Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
    Perfettamente costruito, ma troppo calcolato e freddo sul finale
Questo romanzo mi è piaciuto molto, finché non sono arrivata alla parte finale su New London, di cui non sono proprio riuscita a digerire la conclusione. E ciò ha per forza di cose un’influenza negativa sul mio giudizio generale.
Come sempre Hamilton è un maestro nel gestire trame complesse in un contesto elaborato e a farvi interagire più personaggi ben caratterizzati. In questo senso “The Nano Flower” è l’anello di congiunzione tra la sua prima produzione ambientata sulla Terra nel prossimo futuro e la space opera dei suoi libri successivi.
Sebbene la serie venga definita la trilogia di Greg Mandel, in questo libro Mandel ha un ruolo da comprimario, poiché è in scena quanto gli altri personaggi, o addirittura meno. Devo dire che questo aspetto mi ha un po’ deluso, poiché mi piace parecchio questo personaggio, che nei libri precedenti era senza dubbio il protagonista, e mi aspettavo almeno un suo ruolo più decisivo nella risoluzione della storia, cosa che invece non si è verificata. Il fulcro di questo romanzo è senza dubbio Julia Evans, sebbene neanche lei possa esserne considerata una protagonista. Più semplicemente può essere definito un romanzo corale.
Meno investigativo dei precedenti, fatto che non è necessariamente positivo, e più immaginifico, pur essendo più lungo presenta un ritmo più incalzante e coinvolgente, reso possibile dalla sempre ottima prosa di Hamilton.
Gli avrei dato cinque stelle, ma ho trovato tutta la storia di Royan, incluso il finale, abbastanza deprimente. Non sono riuscita in alcun modo a farmi piacere le sue scelte egoistiche nei confronti della propria famiglia. Le sue motivazioni continuano a non avere senso. E allo stesso modo ho trovato Julia troppo fredda nel reagire alla conclusione drammatica della storia di questo personaggio. Ho avvertito nel comportamento di entrambi qualcosa di profondamente sbagliato a livello di emozioni umane, che mi ha dato la sensazione che il finale fosse stato quasi elaborato a mente fredda, senza alcun coinvolgimento, perdendo ogni contatto con l’umanità dei personaggi. E tutto ciò stride col modo in cui Hamilton aveva scavato fino a quel momento nella loro mente e nella loro psicologia.
Inoltre ho difficoltà a considerare credibile il fatto che un personaggio così potente come Julia Evans pensi davvero soltanto al bene dell’umanità e solo secondariamente ai propri interessi. È a dir poco utopistico, soprattutto se paragonato col futuro tutt’altro che roseo che viene descritto in questa trilogia.
Entrambi questi aspetti hanno fatto sì che in me crollasse la sospensione dell’incredulità. Peccato.
È passato un altro anno, di nuovo! Penso che capiti un po’ a tutti, e sempre più con l’andare avanti con l’età, di avere l’impressione, alla fine di un anno, che sia passato un po’ troppo in fretta. Ci eravamo appena abituati a questo 2016 e adesso ci tocca reimpostare la nostra mente con una nuova cifra: 2017.
Devo dire la verità: una volta tanto l’anno che adesso volge al termine non mi è sembrato affatto corto. Se penso a tutto quello che ho fatto, a quanto ho lavorato, questi dodici mesi parevano non finire mai. Forse è perché per una volta attendevo questa fine, poiché corrisponde al quasi totale completamento di tutti i miei progetti in corso d’opera, ma anche alla chiusura del mio primo quinquennio da self-publisher.
Il 3 gennaio sarà infatti il quinto anniversario del giorno in cui iniziai la prima stesura di “ Deserto rosso - Punto di non ritorno” con la chiara intenzione di pubblicarlo in maniera indipendente.
A rigor di logica, però, questo anniversario andrebbe festeggiato il 7 giugno, data di uscita ufficiale di questo mio primo libro a pagamento, ma proprio per tale motivo ho deciso di impiegare i cinque mesi che separano queste due date per fare un bilancio più completo della mia esperienza da autoeditore (o autoeditrice, se preferite) e definire in che direzione indirizzare i miei sforzi futuri. Ed è stata forse l’impazienza di iniziare questo particolare periodo a farmi sembrare il 2016 un anno davvero lungo.
Tanto per non smentire la mia tendenza a non riuscire mai a fermarmi del tutto, la mia attesa dovrà durare ancora altre due settimane, che è il tempo di cui avrò bisogno per terminare la prima stesura di “Oltre il limite”. Qui però non ho colpe: è il libro che sta venendo fuori un po’ più lungo di quanto pensassi (è tutta colpa dei personaggi!), il che non mi dispiace affatto.
 Comunque, tornando al 2016, vediamo un po’ insieme cosa ho combinato:
- ho completato la revisione della prima parte della traduzione in italiano di “Saranythia”, il prossimo romanzo di Richard J. Galloway;
- ho scritto la seconda e la terza parte di “Ophir. Codice vivente” (per un totale di circa 90 mila parole che si aggiungevano alle 45 mila della prima parte scritta nel 2015);
- ho preparato da zero un corso universitario integrativo, intitolato “ Laboratorio di self-publishing nei sistemi multimediali”, che poi ho tenuto lo scorso maggio presso l’Università degli Studi dell’Insubria (a Varese) nell’ambito del corso di laurea in Scienze della Comunicazione;
- ho scritto circa 90 mila parole (di cui 50 mila durante il NaNoWriMo di novembre, che ho quindi vinto anche quest’anno) di “Oltre il limite”, il libro finale della trilogia del detective Eric Shaw, che pubblicherò il prossimo 21 maggio;
- ho partecipato come ospite/relatrice ad altri quattro eventi offline, oltre il corso a Varese: una conferenza sul self-publishing e la comunicazione in campo scientifico al Festival della Professione Giornalista il 19 marzo a Bologna, una conferenza sul futuro dell’editoria il 3 maggio, sempre a Varese, una presentazione dei miei libri (la trilogia del detective Shaw e “Ophir. Codice vivente”) il 2 dicembre a Iglesias e un convegno a Roma sul self-publishing il 10 dicembre nell’ambito della fiera della piccola e media editoria Più Libri Più Liberi. In queste situazioni ho avuto l’opportunità di rivedere alcuni vecchi amici, di incontrare colleghi e lettori conosciuti sul web, ma anche di entrare in contatto con nuove interessanti persone;
- ho letto 52 libri.
