Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
   Affascinante ma deludente
Sono sempre molto attratta da libri ambientati in luoghi lontani e i cui protagonisti vivono culture profondamente diverse dalla mia. Sono storie che aprono la mente, che ci insegnano a vedere il diverso e a rispettarlo, per quanto ci appaia estraneo e contrario al nostro modo di vedere, a ciò che noi consideriamo giusto. E, da donna, mi piacciono le storie di questo tipo raccontate dal punto di vista di una donna, che spesso mi portano a notare che, sebbene nelle differenze, esistono comunque dei punti in comune, che sono universali.
Con queste aspettative mi sono cimentata nella lettura di “An Unproductive Woman”. Dal titolo si può immaginare di cosa parli. È la storia di una donna che non riesce ad avere figli, ma è allo stesso tempo molto più complessa di così.
È ambientata in Senegal, in un contesto musulmano, con una figura di donna intesa come madre di figli e in situazioni di poligamia in cui spesso il marito è molto più vecchio delle sue mogli.
È già un argomento difficile da trattare per una donna occidentale, ma ha un suo fascino. È interessante apprendere il modo di pensare di queste donne per le quali è normale sposare un uomo ben più grande di loro, per le quali la presenza di altre mogli è qualcosa che può accadere, sebbene non vadano matte per l’idea, ma tendono comunque ad adattarvisi. È interessante vedere questo tipo di dinamiche familiari e tutti i problemi di gelosie, discussioni e litigi che vi si possono osservare.
C’è da specificare che non siamo di fronte a situazioni che implicano abusi. Le donne raccontate in questo romanzo sono donne libere di fare ciò che vogliono. Gli unici limiti che hanno sono quelli dettati dalla loro stessa mentalità.
Il libro è scritto molto bene, lo stile evocativo dell’autrice ti porta dentro la testa di queste donne e dei loro uomini.
Eppure non ne sono stata soddisfatta.
La trama abbastanza complessa aveva degli spunti interessanti. Adam dopo aver vissuto un lungo periodo in America dove aveva una moglie e un figlio maschio, torna in Senegal per “dovere”, perché la sua famiglia, che non sa nulla di questa moglie e questo figlio, vuole che lui prenda moglie nel suo Paese.
E lui lo fa. Per poi passare il resto della sua vita a pentirsi di aver perso quel figlio maschio. Sì, avete letto bene, il figlio maschio, non perché ha abbandonato la sua famiglia.
Il motivo del suo pentimento è soltanto che la sua nuova giovane moglie, Asabe, sembra non essere in grado di dargli alcun figlio, tanto meno maschio. In caso contrario appare evidente che mai si sarebbe pentito.
Mentre Adam si affanna a trovare una moglie capace di ciò, una serie di sfortune, morti, nascite di figlie femmine, malattie e così via gli impediscono di raggiungere questo sogno. Qui l’ironia della sorte, o il karma, o il suo stesso Dio lo stanno punendo per il suo comportamento. E questo è forse l’aspetto più equilibrato della storia.
Dal canto suo Asabe, che non sa nulla del suo passato, continua ad amarlo e subire quel suo desiderio che lei non può esaudire. Mentre il figlio perduto da adulto scopre che il padre lo cercava.
Tutto ciò ha le potenzialità di un grande dramma e, invece, si sgonfia in un insulso buonismo davvero difficile da mandare giù.
Non c’è vero pentimento laddove ci dovrebbe essere, e c’è perdono laddove pare del tutto impossibile che ci sia.
Onestamente non so se la storia possa essere realistica. Da occidentale non lo sembra, ma cercando di aprire la mente ad altre culture le concedo il beneficio del dubbio e dico che forse la sospensione dell’incredulità potrebbe aver retto.
Ma ciò non impedisce l’esistenza di due aspetti veramente deludenti.
Il primo è il tentativo di presentare una situazione controversa per poi farla piegare al conformismo dell’ambiente in cui si sviluppa. In tutto questo dov’è la crescita dei personaggi? Non c’è. Sono tutti statici, fermi sulle loro convinzioni o, peggio, invece finiscono per regredire. La riconciliazione è di una prevedibilità disarmante.
Nella vita reale sono convinta che succeda così, la gente per quieto vivere lascia correre, perdona, va avanti. Ma questa è finzione. Se nella finzione il conflitto non porta a una crescita e a una risoluzione inattesa, i fatti sono due: non funziona lasciando il lettore perplesso o semplicemente lo annoia poiché non offre nulla di nuovo.
