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 Il mare de La Pelosa a Stintino... di Carla
 

"Devi scegliere, Anna: la tua scoperta o la Terra." Deserto rosso - Nemico invisibile

 

Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Carla (del 16/06/2022 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 3009 volte)
Il film è ispirato alla storia vera di Lisa Nowak, ex-astronauta della NASA che fu arrestata per aver aggredito la ragazza (anche lei astronauta) di un altro astronauta col quale aveva avuto una relazione.
 
Natalie Portman in Lucy in the Sky - © Fox Searchlight Pictures
 
Nel film la protagonista, interpretata da Natalie Portman (nella foto; © Fox Searchlight Pictures), si chiama Lucy Cola, astronauta preparatissima, che grazie al duro lavoro e all’evidente talento viene selezionata per una missione di una decina di giorni sulla ISS (Stazione Spaziale Internazionale).
 
Al ritorno però Lucy si sente cambiata. La vita di tutti i giorni sulla Terra le sembra vuota e inutile rispetto all’esperienza che ha vissuto.
Il marito, che è un PR della NASA, non è in grado di comprendere il mutamento psicologico che ha subito. E così lei, che intanto continua a addestrarsi per poter partecipare al più presto a un’altra missione, fa amicizia con Mark Goodwin (interpretato da Jon Hamm, quello di Mad Men), anche lui astronauta (divorziato e con due figlie piccole), e con altri due colleghi, trovando in loro per la prima volta delle persone che condividono il suo stesso stato d’animo. L’amicizia di Mark, in particolare, sfocia in una relazione, in cui però lei pare più interessata di quanto lui non lo sia.
Non posso dirvi altro per evitare lo spoiler, in quanto la storia cinematografica, nonostante abbia lo stesso finale di quella vera, dà una propria interpretazione agli eventi successivi.
 
Devo dire che il film mi è piaciuto molto, e sono abbastanza stupita di aver trovato solo recensioni negative sul web. Credo che si tratti di una bella analisi psicologica del personaggio offerta al pubblico sfruttando molto bene le potenzialità del cinema. A questo proposito, le scelte del regista sono molto particolari. Per esempio, lo è quella di modificare di continuo il rapporto di formato dell’immagine, soprattutto per mettere in contrasto la visione espansa (dello schermo cinematografico) dell’essere nello spazio, o anche solo del vivere situazioni che riportano il suo pensiero a quell’esperienza, ai 4:3 televisivi usati per narrare quella quotidianità insulsa in cui Lucy non riesce più a trovarsi.
 
Ma a essere particolarmente bello è proprio il suo personaggio e il modo in cui la Portman lo ha impersonato.
Ho provato molta empatia nei suoi confronti. Per quanto il suo comportamento finale sia stato ovviamente esagerato (e comunque non sembra corrispondere ai fatti reali), ho potuto capire l’esasperazione che ha provato nel sentirsi sola e tradita come donna in un mondo di uomini che la accusano di essere “troppo emotiva” (proprio lei che nel suo lavoro è precisa e fredda come nessuno di loro sa essere), nell’aver perso tutto ciò che per lei contava (tornare nello spazio e una persona di famiglia a lei molto cara).
Credo che chiunque ha avuto delle grandi delusioni nella vita (nell’ambito privato o professionale) possa comprendere lo stato d’animo di chi, avendo raggiunto l’apice di qualcosa, mal si adatti al ritorno alla “normalità”, come se si sentisse un alieno intrappolato in un mondo monotono e insignificante.
 
Insomma, è stata una bella visione.
 
Di Carla (del 28/09/2016 @ 15:49:46, in Cinema, linkato 3496 volte)

Siccome è un film tratto da un videogioco le mie aspettative non erano altissime. Ho deciso di vederlo, perché i film d’azione con alto tasso di morti ammazzati sono divertenti e questo, in particolare, vede il confronto tra due attori interessanti: Rupert Friend, che ho già apprezzato in “Homeland”, e Zachary Quinto, che da luglio si è installato in pianta stabile sullo sfondo del mio computer nelle vesti di Spock.
 
Friend è già avvezzo al ruolo di killer. In “Homeland” era un agente operativo della CIA che più di una volta era stato inviato a uccidere qualche obiettivo strategico. La sua espressione glaciale, che in “Hitman: Agent 47” viene accentuata dalla rasatura dei capelli e l’abbigliamento impeccabile, gli conferisce l’aspetto di assassino programmato e quindi privo di emozioni. Di certo non è in questo ruolo che possiamo apprezzare al meglio le sue abilità recitative, ma nei panni dell’agente 47 è assolutamente perfetto.
 