Quanto riportato sopra include quasi tutti i propositi che avevo elencato un anno fa, più uno di quelli che non dipendevano dalla mia volontà (il corso all’Università degli Studi dell’Insubria) e gli eventi offline, che invece non avevo previsto.
Cosa non sono riuscita a fare?
Be’, non ho completato la scrittura di un altro romanzo (“Oltre il limite”), ma questo non lo ritengo un fallimento, poiché si sta semplicemente rivelando più lungo del previsto (supponevo che avrebbe avuto una lunghezza di 80 mila parole, ma ne ho scritto circa 90 mila finora e non è ancora finito). Anzi, nel 2016 ho complessivamente scritto più parole che nel 2015, sebbene neanche un romanzo completo nell’arco dei dodici mesi, perché ne ho finito uno e iniziato un altro, entrambi belli lunghi.
Sono riuscita, come sempre, a mettere da parte un sacco di appunti per nuovi futuri romanzi, la cui lista continua a crescere, ma non ho preparato alcuna outline precisa. Questo è dovuto al fatto che lo scorso giugno, oberata e stressata dal troppo lavoro, ho preso la decisione di non iniziare alcun nuovo progetto, finché non avessi concluso tutti quelli in corso, proprio in vista dei primi cinque mesi del 2017, che tra le varie cose saranno dedicati a un bilancio di questi cinque anni e all’individuazione di nuovi progetti. Per questo motivo non ritengo neanche il venir meno a tale proposito un fallimento, bensì un cambiamento di programma ragionato in corso d’opera.
 Infine mi ero riproposta di lavorare duro per mantenere un trend in salita nelle vendite.
Di certo ho lavorato duro e tra le varie cose sono molto contenta degli esperimenti fatti durante l’estate con nuove serie di articoli sul mio blog, che hanno avuto un riscontro interessante in fatto di vendite, e le varie brevi promozioni scontate portate avanti in parallelo su Google Play e Amazon. Ho anche provato numerose tecniche di promozione a pagamento, che sono state meno soddisfacenti come ritorno di investimento, ma mi hanno permesso di capire cosa vale la pena fare e cosa lasciar perdere del tutto.
Inoltre mi sono impegnata a ottimizzare il lavoro relativo alla mia presenza sui social network, per mantenerla costante o persino più assidua, riducendo però il tempo impiegato nel renderla tale (no, non ci sono riuscita alterando lo spazio-tempo, o forse sì?).
In quanto ai risultati generali per quanto riguarda i guadagni relativi al self-publishing, purtroppo non sono stati in crescita rispetto al 2015, ma comunque molto migliori dell’anno precedente, per cui non mi lamento, considerando che nel 2016 non ho potuto quasi per niente sfruttare la scia di eventi promozionali esterni (non gestiti né in alcun modo decisi da me) e anche che sono stata dietro a davvero troppe cose tutte insieme, perché poi mi rimanesse il tempo materiale per farmi venire qualche altra buona idea e metterla in pratica.
Nonostante tutto questo, ho mantenuto sempre una base minima di vendite complessive costante, indipendente da tutto il resto, anche nei periodi in cui non facevo proprio nulla, cosa che mi spinge ancora di più a voler riflettere su quale sia il modo migliore di gestire i miei sforzi.
Come dicevo un anno fa, infatti, la cosa più importante per uno scrittore è che la creatività rimanga attiva e che si riesca sempre a scrivere qualcosa di cui poi essere fieri.
Il 2016 è stato segnato da periodi in cui la voglia di scrivere rasentava lo zero, nonostante non abbia mai smesso di farlo per stare dietro alle scadenze (un amico incontrato all’evento di Bologna a marzo mi ha definito militare, in riferimento alla mia ferrea disciplina!). Ma sono molto soddisfatta dei risultati, nello specifico di “ Ophir. Codice vivente”, che ha superato ogni mia più rosea aspettativa (mi riferisco al mio gradimento personale del libro finito). Non solo: la fatica che ho fatto mi ha dimostrato che, se decido di scrivere, lo faccio e basta. Per uno scrittore, che vive tenendosi a stento a galla in un mare di dubbi, avere una tale sicurezza nei propri mezzi è di grandissimo conforto.
Inoltre negli ultimi due mesi, durante la stesura di “Oltre il limite”, grazie anche al NaNoWriMo, che mi ha spinto a scrivere un nuovo libro anche se non pensavo di essere ancora pronta a farlo (né ne avevo alcuna voglia), ho riscoperto il piacere di vivere dentro i personaggi e lasciare che loro mi mostrino la storia. Sono ancora con loro in questo momento e un po’ mi spiace al pensiero di abbandonarli per sempre alla fine di questo viaggio, visto che si tratta del libro finale di una serie.
Per cui, senza dubbio, concludo l’anno con grande ottimismo.
Vi chiederete: ma dal punto di vista economico?
Nel 2015 l’attività di autoeditore era stata la mia principale fonte di reddito.
Nel 2016, sebbene per ovvi motivi non abbia guadagnato le stesse cifre dell’anno precedente, in cui “ The Mentor” veleggiava ai primi posti della classifica del Kindle Store su Amazon.com, a conti fatti le royalty complessive ricevute sono state tali da permettermi ancora di dire che vivo di scrittura.