L’altro aspetto che proprio non riesco ad accettare è questa immagine della donna che come unici pensieri ha fare figli, avere cura di loro, del marito, i loro sentimenti, i pettegolezzi, le gelosie... ecc... solo e unicamente queste cose. Nonostante il romanzo entri nel dettaglio in tutti questi aspetti, raccontandoci anche la quotidianità di queste donne, mai una volta che in loro riesca a trasparire un benché minimo interesse per un qualsiasi altro argomento. A parte forse Asabe che vediamo qualche volta curare il giardino (ma pare più che altro un aspetto di contorno), possibile che non abbiano altri interessi nella vita? E, badate bene, non parliamo di una famiglia che vive in condizioni di indigenza in cui le donne non si possono permettere “frivolezze” (ovviamente non sono veramente frivolezze, visto che gli interessi di una persona ne definiscono la sua essenza), tutt’altro. Adam è un imprenditore. Le sue mogli hanno tutto quello di cui hanno bisogno. Capisco che tradizionalmente si occupino di faccende “da donne”, okay, ma oltre a questo il nulla. O sono donne di una pochezza di spirito pazzesca (tutte?) o, come penso, l’autrice ha deciso di volerci mostrare dei personaggi la cui continua preoccupazione è quella di ottenere l’attenzione di un uomo codardo ed egoista. Sembra quasi che la sua sia una provocazione nei confronti del mondo occidentale in cui lei vive.
Niente mi convincerà che una cosa del genere possa essere realistica. E purtroppo, benché io possa apprezzare il suo intento, ne sono rimasta delusa, poiché, in poche parole, non me l’ha data a bere.
Questo libro è in lingua inglese!
     Tra fantasy e storia
Da buona appassionata di romanzi storici ambientati nell’antico Egitto non ho saputo resistere alla tentazione di leggere questo libro di un autore italiano che in questo genere si confronta con autori famosi quali Jacq e al pari di quest’ultimo mescola con efficacia i fatti storici reali con l’aspetto fantasioso della religione e magia del tempo.
Come ogni romanzo che cerca di racchiudere in sé gran parte della vita di un personaggio risente un po’ della sua struttura episodica. Vengono raccontati vari eventi, ognuno dei quali si conclude per dare spazio a sviluppi avvenuti in un periodo successivo. Per questo motivo al termine di ogni singola sfida che i protagonisti devono affrontare ci si può staccare dal libro senza grossi problemi. La narrazione è però così piacevole che si finisce poi per tornarci con la stessa facilità.
Gli eventi narrati vanno dall’arrivo di Archimede ad Alessandria fino alla sua “scomparsa” molti anni dopo a Siracusa, per la quale l’autore offre una spiegazione molto interessante.
Elemento centrale della storia, come si può desumere dal titolo, è la sua storia d’amore con la sacerdotessa Cleoth. Con delicatezza e sensibilità Bertoni ci racconta questo loro sentimento e le vicende cui esso li ha condotti, impreziosite da elementi fantasy che contribuiscono a dare a questo libro un alone di mistero in cui tutto è davvero possibile.
Accanto a esso c’è la storia, quella vera, e i racconti delle mirabolanti invenzioni di Archimede, genio del suo tempo, che vanno sapientemente ad arricchire il romanzo senza appesantirlo di nozioni e senza mai creare cali di tensione.
Insomma, un bel libro che vale molto più del prezzo irrisorio cui viene venduto.
     Il tiramisù come non lo avete mai visto (e assaggiato) prima
Confesso che ho acquistato questo libro perché amo il tiramisù e spero di spingere qualcuno a prepararmi una di queste delizie!
Nel frattempo mi sono messa a leggere il libro e a studiare un po’ le ricette.
Prima di tutto trovo molto azzeccata l’idea di dedicare un intero libro a questo famoso dolce. L’autrice ha preso spunto dalle varianti della ricetta base del tiramisù che ha avuto modo di assaggiare nelle cene a casa degli amici. Ha poi chiesto ad amici e parenti di inviarle la ricetta corredata di foto. Si tratta quindi di un libro che raccoglie l’esperienza di diverse persone, per la maggior parte italiane, ma non tutte.
Devo dire che le ricette sono scritte in maniera molto chiara e sono estremamente facili da seguire anche per chi come me non è molto esperto in cucina, poiché le procedure vengono descritte passo passo. Chiunque ci si potrebbe cimentare.
Le foto sono molto belle e ben fruibili anche da chi ha scaricato il libro nell’ereader. Nonostante il bianco e nero, si apprezzano bene i dettagli, il file non è affatto pesante e il cambio pagina è fluido.
È davvero sorprendente la varietà di modi in cui è possibile preparare il tiramisù. Onestamente non avevo idea che ce ne potessero essere così tanti. Ci sono ricette per tutti i gusti e per tutte le abitudini alimentari (vegani, persone a dieta, celiaci) e permette di preparare un dolce per tutte le occasioni e tutti i tipi di ospiti.
Molto carina è la parte dedicata agli autori delle ricette. Abbiamo modo di conoscerli un po’ da vicino, scoprire dove vivono e cosa fanno nella vita. A ognuno di loro l’autrice ha anche chiesto quale fosse il suo dolce preferito.
Questo, però, non è solo un libro di ricette.
Nella parte iniziale l’autrice si sofferma a parlare del tiramisù, dei suoi ingredienti, e offre addirittura una lista di domande frequenti con relative risposte per chi non ha familiarità con questo dolce.
Dopo le ricette vi sono poi altre due sezioni.
Quella dei "Tiramisu Disasters" è molto utile per capire quali errori si possono fare nella preparazione, in modo da evitarli.
