoiler).
A ciò si aggiunge il problema di come gestire certe informazioni con l’opinione pubblica. Turnbull ci mostra la reazione ambivalente dell’essere umano di fronte all’ignoto, in cui la lotta contro la paura e le sue conseguenze può essere di grande intralcio alla conoscenza.
Il peggio ma anche il meglio (incluso l’eroismo) della natura umana divengono a loro volta protagonisti.
Tutti questi elementi sono intrecciati sapientemente in una storia fatta dai personaggi, così ben delineati da quasi prendere vita nelle pagine. Ottimi dialoghi, spesso arguti e divertenti, scene d’azione mozzafiato e maestria nel mettere insieme le scene e interromperle al momento giusto completano il confezionamento di questa piccola perla del panorama fantascientifico.
È sicuramente un ottimo modo per conoscere questo autore e credo che presto leggerò altri suoi libri.
 
Questo libro è scritto in lingua inglese!
 
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Di Carla (del 31/03/2015 @ 15:10:01, in Lettura, linkato 3148 volte)

 Primo di una serie di libri unici
 
Ho deciso di leggere questo libro proprio perché è il primo di una serie. Speravo di trovare un ottimo autore e un ottimo personaggio, in modo da potermi poi godere il resto della serie.
Devo dire che questa aspettativa è stata poi delusa. Lee Child è un buon autore e Jack Reacher è un fantastico personaggio, ma questo romanzo termina in maniera definitiva. Non lascia in sospeso neanche un piccolo dettaglio che riguardi il personaggio, non esiste alcuna apparente sottotrama da dipanare in quelli successivi. In altre parole, non c’è alcun motivo per cui, nonostante mi sia piaciuto molto, io mi debba sentire minimamente interessata a leggere i molti altri di questa serie. E a mio parere questo è un grosso difetto, anche perché, con tutti i libri che esistono sul mercato, credo proprio che questa storia di Jack Reacher mi sarà più che sufficiente per lungo tempo, se non addirittura per sempre.
Posso tranquillamente passare ad altro.
Ma nel giudicare questo romanzo ho deciso di ignorare questa pecca, ho deciso di fingere che mi ci sia avvicinata come se fosse un romanzo unico e non l’inizio di una serie di altri libri che hanno location e trame completamente diverse (ho letto rapidamente le descrizioni a fine volume). Voglio fingere di credere che il mondo di Jack Reacher finisca alla fine dell’ultimo capitolo con quella minuscola, ma finta, porticina aperta con cui si conclude. Voglio ignorare anche quello stesso capitolo, tutto raccontato o addirittura riassunto, in cui l’autore si affretta a chiudere la vicenda e a chiarire col lettore che la serie sarà fatta di episodi separati che avranno come unico elemento comune un personaggio che vaga per gli Stati Uniti ed è felice del suo vagare. Voglio ignorare che si tratti di un personaggio statico, che non evolverà durante la storia, non lo farà mai, ma stranamente ovunque vada si trova in mezzo ai guai, dai quali è destinato a uscirne sempre vivo, lasciandosi dietro una lunga scia di morti.
Insomma, voglio ignorare tutto questo e l’imbarazzante numero di refusi di questa sua edizione (per non parlare dei soliti congiuntivi dimenticati), che gli costerebbe minimo una se non due stelline, e dargli il massimo dei voti, ma solo perché mi sono divertita davvero molto a leggerlo e ho trovato molto interessanti alcune parti tecniche (sulla contraffazione del denaro e sulle armi).
Chiarito questo concetto, non mi resta che tornare alla trama di “Zona pericolosa”, che è senza dubbio ben costruita, complessa, e che ti costringe ad arrivare alla fine nel più breve tempo possibile. Ho letto l’ultimo terzo del romanzo (che non è affatto corto) in due sessioni: una prima di dormire e una subito dopo essermi svegliata.
Dovevo finirlo.
Vieni subito catapultato in questo episodio della vita di Reacher. Mentre se ne sta tranquillo a fare colazione in un locale di un paesino sperduto delle Georgia, dove è appena arrivato quella stessa mattina, la polizia irrompe e lo arresta, accusandolo di un omicidio avvenuto la sera prima.
È solo l’inizio dei suoi guai.
Si sarebbe tentati di pensare che “Zona pericolosa” sia soprattutto un libro di azione. Non è così. Le scene di azione ci sono eccome e sono bellissime. Sono un po’ più fitte verso la fine, come è ovvio attendersi. Ma in realtà ci troviamo di fronte a un romanzo di investigazione, ricerca, morti (molti morti) fatti fuori nei modi più cruenti e inquietanti, tracce. Reacher era un agente della polizia militare e in lui troviamo l’addestramento del militare e un’astuzia e una capacità deduttiva degna del migliore Sherlock Holmes.
In un susseguirsi di colpi di scena narrati con maestria, Reacher vede la sua situazione peggiorare, ma non si perde di certo d’animo e non si fa scrupoli. Ne viene fuori un mondo in cui ogni legalità è sospesa, non esistono più riserve morali. Non si può attendere l’intervento della giustizia, ci si deve fare giustizia da sé e si ha la sensazione che vada bene così.
L’autore ci narra la storia mostrandoci i dettagli solo nel momento in cui servono e permettendoci di accompagnare il protagonista nel mettere insieme i pezzi del puzzle. Insieme a lui ci angoscia per la sorte degli altri personaggi. Col cuore in gola si legge, pagina dopo pagina, temendo che possa accadere il peggio, ma accelerando la lettura per sapere la verità, per quanto terribile possa essere.
E in men che non si dica si arriva all’esplosiva conclusione.
Peccato davvero per il capitolo finale che fa crollare di nuovo la storia nel mondo reale, spezzando definitivamente l’incantesimo e lasciando un po’ di amaro in bocca.
 