La vera sfida sarà riuscirci anche nel 2017.
Quelli che non sono proprio stata in grado di realizzare per questo anno sono due propositi che però dipendevano da fattori e da persone esterne.
Il primo era quello di vedere uno dei miei libri pubblicato in un’altra lingua (diversa dall’inglese, oppure un libro in più rispetto a quello preventivato) o comunque a venderne i diritti di traduzione per una pubblicazione nel prossimo anno, ma sto ancora lavorando alacremente per raggiungere questo risultato e sono in attesa di sviluppi che richiederanno ancora un po’ di tempo. Rimane comunque tra i miei obiettivi a lungo termine.
Il secondo riguardava il riuscire a sfruttare “ The Mentor” per mantenere una certa tranquillità economica per il prossimo futuro. Me l’ha data per questo anno, ma non abbastanza per adagiarmi sugli allori per quelli che seguiranno, proprio perché non si è ancora concretizzato il proposito precedente e il libro è ormai troppo vecchio per pretendere di guadagnare ancora direttamente da esso in futuro.
Ma veniamo un po’ ai propositi per il 2017. Sono pochi (si fa per dire) per il momento.
Eccoli:
1) completare (entro le prime due settimane di gennaio) la prima stesura di “Oltre il limite”, farne l’editing e pubblicarlo il 21 maggio prossimo. Voglio dare il massimo per questo libro e per farlo ho deciso di non scrivere nessun altro romanzo fino alla sua pubblicazione (salvo ispirazioni improvvise, di quelle che non lasciano scampo, accompagnate da tempo libero del tutto inatteso e quindi altrettanto improbabile);
2) riservarmi quattro settimane di pausa totale dell’attività editoriale (a partire dalla metà di gennaio) per ricaricare le batterie, dopo anni che non mi fermo, tranne che per qualche breve vacanza;
3) tenere di nuovo il corso di self-publishing, in una versione aggiornata agli ultimi cambiamenti del mercato, presso l’Università degli Studi dell’Insubria, probabilmente a ottobre (salvo problemi burocratici non dipendenti dalla mia volontà). Mi piacerebbe tenere una versione di questo corso anche in altri ambiti, per dare ancora di più il mio contributo per far conoscere e far crescere il self-publishing in Italia e per formare degli autoeditori preparati, e forse ne potrei avere l’opportunità, ma per il momento non mi sbilancio in previsioni;
 4) impegnarmi a partecipare a più eventi offline per promuovere la trilogia del detective Eric Shaw. Amo questi tre libri e voglio che raggiungano un numero maggiore di lettori, ma soprattutto mi rendo conto che non hanno ricevuto da me tutta l’attenzione che meritavano per conseguire certi risultati, neppure “ Il mentore” che anche in italiano ha venduto molto bene. Questo deve cambiare. Finora ho scritto tanto (sto finendo il mio dodicesimo libro). Adesso è arrivato il momento di dare più spazio a ciò che ho già pubblicato. Lo devo ai miei personaggi. E ciò è particolarmente vero per i miei thriller non fantascientifici, che tendo un po’ a trascurare rispetto ai libri del genere in cui ho più seguito qui in Italia (la fantascienza, appunto);
5) dedicare più tempo a FantascientifiCast (quest’anno ho davvero latitato e me ne dispiace… scusa, Omar!), cui devo la mia popolarità nell’ambito della fantascienza e che deve essere il mezzo per continuare a far sentire la mia voce (letteralmente) in questo contesto e giungere a nuovi potenziali lettori;
6) leggere almeno 52 libri;
7) programmare nei primi mesi dell’anno abbastanza post sui miei blog (italiano e inglese) da non ritrovarmi a doverne scrivere all’ultimo momento, quando ho poco tempo;
8) organizzare meglio il mio tempo in modo da rendere di più in ambito lavorativo, grazie al fatto che ne dedico una quantità maggiore, più giusta, al riposo, all’attività fisica e allo svago (soprattutto culturale, in tutte le sue forme, inclusa la conoscenza ottenuta tramite i viaggi);
9) scrivere tanto, possibilmente più di quanto ho fatto quest’anno (diciamo circa 200 mila parole), ma soltanto quello che desidero, come in queste settimane;
10) fare un bilancio del lavoro di questi cinque anni e concentrarmi sul mio modo unico di essere self-publisher, senza forzarmi in alcun modo di ricercare e copiare presunti metodi vincenti di altri (come dico sempre: non esistono formule magiche), poiché ognuno di noi ha il proprio modo di arrivare ai lettori e di raggiungere la propria definizione di successo. È una cosa che so e che cerco di insegnare agli altri, ma talvolta tendo a dimenticarmene, quando si tratta di me stessa.
Be’, credo proprio che sia tutto. Cosa ne pensate?
Su alcuni aspetti sono stata volutamente vaga, perché avrò le idee più chiare entro le prossime sei settimane, quindi non sono ancora in grado di inserire altri elementi in questo elenco.
In generale, come già presagivo un anno fa, è arrivato il momento di tirare le somme della mia attività di autrice e di autoeditore, ma sono felice di farlo, perché so che da esse si genererà l’embrione di nuovi interessanti obiettivi e nuove avventure da vivere per perseguirli.
Anche alla fine di questo anno ci tengo a chiudere ringraziando la mia famiglia, i miei amici, i miei collaboratori e i miei lettori, che continuano a starmi accanto come irrinunciabili compagni di questo mio viaggio lavorativo e personale.
Grazie a tutti voi.
E ancora a tutti voi che leggete, come sempre, chiedo di rivelare i vostri propositi per il nuovo anno, qui nei commenti o sui social network.
Il 2016 è andato come volevate? Che cosa desirate per il 2017?