E poi c’è la divertente sezione del "Tiramisu Party" che propone delle idee originali per organizzare una festa a base di tiramisù, dagli inviti fino ai giochi (molto divertente il Tiramisu Quiz).
In breve si tratta di un libro ben fatto, utile per chi voglia cimentarsi nella preparazione di questo delizioso dessert, ma può essere anche un’ottima idea regalo.
   Un esperimento riuscito solo a metà
Ho scoperto casualmente questo libro su Pinterest, dove mi sono imbattuta nell’autrice Annarita Petrino, che mi ha detto di scrivere fantascienza cristiana. La cosa mi ha incuriosito non poco. Infatti, benché questo sottogenere esista soprattutto nel mercato anglofono, non mi era mai capitato di sentirne parlare in Italia. Ho quindi accettato volentieri di leggere questa raccolta di racconti, considerando che amo la fantascienza e al contempo sono una credente.
Ammetto che alla fine della lettura mi sono sentita un po’ stranita e subito mi sono chiesta che cosa avesse suscitato in me questa sensazione. Non so cosa mi aspettassi da “You God”, ma non è di certo quello che ho trovato.
Prima di tutto specifico che la raccolta contiene quattro racconti, davvero molto diversi tra loro, e voglio anche precisare che la Petrino scrive molto bene. Ma allora cosa c’è che non va? I problemi vanno dalla struttura della trama, o dalla sua mancanza, fino alla cura dei personaggi.
Il racconto che ho preferito è stato il secondo, “Judy Bow”. Non a caso è quello con una trama molto più complessa e ben delineata e soprattutto con un personaggio principale che è in grado di uscire dalla pagine e diventare reale. L’argomento è quello dell’opportunità dell’accanimento terapeutico, un argomento molto attuale, che divide e suscita sentimenti contrastanti che prescindono del tutto dal fatto di essere o no credenti. Questa universalità del tema presentata da un personaggio tratteggiato in maniera realistica sono gli elementi vincenti del racconto.
La fantascienza, devo dire, è solo un contesto, e questo è l’unico appunto che mi sento di fare. La storia poteva forse reggere con qualche aggiustamento di trama in contesti meno distanti dalla nostra realtà, ma è chiaro che difficilmente avrebbe attirato alla lettura un lettore di fantascienza come me.
Per il resto il racconto è ben riuscito. Il messaggio cristiano c’è, ma è sottile. Persino il lettore non credente, superata la diffidenza iniziale nel leggere un racconto di fantascienza cristiana, credo che possa condividere le sofferenze e il dilemma di Judy e comprendere le sue decisioni. Il finale aperto accompagnato dalla speranza impreziosisce ancora di più questo scritto.
In altre parole ritengo che in “Judy Bow” l’intento di far apprezzare il messaggio cristiano possa riuscire, proprio perché in questo contesto può essere condivisibile da chiunque a prescindere dal fatto che creda o no in Dio.
Purtroppo questo “meccanismo” non funziona altrettanto bene negli altri tre racconti.
Nel primo, “Imperfezioni”, si parla di intolleranza verso il diverso. È ambientato in un futuro distopico, in un mondo dove si tende alla perfezione genetica e fisica e si emargina chi ne è lontano. Le premesse per un buon racconto e per utilizzarlo in modo da trasmettere un messaggio cristiano c’erano tutte. Anche qui si parla di una tematica, quella del rispetto verso il diverso, condivisibile indipendentemente dalle proprie inclinazioni religiose. Alla fine però la storia non mi ha convinto. Temo che il motivo sia una caratterizzazione non approfondita dei personaggi. Non sono riuscita a immedesimarmi nelle loro problematiche e ho trovato un po’ eccessive le loro azioni. Ho avuto l’impressione che nel tentare di mettere in rilievo l’aspetto cristiano, l’autrice si sia dimenticata che la fantascienza è un genere di intrattenimento e, se il lettore non si diverte (in senso lato), difficilmente apprezzerà il messaggio.
Gli ultimi due racconti invece mancano proprio di una trama. Sono la trasposizione in un contesto fantascientifico di alcune riflessioni. Il risultato è che il lettore non credente fuggirà a gambe levate. Ammetto che io stessa di fronte alla profusione di citazioni bibliche in “Hic et nunc” sono stata tentata di abbandonarlo. E io la Bibbia la leggo volentieri. Mi è sembrato più un esercizio fine a se stesso che un tentativo di raccontare una storia.