Quinto, che qui si ritrova a interpretare il ruolo dell’antagonista John Smith, per quanto il film in sé non richieda particolari doti recitative, mostra comunque la propria bravura. Il suo personaggio modifica il proprio atteggiamento nell’arco del film e Quinto riesce a rimarcare questo cambiamento, dandoci quasi l’impressione di trovarci di fronte a un nuovo personaggio. Gli basta davvero poco. La sua espressività è tale che una minima alterazione nelle linee del volto e nello sguardo gli conferiscono un’immagine completamente diversa agli occhi dello spettatore.
 
Spettacolari sono gli scontri, spesso a mani nude, tra i due, tanto che quasi senti dolore al loro posto per quante ne prendono o per i voli che fanno. Ovviamente se la cavano al massimo con qualche graffio. Per non parlare poi delle sparatorie perfettamente coreografate. In entrambi in casi mi sono ritrovata più volte a ridere da sola per quanto fossero divertenti.
 
 
Il film include anche un terzo personaggio principale, Katia van Dees, interpretata da Hannah Ware, ma devo ammettere che (forse perché io sono donna) ho appena notato la sua presenza!
 
È chiaro che non stiamo parlando di un film che pretende di apparire minimamente plausibile. È la trasposizione di un videogioco e ne ricalca il suo essere sopra le righe, ma a ciò si aggiungono ottimi effetti speciali che conferiscono una notevole realisticità alle dinamiche delle scene, anche quelle più splatter, senza provocare, però, alcuna particolare forma di orrore o disgusto, proprio come avviene nei videogiochi, poiché mantengono chiaro nella mente di chi le guarda che ci troviamo nell’ambito della finzione.
 
Hitman: Agent 47” è il secondo film della serie “Hitman”. Il primo, “Hitman - L’assassino”, è uscito nel 2007. Ma potrebbe non essere l’ultimo. Un indizio a questo proposito è dato dalla piccola scena incastrata all’interno dei titoli di coda, ma non vi dico altro per evitare di rovinarvi la sorpresa.
 
Di Carla (del 14/09/2016 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 4164 volte)

Come sarà capitato a molti di voi, ho avuto modo di conoscere per la prima volta la bravura di Jean Dujardin grazie alla sua interpretazione di George Valentin in “The Artist”, che gli è valsa il premio Oscar come miglior attore protagonista nel 2012. L’ho poi rivisto anni dopo in un ruolo drammatico in “French Connection”, altro film che ho apprezzato tantissimo.
In “Un amore all’altezza”, grazie agli effetti speciali, Dujardin si trova a interpretare addirittura il ruolo di una persona affetta da nanismo in una commedia a tratti esilarante che però spinge anche a riflettere.
 
Le sue qualità come attore sono ancora una volta indiscusse ed emergono ancora di più nei ruoli in cui non può sfruttare una delle sue qualità. In “The Artist” si trattava della voce e in questo film invece è la bellezza. Sì, perché Dujardin è indubbiamente un bell’uomo e riesce a mantenere intatto il proprio fascino anche nel ruolo di Alexandre, che raggiunge appena il metro e trentasei centimetri.
 
C’è da dire che gli effetti speciali, pur abbassandolo, non hanno reso in maniera fedele le proporzioni alterate che il nanismo provoca, ma applicando una certa sospensione dell’incredulità il tutto appare abbastanza convincente, soprattutto nelle inquadrature in cui non si vede il suo corpo per intero.
 
Al di là di questi aspetti tecnici, “Un amore all’altezza” è un film davvero carino.
 
 
Be’, i protagonisti sono tutt’altro che dei poveracci. Alexandre è un architetto di grido che vive in una villa con tanto di piscina insieme al figlio sognatore e ambizioso, che per il momento dipende economicamente da lui (ma è destinato al successo). Diane (interpretata dall’attrice belga Virginie Efira) è invece un’avvocatessa proprietaria di uno studio insieme all’ex-marito.
Tutto il contesto in cui si muovono è molto cinematografico: le feste, i vernissage, il paracadutismo (che pare quasi un gioco da ragazzi che potrebbe praticare chiunque), case che sembrano regge, i locali segreti e così via.
 