 
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Di Carla (del 09/04/2015 @ 23:33:53, in Lettura, linkato 1965 volte)

 L’evoluzione di Chase
 
Dopo aver letto due raccolte di racconti, una novella e un romanzo, Chase Williams è diventato molto più di un personaggio di fantasia. L’apparente normalità in cui le sue storie hanno luogo favoriscono l’immedesimazione a tal punto che a momenti mi viene da pensare che in una cittadina di nome Tursenia ci sia veramente un ex-detective di Scotland Yard impegnato a risolvere i crimini più vari.
Questa raccolta, però, conferma l’evoluzione già in parte vista in “Pull the Trigger” e, se possibile, si fa un ulteriore passo avanti verso una più spinta tridimensionalità del personaggio. Dal classico investigatore britannico che, tramite gli indizi e un’acuta capacità di osservare i dettagli, trova il colpevole attraverso il classico processo di deduzione, si passa sempre più al Chase uomo d’azione, capace di reagire a situazioni estreme con dei comportamenti decisi. Un uomo che non teme di sporcarsi le mani né di mettere a repentaglio la sua stessa incolumità.
Così facendo, Chase si sta prendendo pian piano la scena, persino attraverso piccoli racconti di mille parole. Verrebbe quasi da pensare che la sua permanenza in Italia e il contatto con personaggi e situazioni tipicamente italiane lo stiano influenzando e ne stiano tirando fuori un’indole inattesa, che non può che fare breccia nel cuore dei lettori.
Dovendo fare un paragone tra questa raccolta e le due precedenti, noto subito la notevole differenza nello stato d’animo che sottende le varie trame. Vengono meno le immagini eccessive, eppure tutti i racconti, persino quelli che non trattano crimini gravi come l’omicidio o che comunque raccontano delle vicende più leggere, sono carichi di suspense e di una venatura cupa, drammatica. La scrittura della Mattana diventa più matura, mentre il suo mondo immaginario si espande, diventando sempre più reale.
Non mi resta che attendere il suo prossimo lavoro per godermene un altro scorcio.
 
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Di Carla (del 11/04/2015 @ 04:30:14, in Lettura, linkato 3008 volte)