Infine l’ultimo brevissimo racconto, che dà il nome alla raccolta, cioè “You God”, non mi è piaciuto. Il motivo è che non ho proprio gradito il tentativo di creare un dualismo tra la fede verso Dio e quella verso l’uomo e la scienza. Chiunque, come me, è credente, studia la scienza e dà notevole valore a ciò che l’Uomo è in grado di fare sa che un dualismo del genere esiste solo nella mente di chi si ostina a conoscere solo uno dei due aspetti. Fede e scienza/umanità sono solo due diverse angolazioni da cui vedere la stessa cosa. E sono totalmente complementari. L’una non deve escludere l’altra. Per un credente, a maggior ragione, l’una non può escludere l’altra. Perché ci deve essere da una parte Dio e dall’altra il robot You God che conserva i ricordi delle persone che muoiono? Perché non si possono avere entrambe le cose? Anzi, io penso che chiunque faccia uso solo di una di queste due prospettive stia perdendo qualcosa. Credo che entrambi i personaggi del racconto alla fine siano in errore. Capisco il tentativo di creare una contrapposizione rispetto alla fantascienza “atea”, ma credo che rispondere a un comportamento estremo con quello opposto, sempre estremo, non sia la soluzione, perché impedisce il dialogo, allontana invece di unire.
Dovendo dare un giudizio generale su quest’opera, ritengo che se il tentativo della Petrino era quello di avvicinare i credenti alla fantascienza (la copertina che non ha nulla di fantascientifico mi fa ritenere che sia così), potrebbe in parte esserci riuscita. Magari potrebbe riuscirci ancora meglio, se ampliasse l’aspetto fantascientifico delle sue storie.
Se invece il suo intento era di avvicinare gli appassionati di fantascienza a tematiche cristiane, temo che sia ancora lontana (a iniziare appunto dalla copertina). Se il lettore non è credente e quindi parte prevenuto nel momento in cui si appresta a leggere questo libro, la lettura non farà che confermare la sua impressione. Se il suo intento è conquistare questo tipo di lettore, forse dovrebbe rendere un po’ meno ingombrante il messaggio cristiano, inserendolo nelle maglie della storia senza sbatterlo in faccia a chi legge, in modo da far riflettere con serenità sulla tematica trattata, scavalcando i pregiudizi. D’altronde moltissimi temi cristiani sono universali e quindi condivisibili o meno a prescindere dal credo di ciascuno di noi (o dalla sua assenza), quindi perché non sfruttare questo aspetto?
Il libro purtroppo non è al momento disponibile su Amazon.
   Una lettura impegnativa ma non ricompensata dal finale
Non ho un rapporto felicissimo con la narrativa cyberpunk o è più corretto dire che finora solo raramente sono riuscita a trovare dei libri di questo sottogenere della fantascienza che mi fossero congeniali. Non credo che sia colpa del cyberpunk, che anzi affronta tematiche decisamente sfiziose, ma piuttosto immagino di essermi imbattuta in qualche libro sbagliato. “Criptosfera” è in gran parte uno di essi, per quanto nel complesso non mi sia dispiaciuto.
Non parlerò della trama in questa recensione, poiché forse la cosa più bella è immergersi nell’universo creato dall’autore senza sapere nulla e lasciarsi meravigliare dai prodigi partoriti dalla sua fantasia. Preferisco concentrarmi su come è scritto e cercare di capire perché non mi sia piaciuto del tutto.
Ho apprezzato le scelte compiute da Banks nell’uso delle tecniche narrative, ma non del tutto come le ha messe in pratica. Portare avanti dei filoni separati di una storia per farli ricongiungerle è una bella sfida. Purtroppo ciò impedisce di fornire al lettore un protagonista ben definito. Ognuno dei personaggi principali dei singoli filoni ha tutto ciò che serve per essere apprezzato dal lettore, ma il modo frammentario con cui viene presentato gli fa perdere la speciale connessione che si crea tra questo e il protagonista o un altro personaggio principale al quale il lettore tende ad affezionarsi. Ciò è accentuato dal fatto che alcuni di questi personaggi sono pochissimo approfonditi, sono quasi evanescenti. Si ha la costante sensazione di leggere in parallelo delle storie separate, quasi dei libri diversi ambientati nello stesso universo, ma non tutti dello stesso livello di qualità. Ciò tende un po’ a disorientare, soprattutto all’inizio della lettura, ma poi le cose migliorano, soprattutto se come me si è abituati a fare delle letture parallele e riuscire a tenerle vive allo stesso tempo nella propria mente.
Altro elemento di difficoltà è dato dalla scelta di raccontare la storia narrata da Bascule, uno di questi personaggi principali, usando un’ortografia di tipo fonetico (sto parlando di circa un quarto dell’intero romanzo). È necessario sentire le sue parole nella mente per poterle capire. Sicuramente è una scelta coraggiosa e molto originale. Al lato pratico, però, io che amo leggere anche per migliorare l’uso della lingua (che sia l’italiano o altra lingua in cui leggo) l’ho trovata semplicemente fastidiosa e me ne rammarico, poiché il personaggio di Bascule è il meglio tratteggiato di tutto il romanzo, anche perché racconta la sua storia in prima persona e lo fa con una notevole ironia.
Al di là di questi aspetti, come dicevo, il modo in cui la storia viene narrata non mi è del tutto dispiaciuto. Durante la lettura si iniziano a scorgere i collegamenti tra i vari filoni e si crea una sensazione di attesa per un finale che promette grandi rivelazioni.
E qui nasce il problema principale. Dopo una serie di scene d’azione avvincenti si arriva di colpo al finale che pare sbucare dal nulla, senza risolvere assolutamente nulla!