     Il segreto custodito dai sicomori
Questo romanzo di Grisham, pur essendo ambientato nello stesso luogo e pur avendo lo stesso protagonista de “Il momento di uccidere”, non è un vero seguito e può essere letto senza conoscere la storia del primo, di cui vengono fatti dei brevi cenni solo laddove necessario.
Anche il tema è lo stesso, cioè quello del razzismo. Questa volta Jack Brigance, avvocato di Ford County, una contea del sud degli Stati Uniti dove il razzismo era ancora un grosso problema trent’anni fa (e suppongo che lo sia ancora), è alle prese con un testamento olografo scritto da un ricco bianco che, prima di suicidarsi (stava morendo di cancro), decide di diseredare i figli e lasciare il 90% del patrimonio, 24 milioni di dollari, alla propria cameriera di colore. Da ciò nasce una guerra legale per impugnare il testamento.
Mi è piaciuta molto, come sempre, la caratterizzazione dei personaggi, sia principali che secondari, e la ricostruzione dell’ambientazione (Ford County negli anni ’80). A ciò si aggiunge la solita bravura di Grisham nel raccontare le mille astuzie dietro la preparazione di una causa in grado di fare molto clamore.
Mentre i figli diseredati fanno di tutto per accusare Lettie di captazione (cioè di aver spinto l’uomo a cambiare il testamento, approfittando delle sue condizioni di salute, affinché lasciasse tutto a lei), nessuno sembra domandarsi perché l’abbia fatto, cosa ci sia sotto.
E così, in sordina, si dipana una sottotrama che porta alla verità e che è legata al titolo.
Si tratta di un racconto di qualcosa che potrebbe essere davvero accaduto, realistico in maniera sconvolgente. È una storia che appassiona e lascia il sorriso sulle labbra al momento dell’epilogo.
Ho una sola nota negativa da riferire. Amo il modo in cui Grisham vuole farci entrare nell’ambientazione, raccontando anche tutti i meccanismi legali e i dettagli sui personaggi. In questo libro, però, ho avuto l’impressione che l’info-dump fosse davvero un po’ eccessivo o comunque raccontato in maniera poco coinvolgente.
CUSy è l’IA che gestisce gli habitat marziani. CUSy veglia sugli abitanti di Marte, assicura il loro benessere, controlla i sistemi che li mantengono in vita. Ma chi controlla CUSy?

Anna Persson, Hassan Qabbani, Jan De Wit e, soprattutto, Melissa Diaz, che assurge al ruolo di protagonista, ritornano in “Ophir. Codice vivente”, che riprende le loro storie poco tempo dopo l’epilogo della serie marziana. Sono infatti passati appena tre anni terrestri dall’inizio del programma Aurora, che ha permesso la ripresa dei rapporti tra i colonizzatori di Marte e l’Agenzia Spaziale Internazionale (ISA) sulla Terra. Anche grazie a esso, Ophir è ora diventata una piccola città e, in cambio, gli scienziati terrestri hanno potuto attingere alle tecnologie avanzate sviluppate dai suoi residenti e da quelli degli altri insediamenti presenti su Marte. La leader degli abitanti del pianeta rosso, Melissa, non è però soddisfatta della lentezza con cui il programma sta progredendo. Con l’aiuto dell’IA (intelligenza artificiale) CUSy, detta anche Susy, riesce a violare i sistemi di comunicazione dell’ISA e a infiltrarsi nella rete globale terrestre per cercare un alleato tra i più dotati studenti del mondo, finché non ne individua una giovanissima e particolarmente brillante: Elizabeth Caldwell. Ma ciò che Melissa ignora è che Susy, col passare degli anni, si sta evolvendo ben oltre il proprio codice iniziale. È diventata curiosa, sta coltivando interessi e ambizioni, forse sta persino sperimentando dei sentimenti, e tutto ciò rappresenta l’espressione dell’emergere in lei di qualcosa assimilabile a una coscienza e che potrebbe spingerla ad azioni imprevedibili e potenzialmente pericolose.
“ Ophir. Codice vivente” è ora disponibile in formato ebook a 2,99 euro (in offerta fino all’11 dicembre) su Amazon, Giunti Al Punto, Google Play, iTunes, Kobo, Mondadori Store, LaFeltrinelli, Nook (attraverso l’app di Windows), Smashwords e 24Symbols (gratuito per gli abbonati) e in edizione cartacea a 11,99 euro su Amazon e Giunti.
L’edizione ebook è senza DRM in tutti i retailer.
In occasione dell’uscita della terza parte del ciclo dell’Aurora fino all’11 dicembre sarà possibile acquistare l’edizione ebook delle prime due parti, la raccolta di “ Deserto rosso” (4 libri) e il romanzo “ L’isola di Gaia”, a soli 1,99 euro ciascuno su Amazon, Giunti Al Punto e Google Play.
Ecco i link.
Se non siete mai stati su Marte (e in Antartide), non lasciatevi sfuggire l’occasione di andarci con le prime tre parti del ciclo dell’Aurora: potrete scaricare ben sei libri a meno di 7 euro!
L’offerta è valida solo in Italia.
A partire dal 12 dicembre il prezzo di “Ophir. Codice vivente” salirà a 3,49 euro in tutti i retailer e i prezzi di “Deserto rosso” e “L’isola di Gaia” su Amazon, Giunti e Google Play torneranno rispettivamente a 3,99 e 3,49 euro.
    Intenso, violento, scioccante
Questo è un romanzo estremamente complesso e ambizioso, che di certo ha richiesto all’autore un enorme lavoro di ricerca sulle dinamiche del traffico di droga tra Messico e Stati Uniti. Non conosco bene l’argomento, ma l’impressione che ho ricevuto dalla sua lettura è che l’autore racconti fatti reali, anche se ovviamente i personaggi e i dettagli delle loro specifiche storie sono inventati. Sono però assolutamente plausibili.