La distribuzione e i tempi della gag sono assolutamente perfetti, tanto che il film scivola via veloce tra una risata e l’altra.
Alexandre potrebbe essere il classico principe azzurro, affascinante, simpatico, di successo, ma gli mancano almeno quaranta centimetri a raggiungere la perfezione, quaranta centimetri che pesano parecchio.
Nonostante certi aspetti abbastanza volutamente irrealistici della trama, è facile calarsi nei panni di Diane, che pur innamorata di Alexandre, soffre il giudizio degli altri.
Infatti, può essere facile dire che l’amore permette di superare tutti gli ostacoli, ma nella realtà stare al fianco di qualcuno che è diverso crea molti problemi. Ignorarli e fingere che non abbiano un peso non li fa scomparire, ma ciò che questa piccola chicca cinematografica prova a trasmettere è che bisogna essere consapevoli e trovare insieme il modo di affrontarli giorno per giorno, come dovrebbe sempre succedere tra due persone che decidono di condividere la propria vita.
Certo, se poi si è ricchi come i protagonisti di “Un amore all’altezza” è indubbiamente più semplice!
 
Si tratta di un film, in altre parole, che unisce una riflessione non banale e situazioni comiche, rese magnificamente dalla bravura di tutto il cast (non solo dei due protagonisti).
Si esce dalla sala rinfrancati e di buonumore, ma senza aver del tutto spento il cervello per un centinaio di minuti.
 
Di Carla (del 09/09/2016 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 3578 volte)

Se mi dovessi basare sulla visione dei film incentrati su questo personaggio, di cui di recente ho rivisto anche i primi tre, arriverei alla conclusione che Jason Bourne non dorme (e se ci prova è perseguitato da incubi), non mangia, gira mezzo mondo perlopiù in treno e la cosa sembra non stancarlo minimamente, non ha paura di nulla, non gli importa di nessuno (a parte di Marie, che proprio per questo è stata eliminata nel secondo film), le rare volte che viene ferito diventa più forte e non ha neanche bisogno di portarsi un’arma: al momento opportuno, quando si trova ad affrontare non meno di tre addestratissimi agenti, li mette fuori combattimento in pochi secondi a mani nude e prende una delle loro pistole.
Insomma, è indistruttibile.
 
Sì, certo, ha avuto quella brutta amnesia e i suoi ricordi riaffiorano comodamente poco alla volta, tanto da imbastire la trama di un altro film. Ma più ricorda, meno pare emergere dell’uomo che c’era prima: il fantomatico David Webb.
 
Ciò che noto andando avanti nei film è il venire meno dell’empatia del personaggio, che man mano si disumanizza muovendosi sempre più velocemente da una scena d’azione mozzafiato all’altra.
In “The Bourne Identity” mi sono chiesta insieme a lui chi fosse, ho provato preoccupazione per lui e per la donna che aveva deciso di fidarsi di lui e aiutarlo. Solo anni dopo, quando ho letto il libro di Robert Ludlum cui era ispirato, ho saputo che questo è l’unico film della serie ad avere un qualche legame con i romanzi. E si vede, poiché il Bourne del primo film è un personaggio con un certo spessore. Pur comportandosi istintivamente come una macchina da guerra, è pieno di dubbi e timori, come il suo alter ego letterario. La trama è un po’ diversa, anche perché il contesto in cui si svolge è molto più avanti nel tempo, cosa che ha richiesto degli adattamenti. Inoltre il mezzo cinematografico impone una certa riduzione e semplificazione di un romanzo che, invece, è estremamente intricato.
 
Però, dal momento in cui ci si stacca dall’opera di Ludlum (che ha ispirato, lo ammetto, il mio action thriller “Affinità d’intenti”), chi ne subisce di più le conseguenze è proprio il personaggio di Bourne. Viene meno del tutto ciò che la caratterizza: il suo essere un po’ folle, il suo oscillare tra la personalità normale di Webb e quella assetata di vendetta di Bourne, il suo essere fallibile.
Il Bourne dei film, infatti, sbaglia di rado. È sempre un passo avanti agli altri. E questa sua caratteristica si accentua col venire meno dei legami con altre persone, a partire da Marie (interpretata dalla bravissima Franka Potente), per quanto a muoverlo sia, almeno in teoria, un desiderio di vendetta oltre che quello di sopravvivenza, unito all’assenza di alcun timore della morte.
 
