Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
    La versione sporca e cattiva di “Chi Ha Incastrato Roger Rabbit?”
È difficile definire il genere di questo libro, ambientato in una Milano distopica di un futuro fin troppo vicino. La gente si droga con i cartoni animati, generando così delle copie dei personaggi nel mondo reale. Questi personaggi sono molto fisici, ma non si capisce effettivamente da dove spuntino fuori. Siamo di certo nel campo del fantastico, ma non proprio in quello della fantascienza. Ma ciò non mi stupisce, poiché è evidente che a Tonani non piacciono le etichette, poiché è più concentrato nello sviluppare una propria voce di autore. Il lettore che apprezza la sua voce (come me), a sua volta, si disinteresserà delle etichette.
Il romanzo ci mostra una lunga nottata di azione, senza un attimo di respiro, e il ritmo concitato spinge a una lettura in pochissimi giorni.
Il finale aperto non chiude veramente tutti i fili o, meglio, non lo fa in maniera esplicita. Sta al lettore interpretare alcuni dettagli.
Senza dubbio si tratta di un’opera originale, in cui, come sempre, Tonani sfoggia una prosa evocativa e mai banale.
Ho trovato interessanti anche i preludi ai capitoli, dove Crash B. racconta la genesi dei vari cartoni. È sempre bello imparare qualcosa di nuovo durante la lettura di un romanzo.
In definitiva è stata una lettura piacevole che mi sento di consigliare a chiunque abbia voglia di affrontare un libro a mente aperta.
     Ottimo crime thriller, nonostante una certa mancanza di originalità rispetto al precedente della serie
Ultimamente la Cornwell sta prendendo l’insana abitudine di uccidere un personaggio ricorrente per libro, o almeno questo è ciò che è accaduto negli ultimi due che ho letto. Spero che si dia una calmata, altrimenti non ne resteranno molti!
Ma veniamo al libro.
Parte con ritmo molto lento nella prima parte, tanto che il primo cadavere arriva molto tardi. Mi è comunque piaciuto il modo in cui l’autrice costruisce tutta la storia dal solo punto di vista della Scarpetta, sfruttando i dialoghi con altre persone, e la chiude nel giro di poco più di un giorno.
A mio parere, però, la scelta di questo approccio per questo romanzo presenta due problemi. Il primo è che per gran parte del libro, che è abbastanza lungo, ci sono solo lei e pochi altri personaggi, rendendo lo sviluppo della trama ancora più statico. Per fortuna c’è Marino, ma Lucy e Benton arrivano tardi e sembrano quasi insignificanti nell’ambito della storia. Il secondo è che la Cornwell ha usato una struttura molto simile nel libro precedente, quindi si ha la sensazione che quest’ultimo manchi di originalità.
D’altra parte non mi dispiace affatto che il caso sia strettamente connesso al libro precedente, poiché dà continuità alle sottotrame, che diventano perciò preponderanti. Ciò rende il libro fruibile solo da chi ha letto almeno il precedente, ma in tal modo le continue spiegazioni riferite a esso diventano inutili e contribuiscono alla lentezza del libro.
È molto difficile se non impossibile capire l’identità del colpevole. Col senno di poi ci si rende conto di alcuni dettagli che potevano essere notati dal lettore, solo che si perdono nella marea di informazioni che la Cornwell mette nei suoi libri, la maggior parte delle quali non ha una reale rilevanza nell’economia della trama.
Ho invece trovato molto sfizioso l’elemento scientifico utilizzato per spiegare gli omicidi. Una biologa come me non ha potuto fare a meno di apprezzarlo!
Anche stavolta la risoluzione finale mi ha fregato. Arriva in un singolo capoverso, anzi in un singolo periodo. Per la fretta di sapere cosa sarebbe accaduto, non ho letto bene l’ultima proposizione e poi al capoverso successivo ho scoperto che il colpevole era stato colpito, ma io non me n’ero accorta. Per l’ennesima volta sono dovuta tornare indietro a rileggere. Non c’è niente da fare: succede sempre così.
Il capitolo finale di epilogo serve unicamente per unire tutti i punti e uccide di nuovo il ritmo che si era creato, portando a una conclusione senza infamia e senza lode.