 Tutto in un giorno
 
Quando inizio la lettura di un libro di Patricia Cornwell della serie di Scarpetta so già di andare sul sicuro.
In primo luogo, perché ritrovo delle vecchie conoscenze, che, col passare degli anni (più di venti), nella mia mente sono diventate persone reali. Infatti uno dei motivi per cui amo questa serie è proprio il ruolo prominente che le sottotrame hanno all’interno dei singoli libri. In pratica li leggo per sapere cosa succederà a Scarpetta, Marino, Lucy e Benton, e altri personaggi che appaiono e scompaiono nello loro vicende, mentre i singoli casi, per quanto mi riguarda, sono giusto un pretesto che permette l’esistenza dei singoli libri.
Il secondo motivo per cui so che mi divertirò è che la Cornwell, nonostante si ritrovi a raccontare delle storie sempre nello stesso mondo immaginario, cosa che potrebbe portare a una certa ripetitività, riesce comunque a essere originale, usando gli strumenti che il suo ruolo le fornisce: le tecniche letterarie.
Questo romanzo è raccontato tutto in prima persona dal punto di vista di Kay Scarpetta e al presente, e copre un arco di tempo di circa un giorno. In oltre 350 pagine di libro viene raccontato ciò che la protagonista vede, sente e pensa in tempo reale, sin dal momento in cui viene prelevata dalla base dell’Air Force di Dover, ignara di cosa sia accaduto, fino alla scoperta e la cattura del colpevole, che avviene circa 24 ore dopo. Insieme a lei scopriamo passo dopo passo gli eventi dei giorni precedenti. Abbiamo le stesse informazioni che ha lei, vediamo gli stessi filmati che vengono mostrati a lei, partecipiamo alle sue stesse conversazioni con gli altri personaggi, insieme a lei scopriamo cosa suo marito e sua nipote le nascondono, e ci troviamo a mettere insieme i pezzi di un caso intricatissimo che la tocca molto da vicino.
Nel contempo l’autrice non dimentica i nuovi lettori che potrebbero affacciarsi alla serie partendo proprio da questo libro (o i suoi vecchi lettori che non ricordano bene le vicende passate), quindi, quando un personaggio fa la sua comparsa, subito con poche frasi lo presenta e lo inquadra. Nonostante questo, credo che sia meglio aver letto anche i precedenti, possibilmente in ordine cronologico.
Il risultato è un’opera tra le migliori della Cornwell, che qui mostra tutta la sua bravura e maturità. Non solo riesce a gestire una trama complessa, a ottenere il meglio persino dalla prospettiva limitata offerta dalla prima persona, ma lo fa con una prosa di altissimo livello (almeno nella versione in lingua originale; ho ormai rinunciato a leggere i suoi libri in versione italiana, vista la qualità scadente delle ultime traduzioni in cui mi ero in precedenza imbattuta).
Do un solo consiglio a chi ha intenzione di leggere questo libro: assicuratevi di potergli dedicare un po’ di tempo, poiché, per meglio apprezzare questo romanzo, va letto tutto d’un fiato in pochi giorni.
 

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Di Carla (del 23/04/2015 @ 00:05:33, in Lettura, linkato 2337 volte)

 Storia appassionante. Traduzione da rivedere.
 
Nel giudicare questo libro voglio fare una netta distinzione fra il romanzo in sé e questa sua edizione italiana (quella che ho io è la versione resa disponibile nell’agosto 2014). Nonostante la traduzione non sia perfetta, ho comunque deciso di far prevalere il mio gradimento per questa storia nel giudicarla, senza lasciarmi influenzare dall’evidente assenza della figura di un correttore di bozze esperto di traduzioni, che avrebbe potuto facilmente individuare i tanti piccoli problemi che affliggono questo testo. La traduzione di per sé è ottima, ciò che manca è proprio un lavoro di rifinitura che tolga di mezzo le ripetizioni, renda alcune frasi scorrevoli, elimini traduzioni un po’ troppo letterali o errate (rispetto al contesto), sistemi qualche virgola e i soliti refusi (quelli ci sono in tutti i libri, è vero, ma qui ce ne sono diversi, segno dell’assenza di un ulteriore sguardo esterno).
 
Mettendo da parte questo discorso, voglio concentrarmi sul romanzo.
Sono tanti, infatti, gli aspetti che lo rendono interessante. A iniziare dall’argomento a dir poco originale.
La protagonista, una detective di Scotland Yard (e già questo basterebbe a interessarmi), si imbatte in un caso complesso, collegato a un giro di profanazione di tombe, plastinazione di cadaveri, fino ad arrivare alla dissezione di corpi ancora vivi. L’argomento è senza dubbio macabro e non adatto agli stomaci più deboli. Devo dire che a tratti la lettura mi ha inquietato e, come capita per i buoni libri, nonostante ciò non riuscivo a smettere di leggere.
Il lavoro di ricerca della Penn è fantastico. La minuzia di particolari con cui ci mostra questo mondo sotterraneo e le ambientazioni dove vengono svolte queste pratiche è tale che si ha la terribile sensazione che tutto ciò stia davvero accadendo in questo momento.
Tutto appare autentico, non solo questi dettagli. La bella prosa dell’autrice ci porta dentro la testa della protagonista, ci coinvolge nel suo inferno personale e ci fa sentire lei, quando tutto il mondo pare crollarle addosso e si trova a un passo dal fare una morte orrenda.
Infine, l’aggiunta dell’elemento sovrannaturale, che in genere non apprezzo, è però fatta con tale maestria che non stona con l’autenticità di tutto il resto. Diciamo che dà un ulteriore tocco di colore, anche se non del tutto necessario, e offre l’opportunità di presentare un altro personaggio, con cui, a quanto pare, la detective si troverà a dividere la scena di nuovo nei prossimi libri della storia.
In conclusione, non posso che consigliare la lettura di questo libro, in particolare a chi fosse in cerca di storie fuori dal comune, ma confezionate con i tempi e i modi giusti di un buon thriller.

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