Durante la lettura ho rivisto nella mia mente alcune scene del film “Sicario” e ho provato la stessa sensazione di disagio, ma mille volte amplificata dal potere evocativo della parola scritta.
La storia sa essere coinvolgente, e quindi scioccante, laddove si arriva a raccontare efferati atti di violenza e omicidio. Alcune sequenze lasciano col fiato sospeso e ti spingono a continuare la lettura finché non sai come va a finire. Essa contiene tanti di quei doppi e tripli giochi che è difficile vedere un colpo di scena mentre arriva. Magari sai che sta per arrivare, ma non hai proprio idea di cosa succederà.
Ho particolarmente gradito, poi, il collegamento tra l’inizio del romanzo e la fine di uno degli ultimi capitoli.
In generale si tratta di un libro che va affrontato con l’intenzione di leggerlo in un breve periodo, poiché l’abbondanza di dettagli mette a dura prova la memoria del lettore. Personalmente trovo che questo sia un aspetto positivo per un romanzo, poiché segno di un gran lavoro di strutturazione della trama e perché mi stimola come lettrice.
Di contro ci sono alcuni aspetti che mi hanno impedito di dargli il massimo dei voti.
Il romanzo presenta tantissimo info-dump sui traffici di droga, la politica e tutto ciò che ci gira attorno. Capisco che sia essenziale per far comprendere il contesto in cui si svolge la trama, ma ho avuto difficoltà a leggere tutte queste informazioni e tendevo a saltarle, senza che questo mi facesse perdere nulla di essenziale sulla comprensione della storia, perché ero più interessata ai personaggi. Tutto ciò spezza parecchio l’azione, facendo sì che nel libro si alternino pagine raccontate, che tendono ad annoiare (a meno che tu non sia interessato all’argomento), ad azione vera e propria.
Ci sono inoltre troppi personaggi. Non è un problema di per sé, ma la loro eccessiva quantità rende faticosa l’immedesimazione in essi. È difficile riuscire a “sentirli” dentro di sé e, quando ci riesci, poi spariscono per decine di pagine.
In particolare la scelta di dedicare ognuno dei primi tre capitoli a un personaggio è abbastanza dispersiva. Sono stata sul punto di abbandonare il libro al secondo capitolo, perché non vedevo alcuna attinenza col primo. Era come se fosse un’altra storia. Solo alla fine del terzo ho iniziato a ricollegare le cose e ad apprezzare l’intreccio, ma non tutti i lettori riescono a spingersi così avanti, anche perché i capitoli sono molto lunghi.
Infine, c’è davvero molta violenza, mostrata in maniera molto diretta, che lo rende non adatto a persone facilmente suggestionabili. Io stessa sono stata contenta di averne finito la lettura, perché a tratti il libro mi stava deprimendo e impressionando. Anche questo aspetto non è di per sé negativo, poiché dimostra quanto il libro riesca a coinvolgere il lettore, ma personalmente non amo questo tipo di coinvolgimento così profondo con atti violenti e spesso disgustosi.
In altre parole, è un grande libro, un romanzo potente, ma avrei preferito non averlo letto, poiché mi ha lasciato con tanti sentimenti negativi. Per questo motivo non credo che leggerò il seguito.
     Un action thriller… contagioso
La trama di questo romanzo è ben architettata e ha come fulcro un personaggio maschile, Jonathan Smith, molto carismatico e credibile. Jon, come si fa chiamare dagli amici, è un medico, ma anche un militare. È un uomo intelligente e pieno di risorse, ma non il classico uomo d’azione perfetto. Ha dei difetti, compie degli errori, ma poi alla fine è anche un po’ fortunato (come capita sempre nei romanzi).
Per quanto questo libro non sia stato scritto soltanto da Ludlum, che sarebbe morto l’anno dopo la sua pubblicazione, il suo tocco è evidente. Infatti, pur essendo un libro molto lungo, si legge altrettanto in fretta, creando quasi dipendenza, e presenta un giusto equilibrio tra azione e introspezione dei personaggi.
Il tema trattato, quello di una pandemia provocata volontariamente per ottenerne un ritorno economico, fa riflettere. Lo scenario, pur essendo estremo, è comunque realistico e, proprio per questo, mette i brividi.
La parte scientifica, nonostante non sia eccessivamente sviluppata (a beneficio del lettore, che non si deve sorbire alcun info-dump), è credibile.
Tra i personaggi mi è risultato particolarmente simpatico quello di Marty, un nerd affetto dalla sindrome di Asperger. È stato interessante seguire il fluttuare dei suoi pensieri come i livelli delle medicine variavano nel suo corpo.
D’altro canto, questo romanzo non è esente da aspetti negativi, a iniziare dall’eccessivo head hopping. Non è funzionale alla storia, perciò sembra quasi causale e a tratti fa perdere l’immedesimazione nei personaggi.
Purtroppo il testo è impestato da tanti errori e tante scelte infelici di traduzione (ho letto un’edizione precedente a questa, ma dubito fortemente che il testo sia stato revisionato, perché non lo fanno mai). Ma come si fa a scrivere M16 invece di MI6 (tutte le volte, quindi non è un refuso)? Possibile che nessuno tra traduttrici (sono due), revisore e correttore di bozze conoscesse l’agenzia d’intelligence britannica di 007?
Sempre riguardo a questa edizione, purtroppo c’è da dire che la quarta di copertina anticipa buona parte del libro. È quindi consigliabile non leggerla affatto.
Al di là di tutto, si vede purtroppo anche il tocco del secondo autore, che mette eccessivo ordine nel modo di narrare più carico e apparentemente caotico di Ludlum, facendo perdere spontaneità e imprevedibilità al testo.