Vi chiederete perché ho dato 5 stelle nonostante tutti questi difetti. Be’, perché, preso singolarmente, questo è un libro costruito ottimamente e ben scritto (sebbene io non ami certe scelte stilistiche della Cornwell, ma apprezzo la sua coerenza nell’utilizzarle). Di certo avrebbe avuto un impatto maggiore su di me, se il precedente non avesse presentato una struttura così simile.
So che la Cornwell preferisce scrivere in prima persona dal punto di vista della Scarpetta. Ammetto che, invece, io preferisco i suoi libri in terza persona, poiché le storie sono più aperte e meno statiche, e perché così lei ha l’opportunità di esplorare dei punti di vista diversi da quelli di Kay Scarpetta che, diciamocelo, non è proprio simpaticissima!
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     Meno originale dei precedenti, ma tecnicamente perfetto
Questo terzo romanzo della serie di Bosch è finora quello che mi è piaciuto di più. Nonostante sia apparentemente più lineare dei precedenti (cosa che in genere non amo), l’autore ha giocato benissimo le proprie carte.
Scopriamo finalmente l’evento che ha rappresentato la genesi del personaggio come lo conosciamo: il fatto di aver ucciso un uomo disarmato, pensando che stesse per tirare fuori una pistola. L’uomo in questione altro non era che un serial killer, ma Bosch aveva agito senza chiamare i rinforzi e per questo motivo era stato retrocesso nel proprio lavoro in polizia.
Quattro anni dopo, mentre Bosch sta subendo una causa civile per quella uccisione, da parte della famiglia del serial killer, salta fuori un nuovo omicidio che porta la stessa firma, ma compiuto in un secondo momento.
Bosch ha ucciso l’uomo sbagliato? O si tratta di un emulatore?
La storia si svolge tra tribunale e risoluzione del caso. Abbiamo a che fare col caso di un serial killer abbastanza convenzionale, in cui l’assassino è tra i personaggi della storia e va individuato. L’autore cerca di portarci in una direzione sbagliata dopo l’altra. Sarebbe tutto facile (o quasi), se non ci fosse di mezzo il processo, che ci distrae e ci fa cambiare prospettiva.
Questo romanzo non è originale come i due precedenti, ma è tecnicamente perfetto e, a differenza dei precedenti, dà al lettore anche la piccola soddisfazione di avere gli elementi per capire in anticipo chi è l’assassino. Che ci riesca, poi, è tutta un’altra storia.
In questo contesto continua poi a svilupparsi l’aspetto privato della storia del protagonista, che rimane centrale nella trama del libro e rischia di avere dei risvolti drammatici.
Il finale rassicurante ha tutta l’aria del preludio di una nuova tempesta.
    Tradito dal finale
La storia di questo romanzo è originale e piena di cambi di direzione imprevedibili. Ricorda per certi aspetti la serie di Dexter, ma è evidente il tocco britannico nel modo di ragionare, parlare e agire del personaggio principale (ma anche degli altri)... e dal numero impressionante di tè che vengono preparati!
L’aspetto e il nome del protagonista non vengono mai riportati nel testo, lasciando al lettore la scelta di immaginarlo come preferisce. Nonostante il fatto che abbiamo a che fare con una persona che uccide a sangue freddo per soddisfare le proprie pulsioni, l’autore ci fa immedesimare così bene nella sua mente che, dopo lo smarrimento iniziale, finiamo per tifare per lui, soprattutto nel momento in cui incontra Rachel e perde il controllo del proprio mondo distorto per via del fatto che si è innamorato.
Per il 90% del libro l’autore ci fa letteralmente ridere delle avventure di un serial killer e poi alla fine tutto crolla. L’autore mette le mani avanti, facendo dire al personaggio che nelle favole ci sono i lieti fini, ma nella vita reale le cose sono diverse. E no! Io non stavo leggendo un resoconto di vita reale, ma finzione. Nella vita reale non avrei mai simpatizzato con un serial killer e riso dei suoi delitti. E anche alla fine, per coerenza, mi attendevo lo stesso sguardo surreale e una conclusione che non ricadesse nella “normalità”, ma che con un altro colpo di scena che non avrei mai potuto prevedere mi lasciasse con il sorriso. Invece la storia si fa melodrammatica e sfocia in un finale prevedibile in un contesto realistico, un finale che temevo sarebbe arrivato dal momento stesso che ho visto la trama del libro e ho deciso di leggero, eppure speravo di sbagliarmi.