Purtroppo un buon libro con un finale che non funziona, per quanto mi riguarda, smette di essere buono. Peccato.
Una nota sul traduttore: merita sei stelle, se non altro per la capacità che ha avuto di decifrare la parte di Bascule in “inglese” e trasferirla degnamente in “italiano”.
La serie di “Deserto rosso” si è chiusa undici mesi fa con l’ultimo libro, “Ritorno a casa”, un titolo dall’aria conclusiva, ma che invece, come ben sa chi l’ha letto, mostra proprio con quelle parole, le ultime del libro, che la storia non è affatto finita.
“Deserto rosso” è, infatti, solo la prima parte di un ciclo di fantascienza chiamato Aurora.
Non posso dire il perché di questo nome, ma chi ha letto la serie già lo sa. Il ciclo dell’Aurora comprende altre quattro parti, nella forma di romanzo singolo, che verranno pubblicate da qui al 2020 (salvo imprevisti). A esso ho dedicato un sito monotematico ( www.desertorosso.net), che vi invito a visitare, ed esso include in tutto cinque parti, ognuna delle quali, a eccezione dell’ultima, può essere letta anche singolarmente, per quanto lasci degli interrogativi sospesi e un finale aperto che solo la lettura di tutte le altre può permettere di comprendere. Aggiungerei anche che per evitare spoiler è sempre meglio leggere i libri in ordine di pubblicazione, che non corrisponde a quello dello svolgimento cronologico dei fatti.
La seconda parte è, appunto, “L’isola di Gaia”, che cronologicamente si inserisce 35 anni dopo la fine di “Deserto rosso” (quindi circa un secolo avanti rispetto al nostro presente). Non è però il suo sequel naturale. Tra questo e la serie originale avranno luogo gli eventi che verranno narrati nei libri successivi, “Ophir” e “Sirius”. Infine ci sarà l’ultimo libro del ciclo, da cui esso prende il nome, cioè “Aurora”, la cui comprensione richiede per forza di cose la lettura dei precedenti.
Ma oggi voglio parlarvi de “L’isola di Gaia”, che può essere considerato uno spin-off di “Deserto rosso”.
In realtà, la prima stesura di questo libro venne scritta tra il 2009 e il 2011, prima ancora che decidessi di cimentarmi nella serie marziana. Va da sé che si tratta di tutto un altro mondo, letteralmente. La storia è ambientata sulla Terra. Verranno presentati nuovi personaggi, anche se qualche vecchia conoscenza comparirà in un cameo, e nuove situazioni e minacce. Ma, osservando da vicino gli eventi, riconoscerete qualche dettaglio, avrete l’impressione di aver già sentito qualcosa del genere, mentre i personaggi del romanzo ne sono all’oscuro. La peculiarità di questa storia è, infatti, che i suoi protagonisti non sanno nulla di ciò che è accaduto su Marte decenni prima, ma voi sì! E le vostre conoscenze vi permetteranno di valutare i fatti con occhio ben diverso.
Non aspettatevi però un altro “Deserto rosso”. A cambiare non sono solo luoghi, tempi e personaggi. Con questo romanzo si osserva un maggiore distacco dalla scienza reale, quindi dalla fantascienza hard (per quanto noterete l’intromissione del mio background biologico, con qualche elemento di genetica e soprattutto di ecologia; intesa come scienza e non come ambientalismo!), e ci si sposta appena verso un altro sottogenere, il cyberpunk. Ma si tratta più che altro di un techno-thriller, con numerosi elementi di suspense e, sì, alcuni morti ammazzati (otto, se non ne ho dimenticato qualcuno, più uno suicidato).
 Cambiano anche gli equilibri tra i personaggi. “ Deserto rosso” era essenzialmente la storia di Anna Persson e tutto alla fine girava intorno a lei, per quanto si potevano individuare alcuni comprimari d’eccellenza, quasi dei co-protagonisti.
Ne “L’isola di Gaia” esiste una voce narrante, di cui non posso svelarvi l’identità, poiché si scopre a circa un terzo del romanzo. La storia raccontata è la sua, ma non è l’unica protagonista, né il personaggio più in scena durante tutto il suo corso. Questa all’inizio compare di tanto in tanto nella storia parlando in prima persona, ma man mano che si va avanti il suo ruolo si fa più importante. E, infatti, sarà lei a chiudere poi il romanzo.
Ma oltre a lei ci sono dei veri e propri co-protagonisti, si chiamano Gaia (quella del titolo, sì, ma lo stesso si riferisce anche alla Terra), Andrew (uno dei personaggi il cui nome inizia per A, caratteristica immancabile nei miei libri) e Gabriel. Accanto a loro ci sono tutta una serie di comprimari, alcuni dei quali ritornano più volte lungo il corso del romanzo (come Rivus Gado, John Wright, Isabella Gredani, Raviv, Angelica, Samir), mentre altri appaiono per un solo capitolo per poi scomparire (come Virginia Logan; questo nome dovrebbe dirvi qualcosa).