Il finale apre a una serie di libri, che possono essere letti anche separatamente con una limitata o senza alcuna vera sottotrama, cosa che purtroppo sa di operazione commerciale. Per questo motivo non credo che leggerò altri libri di questa serie, anche perché i due successivi, cui Ludlum ha partecipato (non saprei dire in che misura), sono postumi, mentre tutti gli altri sono completamente scritti da altri autori.
Nonostante gli aspetti negativi mi sono molto divertita a leggere questo libro, perciò ho deciso comunque di dargli massimo dei voti.
     Si può cambiare il passato?
I romanzi di Matheson sono tutti speciali, in qualche modo. Ciò che mi affascina di questo autore è la sua capacità di presentare storie completamente diverse, spesso anche di generi diversi, che sembrano non sentire il passaggio del tempo. Quando apro un suo libro, qualunque sia il periodo in cui l’ha scritto, so già che rimarrò stupita.
“Appuntamento nel tempo” è tante cose: un romanzo sui viaggi nel tempo, ma anche d’amore, e un finto diario della discesa verso la follia di una persona affetta da una malattia incurabile. Sta al lettore decidere come interpretarlo. Qualunque sarà la sua scelta, si ritroverà in mano un’opera coinvolgente e intensa.
Durante la lettura mi sentivo davvero nella mente e nella pelle del protagonista (il solito quasi-eroe dei libri di Matheson, in cui ogni persona riesce a immedesimarsi per via del suo essere ordinario e fallibile) e anch’io mi sono lasciata trasportare nel passato dalla ricostruzione storica evocativa dei luoghi e delle usanze. Il coinvolgimento è stato tale che ho letto tutta la seconda parte, in cui la trama pare accelerare, in pochissimo tempo.
Come sempre nei suoi libri, anche in questo caso la storia raccontata è tremendamente moderna per essere vecchia di quarantacinque anni. Di storie sui viaggi nel tempo ne sono state scritte tante, ma qui il protagonista non trova un qualche dispositivo tecnologico o magico per andare in un’altra epoca. Qui il protagonista scopre per caso le tracce del proprio passaggio nel passato e si convince che è destinato ad andarci, e che per farlo deve solo crederci.
E Matheson ci fa vivere in maniera così realistica la sua vita interiore che finiamo per crederci pure noi.
La struttura della storia è davvero ben studiata. Non è facile raccontare tramite un diario, che presume una narrazione a posteriori degli eventi, e far sentire al lettore come se questi stessero accadendo in quel preciso momento. Per riuscirci l’autore inserisce delle pause all’interno della trama che il protagonista sfrutta per riportare brevemente ciò che è appena accaduto. In realtà di breve non c’è nulla, poiché le scene narrate sono spesso molto lunghe, ma si tratta comunque di un artificio letterario convincente.
Il finale è un po’ telefonato, ma in fondo la logicità del tutto e la poesia con cui viene espresso lo rende comunque soddisfacente.
Forse ciò che rende questo romanzo particolarmente riuscito è il fatto che, nonostante la storia appartenga al genere fantastico, dà comunque l’impressione che non sia solo plausibile, ma anche, grazie alla capacità di Matheson di mescolare fatti e personaggi storici reali con altri del tutto inventati, che sia davvero accaduta.
Anche quest’anno per la quarta volta mi cimento nella sfida novembrina di scrivere le prime cinquantamila parole di un nuovo romanzo in trenta giorni. Precedentemente ho tentato e vinto la sfida nel 2012 con “ Il mentore” (pubblicato nel 2014), nel 2013 con “ Affinità d’intenti” (pubblicato nel 2015), che è anche l’unico mio romanzo scritto dalla prima all’ultima parola proprio in un mese (mi riferisco solo alla prima stesura), e nel 2015 con “ Sindrome” (pubblicato lo scorso maggio), seguito de “Il mentore”.
In un certo senso per me novembre è diventato il mese in cui scrivo i thriller e quest’anno mi ripeto con “ Oltre il limite”, libro finale della trilogia del detective Eric Shaw. Finora ho scritto poche scene del libro e ho in mano ancora un’outline incompleta, ma sto lentamente entrando nello spirito della storia, grazie soprattutto al fatto che ho appena completato la prima scena in cui compare il protagonista.
Calarmi di nuovo nella sua mente mi emoziona, nonostante trovi sempre più faticoso scrivere i libri successivi di una serie. Il personaggio di Eric Shaw mi dà una particolare soddisfazione, forse perché si tratta di un protagonista maschile. Nella maggior parte dei miei libri, infatti, il protagonista è una donna. L’unica altra eccezione è “ Per caso”, scritto anch’esso durante una competizione simile, il Camp NaNoWriMo dell’aprile 2015. Invece, dover far girare una storia intorno a un uomo, ai suoi pensieri, alle sue emozioni e a quelle sue fragilità che cerca di nascondere (ma non può farlo con me!), rappresenta per me, in quanto donna, qualcosa di molto particolare, poiché si tratta di uno sforzo creativo che va decisamente oltre lo scrivere ciò che conosco e si sposta verso il conoscere attraverso ciò che scrivo.
È difficile spiegare il tipo di sensazione che ciò mi suscita, ma chiunque abbia mai dovuto creare dal nulla un personaggio completamente diverso da se stesso (per sesso, carattere, convinzioni, inclinazioni e così via) o immedesimarsi, per qualunque motivo, in una persona del genere può avere un’idea di cosa intendo.
Anche questo novembre (e una parte di dicembre) Eric mi accompagnerà in un’intensa avventura scrittoria, l’ultima che affronteremo insieme, almeno sotto forma di romanzo. E già mi sale un po’ la malinconia, perché inevitabilmente finisco per affezionarmi a queste persone immaginarie che nella mia mente sono del tutto reali. Lasciarle andare è difficile, ma è necessario, per consentire ad altre di emergere.