Peccato, perché l’autore non ha voluto o saputo osare e purtroppo alla fine l’apprezzamento di un libro da parte del lettore dipende proprio nel fatto che trovi un finale degno del resto della storia.
Gli ho dato quattro stelline, nonostante non mi sia piaciuto il finale, perché mi ha tenuta incollata all’ereader finché non l’ho finito, perché mi ha fatto ridere tanto, perché è scritto davvero bene e lo stile dell’autore è davvero coinvolgente, e perché ho amato follemente il protagonista fino alla fine. Ottima anche la traduzione e l’edizione in generale (ho notato solo pochi refusi).
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Il 21 maggio 2017 uscirà l’ultimo libro della trilogia del detective Eric Shaw, “ Oltre il limite”. In quello stesso giorno inizieranno gli eventi narrati nel romanzo, che vedranno il detective Shaw e la sua squadra del Servizio di Scienze Forensi di Scotland Yard alle prese col presunto ritorno di un serial killer che pensavano di aver fermato oltre tre anni prima.
Questa investigazione, oltre a essere l’ultimo suo impegno come caposquadra prima di una sua possibile promozione, rappresenta per Eric l’occasione per prendere un’importante decisione per il futuro. Dal 2014, infatti, custodisce insieme alla sua allieva un terribile segreto, che adesso rischia di venire alla luce.
Dopo la rivelazione recata da “ Il mentore” (bestseller internazionale con oltre 170 mila lettori in tutto il mondo) e il tentativo di Eric di opporsi, senza riuscirci, alla realtà in “ Sindrome”, “ Oltre il limite” segnerà il momento di compiere una scelta definitiva, da cui non potrà tornare indietro.
L’ebook è senza protezione DRM, quindi potrà essere visualizzato in un numero illimitato di dispositivi.
Se lo prenotate adesso, allo scoccare della mezzanotte del 21 maggio verrà recapitato sul vostro dispositivo e potrete iniziare subito a leggerlo!
Ai primi di maggio sarà prenotabile anche su Google Play e in formato cartaceo (circa 550 pagine), mentre su 24Symbols sarà disponibile a partire dal giorno della pubblicazione.
Ecco la descrizione del libro.
Fin dove saresti disposto a spingerti, per proteggere un segreto?
Il corpo senza vita di una donna in abito da sera viene scoperto nella sala delle feste del museo delle cere. Tutto farebbe pensare a un suicidio, ma il detective Eric Shaw, caposquadra della Scientifica di Scotland Yard intervenuto sul posto con la criminologa Adele Pennington, nota subito delle similitudini con il caso del serial killer soprannominato ‘chirurgo plastico’, risolto tre anni prima con l’arresto di un uomo: Robert Graham.
Forse qualcuno lo sta emulando oppure Graham aveva un complice, ma esiste una terza possibilità ed è questa in particolare a preoccupare Eric, che all’epoca, certo della colpevolezza del sospettato, aveva falsificato una prova fisica per assicurarne la condanna.
E se avesse compiuto un errore e mandato in prigione la persona sbagliata?
Le indagini lo riportano a lavorare con Miriam Leroux, la giovane detective della Omicidi che fino all’anno precedente collaborava con la sua squadra, e insieme a lei si ritroverà a seguire le tracce di un inafferrabile assassino, in una corsa contro il tempo lunga tre giorni.
Questo potrebbe anche essere il suo ultimo caso importante prima di un’eventuale promozione a sovrintendente, se non fosse per il fatto che il detective George Jankowski, in lizza per lo stesso avanzamento di grado, ha deciso di giocare sporco per mettere in cattiva luce il collega e favorire la propria carriera.
Nel farlo, però, questi finirà per avvicinarsi pericolosamente all’inconfessabile segreto custodito da Eric e dalla sua allieva.
    Troppe coincidenze sfortunate
Questo romanzo è caratterizzato da una storia intricata, che l’autrice è stata in grado di gestire con cura e attenzione. I tanti fili che si dipanano nella stesura della trama si uniscono poi alla fine.
Il passaggio tra le due linee temporali avviene sempre in maniera intelligente, tenendo il lettore incollato al libro. Non a caso aspettavo con piacere di mettermi a leggere, prima di andare a dormire.