Come al solito nei miei libri non ci sono dei buoni assoluti o dei cattivi assoluti, la maggior parte dei personaggi tira l’acqua al suo mulino. Chi è troppo buono o troppo cattivo è destinato a soccombere o a non ottenere ciò che vuole. Entrambi in fondo sono dei personaggi disturbati, anomali. La normalità sta sempre nella zona grigia. Tutti comunque, volenti o nolenti, devono affrontare degli eventi più grandi di loro contro i quali provano a combattere, ma alla fine non possono vincere.
L’elemento sentimentale, che in “Deserto rosso” viaggiava parallelo alla trama fantascientifica, è qui meno importante. Dover orchestrare insieme più protagonisti con relativi filoni di trama rende quasi impossibile riuscire ad approfondirli tutti in questo senso. La particolare natura di ognuno di loro impedisce che abbiano un passato degno di questo nome. Ciò fa de “L’isola di Gaia” un romanzo corale. Questo non significa che non ci sia di mezzo qualche faccenda sentimentale. C’è eccome ed è davvero molto controversa.
Sfruttando il fatto che la storia è ambientata fra circa cento anni, mi sono spinta un bel po’ in là nel raccontare questo mondo del ventiduesimo secolo. Ammetto di essere curiosa di vedere come certe mie idee verranno recepite. Involontariamente si potrebbe scorgere qualcosa di distopico in esso e allo stesso tempo molti elementi utopici, perché in fondo io sono un’ottimista quando si parla di futuro. Da una parte c’è un mondo cinico e perverso e dall’altra chi almeno in apparenza agisce in buona fede secondo dei principi altruistici. Purtroppo, anzi direi ovviamente, però lo fa solo alla ricerca di un proprio appagamento, di fronte alla situazione di disagio in cui vive.
Come sempre, cerco di mostrare tutto questo senza dare giudizi. Non c’è nessun messaggio dietro le mie storie, se non quello che ogni punto di vista presenta del buono e del cattivo, ogni personaggio sa essere egoista e altruista secondo le circostanze e la propria convenienza.
Preferisco fornire degli spunti insoliti e lasciare al lettore il compito di trarne il proprio messaggio personale.
La storia si svolge sulla Terra, in particolare per metà di essa nel luogo del nostro pianeta che più di tutti sembra essere alieno: l’Antartide. Per l’altra metà? Be’, non posso dirlo.
Il romanzo è suddiviso in cinque parti, ognuna delle quali termina con un evento importante che porta la storia in un’altra direzione. Ed eccole:
1) Sole a mezzanotte. Ha come location principale la città di Hope, in Antartide, e come personaggio principale Gaia.
2) Neve. Qui ci spostiamo in luoghi più noti e i due filoni della trama presentati nella parte precedente si uniscono. Alla fine di essa scopriamo l’identità della voce narrante (per chi non l’avesse già intuita) e soprattutto la sua natura. E conosciamo Andrew che pian piano toglie la scena a Gaia, diventando il personaggio più importante di questa e delle prossime due parti.
3) BioSynth. Questa prende il nome dall’azienda di Gabriel Asbury, le cui ricerche sono al centro della trama. La terza parte è la più lunga di tutte (quanto le due precedenti messe insieme). Tra azione e rivelazioni, tra presente e passato (sì, ci sono dei flashback ma diversi dal solito), si scopre cos’è Hope e cosa è veramente successo a Gaia.
4) L’isola che non c’è. Questa è la parte in cui il conflitto si trasforma in scontro, fino alla resa dei conti. Termina con un falso finale (ovviamente, visto che non è l’ultima parte).
5) Aurora Australe. È un epilogo per alcuni personaggi, che salutiamo, ma il vero inizio per altri. Qui si chiarisce (in parte) il legame con “Deserto rosso”. La rivelazione finale farà di certo nascere in voi una domanda: ma cosa diavolo è successo in quei 35 anni per arrivare a questo punto?
Per scoprirlo, se la cosa vi interessa, dovrete leggere gli altri libri del ciclo dell’Aurora.
Qualche numero per concludere.
“L’isola di Gaia” è costituita da 5 parti, 20 capitoli e 134 mila parole. Come lunghezza è quasi quanto la somma dei primi tre libri di “Deserto rosso”.
L’uscita del libro è prevista in e-book per il 30 novembre 2014 e in cartaceo entro la prima metà di dicembre.
    Voltapagine di nome e di fatto
Una cosa che mi ha piacevolmente colpito di questo libro è l’estrema bellezza della prosa, che si trasferisce altrettanto bene nella traduzione italiana. Mi ci sono imbattuta per caso e sono rimasta folgorata dal meraviglioso suono che sembrava quasi provenire dalle parole scritte. Devo ammettere che questo aspetto, unito al fatto che nel particolare momento in cui l’ho letto ero proprio in cerca di una lettura del genere, è riuscito a sopperire a qualche altro che ho meno gradito, tra cui devo annoverare la trama che non era esattamente nelle mie corde, anche se poi, andando avanti con la lettura, l’ho trovata a tratti molto divertente.