Nonostante si tratti del mio quarto NaNoWriMo (cui si aggiungono quattro versioni Camp) ogni volta la sfida è reale. So di essere in grado di scrivere 50 mila parole in 30 giorni, ma tra esserne consapevole e farlo c’è di mezzo un bel po’ di sofferenza.
Eppure c’è un motivo per cui torturo me stessa con questa sfida: il motivo è che funziona.
Ci sono sempre innumerevoli valide ragioni per non scrivere o per smettere di farlo prima del tempo, ma avere un obiettivo giornaliero per trenta giorni di fila evidenzia come, in fondo, ognuna di tali ragioni possa essere messa da parte senza troppa fatica.
Grazie al NaNoWriMo l’agonia che accompagna l’atto creativo, fatta di dubbi, incertezze e costrizioni, dura al massimo un paio di mesi, invece di trascinarsi per un anno o più. La disciplina mentale che un impegno come il NaNoWriMo ti conferisce, fatta di dichiarazioni pubbliche giornaliere del numero di parole scritte e di quelle che si intende scrivere o fatta dell’aggiornamento costante del conteggio sul proprio blog (o, come nel mio caso, di entrambe le cose) e ovviamente sul sito della competizione, per quanto mi riguarda non ha eguali.
Ogni anno mi ritrovo a osservare l’andamento della gara dei miei buddy sul sito del NaNoWriMo o di altri partecipanti sul gruppo ufficiale italiano su Facebook e noto una varietà di comportamenti. Molti di loro, spinti dalla paura di non riuscire a tenere il ritmo, partono di gran carriera, scrivendo svariate migliaia di parole nei primi giorni, ma poi rallentano e spesso si bloccano ben prima del traguardo. L’errore in alcuni casi nasce proprio dal fatto che non vogliono sentirsi con l’acqua alla gola, si prendono il sicuro con una partenza a razzo e poi si rilassano troppo, esaurendo presto la propria vena creativa.
Il vero scopo del NaNoWriMo è però un altro: scrivere in media almeno 1667 parole al giorno, cioè creare un ritmo produttivo costante. Non è quello di scrivere di più, per mettere parole da parte, quasi fossero dei risparmi, ma piuttosto di allenare la propria creatività a scrivere quelle 1667 in un tempo più breve e con maggiore facilità.
 Ogni autore di certo ha un approccio diverso alla scrittura, ma credo che quasi per tutti spesso la parte più difficile sia l’atto di iniziare.
Per me iniziare una nuova scena è sempre un trauma. Per questo motivo ciò cui punto ogni volta che mi metto davanti al foglio bianco è proprio scrivere una sola scena, per non dover affrontare più di una volta il trauma dell’inizio. E, visto che l’obiettivo giornaliero sono quelle 1667 parole, la soluzione è scrivere ogni volta una scena che abbia almeno quella lunghezza (può essere inferiore, solo se si è un po’ avanti sulla tabella di marcia). Se per qualche motivo non riesco a raggiungere quella quota con una scena, torno indietro, la rileggo e la rimpolpo. Questo perché avere fretta nello scrivere non è una buona cosa. Certe volte si hanno così chiari in mente gli eventi da narrare che si rischia di cadere nell’eccesso di sintesi, che impedisce al lettore di immedesimarsi nelle problematiche dei personaggi.
Avere un obiettivo numerico minimo di parole per singola scena mi impedisce di finire in questa trappola e quindi mi consente di scrivere delle scene equilibrate, col ritmo giusto e una lunghezza tale da costringere il lettore a non staccarsi dal libro.
D’altra parte, una volta terminata la scena (a obiettivo numerico raggiunto), anche se so come andare avanti (perché ho comunque un’outline, anche se parziale) e, magari, avrei anche il tempo per farlo, invece mi fermo, perché sono anche consapevole che, se faccio passare un altro giorno, nuove idee e sviluppi migliori di quelli che ho già pensato di certo salteranno fuori, permettendomi di scrivere un libro migliore. Per questo motivo non ha senso, a mio parere, mettere parole e scene da parte, poiché la fretta può spingere la storia verso una direzione al momento più semplice, ma che col tempo potrebbe rivelarsi inadatta ai personaggi, compromettendo il risultato finale. Al contrario, domare la propria creatività e costringerla a certi ritmi permette ai personaggi di esprimersi e indicare all’autore la strada giusta.
Certo, c’è chi scrive e quindi partecipa al NaNoWriMo solo per il puro piacere di scrivere fine a se stesso, senza particolari ambizioni. In tal caso, deve solo seguire il proprio istinto, in quanto la disciplina di cui parlo non è affatto divertente, anzi, è una vera e propria tortura.
Ma chi, invece, sta scrivendo una prima stesura con lo scopo di trasformarla poi in un libro finito che verrà pubblicato addirittura in un giorno già stabilito nel futuro, come nel mio caso (l’uscita di “Oltre il limite” è prevista per il 21 maggio 2017), deve per forza di cose avere un altro approccio.
Chi non si è mai trovato in questa situazione potrebbe pensare che io faccia violenza a me stessa (in un certo senso non si sbaglia del tutto), ma come avviene per l’attività fisica anche nella scrittura la gratificazione raramente deriva dal compiere l’atto in sé, bensì dalla soddisfazione che si prova al suo completamento. Perciò il mese di novembre sarà un mese di sofferenza, ma alla fine di ogni sessione di scrittura in cui avrò raggiunto il mio obiettivo mi sentirò soddisfatta di me stessa. Alla fine tale soddisfazione raggiungerà il proprio apice quando digiterò quella cinquantamillesima parola. E sarà bellissimo, proprio come ciò che si prova quando, alla fine di una lunga corsa, ci si ferma per prendere fiato.
Quel traguardo, però, è ancora lontano. Nel frattempo, vi chiedo soltanto di tifare per me!