Forse il ritmo con cui la storia si sviluppa è un po’ lento e ciò mi rendeva un po’ troppo impaziente di andare oltre per sapere cosa sarebbe accaduto. Non sono riuscita a legare con il personaggio della voce narrante (Libby), ma mi è piaciuto molto quello del fratello, anche se ha avuto dei momenti di incoerenza ingiustificata.
A mio parere, il problema principale di questo romanzo è la presenza di eccessive coincidenze, sfortune e cattiverie. Davvero troppe, tutte concentrate nel lasso di un unico giorno.
Il finale poi è sotto tono. Una volta chiarito cosa è accaduto, l’autrice smette di mostrare e inizia a raccontare, come se non vedesse l’ora di chiudere il libro. Ciò mi ha lasciato con l’amaro in bocca.
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     Breve ma intenso
Questo romanzo breve, il secondo della trilogia noir di Matheson, è la corsa folle di un personaggio che in poche ore riesce a distruggere quel che resta della propria vita. Convinto di essere stato derubato della donna che ama, fugge dal manicomio, dove è detenuto per aver ucciso suo padre e nel quale è pure lui stesso vittima di abusi, per “salvarla”. Ma la donna in questione non ha mai ricambiato i suoi sentimenti. È tutta una creazione della sua mente.
E il libro rappresenta proprio un viaggio prima di tutto nella mente del protagonista, alla scoperta di come la follia si genera e del modo in cui lo spinge ad agire.
Matheson anche questa volta mi stupisce con una storia diversa dalle altre precedenti. Attraverso i punti di vista dei cinque personaggi principali, attraverso il modo personale con cui ciascuno di loro la interpreta, si svelano uno strato alla volta i dettagli della trama. Il tono dell’intero romanzo è drammatico, costellato di violenza e morte. Come lettrice mi sono preoccupata per le sorti delle vittime, ma anche del protagonista folle, che è a suo modo una vittima in grado di suscitare pietà.
La scelta di chi uccidere e chi far sopravvivere alla fine non è casuale. Accanto allo sprofondamento del protagonista nel delirio si delinea l’ascesa di un altro personaggio e la redenzione dell’ultima vittima.
    Geniale protagonista antieroe, caso non memorabile
Con questo romanzo scopro un antieroe che non può non diventare subito un idolo. Cormoran Strike, figlio di una rockstar e di una supergroupie, ed ex-militare veterano dell’Afghanistan, dove ha perso un piede e una gamba in un’esplosione, è un investigatore privato squattrinato appena abbandonato dalla fidanzata. Tutto sembra andare a rotoli nella sua vita, quando compaiono una nuova segretaria interinale e un danaroso cliente, che lo vuole assoldare per dimostrare che sua sorella, famosa top model, non si è suicidata.
La storia si svolge tra le strade di una familiare Londra odierna, nel mondo patinato della moda cui Strike non appartiene, ma al quale deve comunque adattarsi per portare avanti la propria indagine. E ci riesce pure bene, strappando più di una risata al lettore!
Si tratta di un romanzo molto lungo, che, nonostante offra qualche scorcio sulla vita del protagonista e che questo subisca una certa crescita nell’arco della storia, è a tutti gli effetti un giallo.
Buona parte del testo è costituito da interrogatori e da altri dettagli delle indagini, che fanno un po’ perdere la cognizione del passaggio del tempo. C’è tanto di quel materiale da impedire al lettore di unire i punti per capire chi è l’assassino, a meno che non punti direttamente al meno probabile senza saperne il perché.
Ma alla fine chi se ne frega dell’assassino di Lula Landry?
Devo dire che nel complesso mi è piaciuto.
Sono due le cose che mi hanno impedito di dare la quinta stellina.
La prima è la tendenza dell’autrice (che sappiamo essere niente meno che J.K. Rowling) a cambiare punto di vista nel bel mezzo di una scena. Ciò mi faceva perdere la connessione con la storia e mi costringeva a interrompere la lettura e tornare in dietro per cogliere la transizione.
La seconda è che, nonostante ci fossero i presupposti per una maggiore presenza della sottotrama relativa al protagonista (che è la cosa migliore del libro), questa è invece solo marginale. È un peccato, perché Strike in sé è molto più interessante del caso, la cui risoluzione non mi ha impressionato e che ho in gran parte già completamente dimenticato.