Il personaggio della madre del protagonista è un tantinello stereotipato e sopra le righe, fino a tendere un po’ alla bidimensionalità, come tutti quelli femminili in questo romanzo, mentre quelli maschili funzionano decisamente meglio.
Forse un altro aspetto che mi ha lasciato perplessa è stata la sensazione di incompletezza che ho ricavato alla fine della lettura. C’è tanta carne sul fuoco per sviluppare una storia molto più lunga e complessa, ma, proprio quando le cose iniziano a prendere vita, la storia finisce, lasciando l’amaro in bocca. Mi sono chiesta cosa ne sarebbe stato del protagonista e degli altri personaggi principali. Mi sono domandata quale fosse la motivazione dietro il libro, cosa l’autore avesse voluto davvero raccontare. Ho avuto l’impressione che si sia limitato a offrirci uno sguardo in un mondo, quello della musica classica (e tutte le faccende umane che vi girano intorno), senza che avesse realmente l’intenzione di mostrarci un percorso che andasse verso una fine.
C’è anche da dire che talvolta è meglio chiudere una storia senza completarla che dare a essa una fine che scada nella banalità. Anche per questo motivo, il finale estremamente aperto, seppure da una parte sembrerebbe una mancanza, forse potrebbe trasformarsi in pregio.
Di certo il titolo è azzeccato: è un vero “page-turner” (letteralmente appunto voltapagine), cioè un libro da cui è difficile staccarsi e che si legge in un lampo, anche perché non lunghissimo.
Immaginate la mia sorpresa lunedì nel ricevere una menzione sia sul mio account di Twitter che su quello di Anna Persson da parte di Elena Re Garbagnati con il titolo “Deserto rosso, suspense, avventura e sesso su Marte” e un link a un articolo nientemeno che su Tom’s Hardware.
Wow!
Ho fatto click sul link ( lo trovate qui) e sono rimasta a bocca aperta a leggere la bellissima recensione della Re Garbagnati. Ciò che mi è piaciuto in particolare è che, senza entrare nel merito della trama, sono stati indicati gli aspetti salienti che sono alla base della serie stessa: l’aspetto scientifico (sia quello spaziale che quello biologico) e l’aspetto psicologico.
“Deserto rosso”, infatti, viaggia su due binari. Mentre racconta una storia, da una parte inserisce qua e là informazioni scientifiche reali, prendendo spunto dagli eventi narrati, dall’altra esplora l’emotività dei personaggi messi di fronte agli stessi eventi, mettendone in mostra tutte le sfaccettature.
Sono davvero felice di aver ricevuto questo piccolo riconoscimento da una testata di rilievo, che per di più si occupa proprio di tecnologia, come Tom’s Hardware.
Spero che i lettori che hanno acquistato il libro in seguito alla lettura della recensione si divertano a viaggiare alla volta del pianeta rosso con Anna Persson e gli altri personaggi della serie. Auguro a tutti loro buona lettura e ringrazio ancora Elena Re Garbagnati per le belle parole spese su questa serie, che ha accompagnato due anni della mia vita e che sarà sempre una parte di me.
     Lettura casuale rivelatasi gradevole
Questo libro rientra sicuramente nelle letture casuali. Non ricordo come sono approdata alla pagina del prodotto su Amazon, comunque l’avevo preso poiché era gratuito (credo che lo sia sempre). Con delle premesse del genere non ti aspetti un granché ed è per questo che gli do cinque stelle: supera senza dubbio le aspettative.
La storia è una miscela di thriller, intrigo, romance e umorismo, in altre parole il genere è romantic suspense. Abbiamo la protagonista, Sinclair, che è una parrucchiera, il suo amico gay Jesse, il fratello di quest’ultimo Reed (ovviamente molto affascinante) e uno stalker che perseguita appunto la protagonista a sua insaputa. Ovviamente il bello di turno è ricchissimo, mentre lei è la cenerentola della situazione. Ovviamente lui ha una fidanzata e dei genitori spregevoli, in particolare il padre. Ovviamente finisce tutto bene.
Insomma tanti cliché. Eppure mi è piaciuto. Gli elementi sono giocati bene, la storia è gradevole e divertente. Una lettura rilassante.
So che ne esiste anche una versione tradotta in italiano, ma, da quello che leggo nelle recensioni, la traduzione non è delle migliori.
Oggi ho il piacere di presentarvi un guest post di un autore di fantascienza americano, Michael J. Foy, che ispirato da un episodio di “Star Trek: The Next Generation” in questo articolo cerca di esplorare i possibili aspetti dell’amore nel futuro.
L’altra sera ho visto un episodio di Star Trek: The Next Generation che affrontava le complessità emotive dell’amore. Era una di quelle puntate in cui Trek riesce bene nel suo intento di gettare una luce sulla condizione umana. La puntata si apre con la dottoressa Beverly Crusher perdutamente innamorata di un ambasciatore alieno. A sua insaputa quest’uomo di nome Odan è in realtà costituito due esseri che vivono in un rapporto simbiotico. C’è l’uomo che vede e l’entità di cui lei non è a conoscenza che vive nel ventre dell’uomo. È chiamato Trill. Questo questo tipo di vita è reciprocamente vantaggioso, ma la maggior parte della personalità di Odan viene dal Trill. Ed è la personalità ciò di cui la dottoressa è innamorata.