    Un buon romanzo, non altrettanto buona l’edizione
Non mi capita spesso di leggere thriller italiani e ho deciso di cimentarmi nella lettura di questo libro di Riccardo Bruni, proprio perché pubblicato da Amazon Publishing. Ero curiosa di capire che quale fosse la loro linea editoriale in Italia.
Come immaginavo, mi sono ritrovata con un romanzo che, nonostante presenti numerose caratteristiche che richiamano alla memoria la realtà italiana, non soffre affatto di provincialismo. In altre parole, ritengo che sia un romanzo apprezzabile ovunque nel mondo e quindi da un pubblico di lettori abituato a spingersi oltre i confini.
La trama è molto ben architettata a livello di struttura. Trovo che sia molto pregevole il modo in cui sono incastrate le scene per aggiungere man mano, senza fretta e al momento giusto, nuove informazioni alla storia. La prosa di Bruni accompagna il tutto, riuscendo a essere a tratti molto evocativa.
La scelta di raccontare al presente in terza persona per gran parte del romanzo è coraggiosa. Si tratta di una combinazione poco usata che può stranire il lettore, ma l’autore riesce a destreggiarvisi abbastanza bene.
Ho trovato, purtroppo, l’ambientazione un po’ evanescente. Non sono riuscita a visualizzare nella mia mente i luoghi in cui le vicende si svolgono. E allo stesso modo non sono riuscita a farmi coinvolgere in maniera particolare dai personaggi. In genere, quando leggo un libro, riesco a entrare in sintonia con uno di essi, che sia o meno il protagonista, ma questa volta non mi è capitato.
Anche per questo motivo mi sono ritrovata ad analizzare con freddezza la trama e a capire molto presto l’identità dell’assassino.
Queste ultime valutazioni sono comunque legate a gusti personali.
Ciò che, invece, mi ha lasciato perplessa è la qualità non particolarmente buona dell’edizione e devo dire che ne sono rimasta stupita, proprio perché si tratta di un libro pubblicato da Amazon Publishing, cioè un editore con dei mezzi, almeno in teoria, di un certo livello.
Al di là di qualche evidente refuso o altro errorino (cose che si trovano in tutti i libri di qualsiasi editore), possibile che nessuno nella catena di revisione del testo (editor, correttore di bozze) conosca la differenza tra “che” e “ché” o sappia che il vocativo deve essere separato da una virgola?
Quando errori di questo tipo appaiono una o due volte, si può invocare il refuso, ma una scusa del genere non regge quando l’errore si ripete tutte le volte (la forma “ché”, che introduce una causale, quindi col significato di “perché”, viene sistematicamente scritta senza accento) o quasi (nel caso del vocativo all’interno dei dialoghi).
Un altro aspetto che ha creato più di una distrazione durante la lettura è il fatto che i messaggi inviati sul cellulare non fossero adeguatamente segnalati e distinti dal resto del testo. Non so se si tratti di un problema tecnico del file nel mio Kindle (il che sarebbe un po’ ironico, visto che gli ebook e gli ereader li vendono loro) o di una scelta (in tal caso, una pessima scelta).
È anche possibile che da quando ho acquistato il libro a oggi siano state fatte delle correzioni, o almeno è quello che spero, altrimenti sarebbe davvero un peccato, poiché la qualità mediocre dell’edizione distrae dalla lettura e riduce la possibilità di apprezzare un libro che ha comunque un buon valore intrinseco.

Ambientato nel prossimo secolo, “L’isola di Gaia” si apre nello scenario quasi alieno dell’Antartide, dove in un’isola al largo della Baia di Margherita un gruppo di persone vive isolato dal resto del mondo, costantemente sottoposto a un inganno. Ignari del fatto che le percezioni dei loro sensi siano alterate, gli uomini e le donne che abitano la città di Hope pensano di essere liberi e di lavorare insieme per la sopravvivenza di quel poco di umanità rimasta sulla Terra dopo un cambiamento climatico di portata globale. Ma niente del genere è veramente accaduto e, quando qualcuno dall’esterno entrerà in contatto con due di loro, Gaia e Rivus, ciò darà l’avvio a una serie di eventi che cambierà per sempre la vita degli abitanti di Hope. Nel tentare di sventare il progetto di cui loro malgrado fanno parte, i protagonisti di questo romanzo corale diventeranno bersaglio di uno sconosciuto nemico e sveleranno al lettore la loro vera natura. Le loro vicende si intrecciano con quelle degli scienziati inglesi Gabriel Asbury ed Elizabeth Caldwell, le cui ricerche potrebbero permettere all’Agenzia Spaziale Internazionale di superare l’ultimo scoglio che impedisce all’Uomo di compiere viaggi verso altri mondi: i limiti del corpo umano, perfezionato alla vita sulla Terra. Il romanzo si svolge trentacinque anni dopo la fine della serie di “Deserto rosso”, con cui ha delle strette connessioni, ma può essere letto anche in maniera indipendente. Esso rappresenta un ingresso alternativo al ciclo dell’Aurora.
“L’isola di Gaia” è un techno-thriller fantascientifico ascrivibile al sottogenere del cyberpunk. In esso, però, il transumanesimo e la realtà virtuale sono solo degli strumenti per raccontare, attraverso un contesto fantascientifico, come la percezione della realtà da parte delle persone possa essere distorta a tal punto da vanificare il concetto stesso di libero arbitrio. Le scelte compiute dai personaggi del romanzo, apparentemente libere, sono invece condizionate da come le loro conoscenze e il modo stesso con cui percepiscono il mondo che li circonda sono manipolati dall’esterno.
L’edizione acquistabile su Google Play è in ePub senza DRM e quindi leggibile su qualsiasi dispositivo (incluso Kobo e iPad).
È inoltre disponibile in edizione cartacea (a 11,99 euro) su Amazon e Giunti.
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