Se non fosse stato per il bellissimo (non di certo in senso estetico!) protagonista, non sarei riuscita a dare al libro una recensione positiva.
     L’erede di Bourne (e di Ludlum)
Il cambio di penna si nota eccome, nonostante ciò, devo dare merito a Van Lustbader di essersi impegnato per avvicinarsi a Ludlum in tanti piccoli dettagli (per esempio, l’uso di bestemmie, anche se non in maniera così eccessiva). Però la differenza c’è. La scrittura di Van Lustbader è molto più ordinata, ma priva di quella follia che Ludlum conferiva ai propri personaggi e che li rendeva fragili, fallibili e quindi umani. Questo nuovo Jason Bourne è molto più lucido e controllato. Si può prendere come pretesto il passaggio del tempo e una maggiore maturità del personaggio, che pare tenere sotto controllo la propria psicosi, ma ci sono degli aspetti che mancano al lettore abituato al protagonista della vecchia trilogia. Sebbene Bourne menzioni dell’esistenza di una doppia personalità dentro di sé, io non sono riuscita a vederla. Non c’è traccia nel libro della lotta continua tra Jason Bourne e David Webb nella sua stessa mente, spesso costellata di battibecchi.
Questo nuovo Jason Bourne indistruttibile ricorda quello dei film e non ha niente a che vedere con l’uomo che continuava a vivere sull’orlo del fallimento, sia a livello fisico che mentale, visto nei libri di Ludlum.
Devo dire che, soprattutto all’inizio, questa mancanza ha diminuito il mio coinvolgimento nelle vicende del personaggio, finché non è stato messo in luce un elemento essenziale della trama (da cui poi deriva il titolo). Da quel punto in poi Van Lustbader ha giocato bene le proprie carte nello scavare nella psicologia del personaggio e nella sua interazione con questo suo “erede”, spingendomi verso la necessità di continuare a leggere e suscitando in me il piacere dell’attesa del momento in cui avrei letto ancora.
Mi è dispiaciuta la totale assenza di Marie, che viene soltanto nominata, mentre nella vecchia trilogia era un personaggio cardine nell’evoluzione del protagonista.
Rispetto ai libri di Ludlum, dove non avevo mai idea di cosa sarebbe accaduto nella pagina successiva, questo di Van Lustbader è a tratti abbastanza prevedibile, per chi abbia un po’ di esperienza di storie d’azione. Il fatto di seguire un determinato schema naturale di evoluzione della storia non è assolutamente un demerito di per sé, ma, messo a confronto con la prosa indisciplinata di Ludlum, ne esce un po’ male.
Piuttosto, non capisco la necessità, per un libro così ben costruito, di ricorrere a mezzucci come lo spezzare una scena tra due capitoli. Ogni singola scena è così ben scritta e suscita tale e tanta curiosità, che non ha alcun bisogno di obbligare il lettore a non fermarsi alla fine di un capitolo.
L’ultima parte del libro è dir poco perfetta, poiché fonde introspezione (di tutti i personaggi) e azione in maniera equilibrata e coinvolgente. Peccato per una scelta non coerente compiuta da Bourne verso la fine, cioè non raccontare una certa cosa alla moglie. Ciò è totalmente fuori dal personaggio. Ma d’altronde il fatto che lui pensi alla moglie così poco in tutto il romanzo, mentre era di continuo al centro dei suoi pensieri nella trilogia, lo fa allontanare parecchio dal Bourne di Ludlum, rendendolo ancora una volta meno umano.
E anche la scelta compiuta dal suo “erede” non è sufficientemente motivata: è solo un pretesto per lasciare l’argomento in sospeso.
L’epilogo presenta un finale aperto, come è giusto che sia, che fa ben sperare per i romanzi successivi. Questo, insieme alla virtuale perfezione degli ultimi capitoli, soprattutto a livello emotivo, mi ha spinto verso il massimo dei voti, nonostante i difetti, a riprova del fatto che il finale di un libro ha un peso enorme sul suo gradimento.
Oggi ho una nuova ospite sul blog. Si tratta di Annamaria Bortolan, autrice del romanzo “I colori dell’autunno“. Annamaria ci illustra le analogie e le differenze esistenti tra la fantascienza e il realismo magico nell’ambito della narrativa.