Alla fine, l’ambasciatore viene ferito e finisce in infermeria, dove è costretto a raccontare a Beverly del suo stile di vita condiviso. Lei è confusa e sconvolta dal fatto che l’uomo che pensava di conoscere le abbia tenuto nascosto un così grande segreto. Nel suo mondo questa relazione duale è così comune che a nessuno di loro viene mai in mente di rivelarsi a soggetti singoli come noi. A Beverly, però, tutto ciò sembra disonesto e ingannevole.
Da buon medico mette da parte i suoi sentimenti e rimuove il Trill per salvarlo prima che il corpo dell’ospite muoia. L’unico problema è che ha bisogno di un altro ospite per sopravvivere. Il primo ufficiale Will Riker si offre volontario a ospitarlo temporaneamente mentre si cerca un nuovo ospite più compatibile. Non è una soluzione ideale dal momento che è motivo di preoccupazione sia per Will che per Ambasciatore Odan. Dopo l’operazione, Will diventa l’ambasciatore. Ha tutta la memoria e sentimenti di Odan tra cui l’amore per Beverly. Lei, d’altra parte, non sa cosa provare nei suoi confronti e lo evita nonostante il persistere di forti sentimenti. Beverly confida al Consigliere Troi di non poter ricambiare l’affetto di un uomo che considera un fratello. Dice che avrebbe preferito che Odan non fosse mai venuto a bordo e che farebbe di tutto per non provare quelle sensazioni.
La dottoressa Crusher è torturata da un amore che è per lei fuori portata. È un dolore emotivo che la maggior parte di noi abbiamo provato in qualche momento della nostra vita e può dar luogo a manifestazioni fisiche come la perdita di appetito e/o del sonno. Il ricordo costante dovuto alla presenza di Will Riker è stato un modo ingegnoso degli autori di stuzzicare Beverly con la prospettiva di un amore ormai apparentemente irraggiungibile.
Alla fine, Beverly guarda oltre i cosiddetti pregiudizi umani e va da Will. Il suo bisogno di stare vicina a Odan ha la meglio e i due stanno insieme. Lei non vede l’ora di rimuovere il Trill e di metterlo nel nuovo corpo dell’ospite in modo da poter riprendere la sua relazione. La scena successiva potrebbe essere intitolata: avresti dovuto vedere la faccia che hai fatto. Il nuovo ospite arriva ed è una donna. Anche nel ventiquattresimo secolo non siamo così illuminati. Nonostante o a causa delle avance del nuovo Odan femmina, Beverly mette fine alla loro relazione.
Dato che le nostre presenze fisiche e personalità sono inseparabili, forse la domanda che Star Trek ha voluto porre è: abbiamo bisogno di conoscere tutti i segreti di qualcuno per legarci a lui? La natura umana è molto complessa e non tutto può essere appreso nei dieci giorni in cui, per esempio, la dottoressa Crusher si è innamorata dell’ambasciatore. Eppure le storie d’amore intricate sono all’ordine del giorno nella vita reale. Vuol dire che non abbiamo bisogno di sapere tutto su qualcuno per amarlo?
In Future Perfect, il mio eroe, Jamie McCord, si strugge per una donna morta cento milioni di anni prima. Alla fine incontra Lilah che gli ricorda il suo amore perduto e si innamora di lei. Purtroppo Lilah si rivela essere una spia di nome Lisa che lo stava manipolando. Quando scopre chi è Jamie, in un primo momento la rifiuta, ma i suoi forti sentimenti ritornano e come a volte accade nella realtà si riappacificano e si innamorano di nuovo. Le storie d’amore intricate possono essere inebrianti, ma forse l’amore è davvero un viaggio di scoperta a più lungo termine.
MICHAEL J. FOY è nato nella parte settentrionale dello stato di New York da immigrati irlandesi. La sua famiglia si è poi trasferita a Londra, a Boston, poi di nuovo a Londra e infine si è stabilita definitivamente negli Stati Uniti a Boston, quando Michael aveva 12 anni. Si è laureato in ingegneria alla Northeastern University nel 1979. Nel 1993 è diventato un reclutatore dell’industria editoria. Quindi, in pratica, le sue occupazioni letterarie hanno abbracciato altre due carriere ma sono state sempre il suo primo amore. Nel 1991 ha venduto un’opzione per il suo primo romanzo di fantascienza, “ False Gods”, per la realizzazione di una sceneggiatura, a Timothy Bogart, nipote di Peter Guber, produttore di Barman. Tim e suo zio hanno adattato il materiale per il grande e il piccolo schermo. Finora Michael ha pubblicato “ Future Perfect”, “ The Kennedy Effect” e la serie “ Ghosts of Forgotten Empires”.
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