L’immagine accanto è stata realizzata dall’autrice.
Il realismo magico è una corrente artistica che riguarda sia le arti figurative che la letteratura. La sua tipicità consiste nel proporre il fantastico come datità che non necessita di spiegazione. Ad esempio ne “ La metamorfosi” di Kafka la trasformazione del protagonista in insetto è proposta come realtà fattuale su cui l’autore non si sofferma in relazione alle sue possibili cause.
La fantascienza, pur avvalendosi di meccanismi narrativi logici (la scoperta di qualche nuova teoria nell’ambito della fisica, per esempio), analogamente propone al lettore la realtà di mondi paralleli senza supportarla attraverso una serie di prove che possano essere effettivamente considerate inoppugnabili. Ciò dona immediatezza al testo e rende possibile l’immedesimazione del lettore. La narrativa fantascientifica ha così saputo coniugare la presenza di elementi fantastici con la divulgazione di messaggi filosofici o politici con immediatezza ed incisività. E, non di rado, il potere di un testo di penetrare acutamente la realtà è inversamente proporzionale agli elementi fattuali e oggettivi che mette in scena. Se poi tutto ciò è condito da una certa piacevolezza ci troviamo di fronte a un bel romanzo. E i testi di fantascienza lo sono, ecco perché li leggo e li consiglio volentieri. Esistono ovviamente anche numerose differenze fra realismo magico e fantascienza. Leggete questo articolo se volete approfondire la questione.
Se nella science fiction il rapporto con la tecnologia è positivo e fondamentale nell’ambito della narrazione, il realismo magico può farne a meno o, addirittura, porsi in maniera critica nei confronti delle scoperte scientifiche.
Nel romanzo “ Cent’anni di solitudine” di G. García Marquez, Macondo è un paese i cui abitanti vivono in uno stato di innocenza primordiale: non conoscono l’utilizzo della calamita, della dentiera e del cannocchiale, né comprendono le leggi fisiche che regolano l’universo. Di fronte agli zingari che propongono loro tutte queste cose, compreso qualche giro aereo su una magica stuoia volante, i nativi si mostrano affascinati e stupefatti ma, a parte un bizzarro esponente della famiglia Buendia, un alchimista dedito a strampalati esperimenti, si limitano ad usufruirne senza cercare di proporre a loro volta qualche singolare novità realizzata per mezzo delle conoscenze tecniche di cui, del resto, appaiono mancanti. Macondo è un luogo immaginario dove i miracoli possono accadere, un mondo appartato dove nessuno è mai morto di morte naturale (almeno fino all’arrivo dei nomadi) in quanto ogni abitante conduce pacificamente la sua vita. E, forse, proprio questa mancanza di tecnologia che sembra caratterizzare la cittadinanza di questo villaggio irreale conferisce agli abitanti quella ingenuità da bimbi che rende possibile l’accettazione del magico nella vita quotidiana.
 Macondo è un monito per tutti noi: non esiste solo un mondo fatto di leggi della scienza ma anche quel quid di imperscrutabile proprio del mistero stesso della vita a cui non pensiamo quasi mai. Per scorgerlo, talvolta è necessario lasciarsi alle spalle la rigidità della ragione per aprirsi alla fluidità dei sentimenti e della magia che è dentro di noi.
Realismo magico e fantascienza possono aiutarci: per questo apprezzo molto sia l’uno che l’altra. Non a caso mi sono servita del primo per arricchire il mio romanzo pubblicato di recente come ebook e intitolato “ I colori dell’autunno” con un risultato finale davvero sorprendente.
Il valore di un testo non sta semplicemente nella verosimiglianza ma piuttosto nella sua capacità di mettere in discussione i luoghi comuni e nella riflessione che ne scaturisce.
ANNAMARIA BORTOLAN, insegnante di ruolo, ha collaborato a partire dagli anni dell’università con diversi periodici, occupandosi soprattutto di antropologia del sacro e, in quest’ambito, ha pubblicato due saggi: “ I simboli del sacro” (Torino 2007) e “ I misteri del mito” (Torino 2009).
Ha inoltre lavorato con l’antropologo Massimo Centini firmando alcune prefazioni ai suoi libri.
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