In questo contesto le trame si ripetono. Qualcuno vuole farlo fuori, in genere qualcuno della CIA, che si tratti o meno di una decisione ufficiale e approvata. Gli sguinzagliano contro i più spietati asset (quanto mi piace questo termine per indicare un sicario!). Cattivissimi. Fanno fuori chiunque si trovi sulla loro strada, ma mai una volta che riescano a far fuori Bourne.
D’altro canto, quando lui fugge in auto o in moto in compagnia di qualcuno, questo qualcuno finisce per beccarsi la pallottola destinata a lui.
E non sapete quanto mi abbia dato fastidio capire che sarebbe successo anche in questo ultimo film. Guardavo il lungo inseguimento ad Atene e ricordavo quello in India all’inizio di “The Bourne Supremacy”. Era scontato che sarebbe finito così. E in entrambi i casi mi è dispiaciuto, poiché venivano eliminati due personaggi (gli unici) con i quali lui aveva un legame che dava continuità alla trama.
 
 
Jason Bourne” è un ripetersi di tutti questi elementi, tenuti insieme da un segreto da scoprire che riguarda il padre del protagonista e che rappresenta l’unico elemento di novità. Il resto è azione, azione e ancora azione.
Non che mi stia lamentando. Io adoro l’azione.
Sono rimasta per tutta la durata del film incollata alla poltroncina del cinema a seguire il vorticoso succedersi degli eventi e gli stacchi continui della macchina da presa, accompagnata dalla certezza che Bourne avrebbe sempre avuto la meglio. Il bello era scoprire come ci sarebbe riuscito, cosa si sarebbero inventati per fargli superare ogni ostacolo, quale altra famosa città avrebbero messo a ferro e fuoco e in che modo lui avrebbe comunque lasciato gli altri con un palmo di naso.
 
E poi ci sono gli inseguimenti in auto. Non importa se il suo avversario guida un Humvee, che fa saltare gli altri mezzi come fossero birilli, e Bourne una normalissima auto. Quest’ultima si ammaccherà, ma andrà sempre forte, anzi, ancora più forte di prima. Lui, che sa fare tutto, guiderà senza fermarsi, scansando le auto che gli vengono incontro, perché non può certo fare a meno di infilarsi in contromano in qualche strada trafficatissima. Non importa se Bourne è ferito e non indossa la cintura di sicurezza. Quando l’auto cappotterà e lui ne uscirà zoppicando, sarà ancora in grado di combattere a mani nude col suo avversario. Rischierà di soccombere, ma alla fine un colpo di reni lo salverà.
 
Non dimentichiamoci poi la sua astuzia e sfrontatezza. Bourne osserva da lontano (ma neanche tanto) quell’unico personaggio della CIA che tutto sommato non lo considera una minaccia e anticipa le sue mosse. Era già accaduto con quello interpretato da Joan Allen in “The Bourne Supremacy” e in “The Bourne Ultimatum”, e adesso è la volta di Alicia Vikander, che, pur essendo brava e pur avendola apprezzata molto in altre pellicole, non riesce proprio a essermi simpatica in questo film per via del suo modo di pensare prima di tutto a se stessa. Ma non preoccupatevi: Bourne l’ha capita bene. Ve lo dimostrerà alla fine.
 
Insomma, questo film ha tutto quello che serve per piacermi, ma l’ho apprezzato meno del primo e del terzo, e non so se più o meno del secondo. Forse dipende dalla progressiva glacialità mostrata dal protagonista. O forse semplicemente perché non mi è andato giù il modo in cui viene trattata Nicky Parsons, interpretata da Julia Stiles, che è una delle mie attrici preferite. Ultimamente è sempre più relegata a ruoli secondari e speravo che, dopo “The Bourne Ultimatum”, dove invece era uno dei personaggi principali, ciò si sarebbe ripetuto in “Jason Bourne”.
 
Be’, comunque sia, me ne farò una ragione. E, se ci sarà un seguito (dal finale aperto si direbbe proprio di sì), mi toccherà andare a vedere anche quello. D’altronde, non posso mica perdermi un film con Matt Damon.
 
Di Carla (del 30/08/2016 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 3240 volte)

Ci sono tanti bei film che non arrivano nei nostri cinema e di cui difficilmente sentiremo parlare. “Another Earth” (2011) ne è un esempio. Anche se il film è stato poi doppiato e forse distribuito in qualche sala in Italia (ma non ne sono del tutto certa), di fatto ha potuto raggiungerci veramente grazie all’home video e soprattutto alle pay TV. Ma, se il 24 luglio del 2011 non avessi letto un brevissimo post di Gary Lightbody (cantante degli Snow Patrol) che affermava di volerlo vedere e allegava un link al trailer, difficilmente mi sarebbe venuto in mente di cercarlo, tra le tante scelte possibili di Sky o di altre fonti.
 
E invece è bastato un brevissimo post a incuriosirmi, ma poi il film è rimasto lì per anni prima che mi decidessi a guardarlo, qualche giorno fa.
 
Si tratta di un film indipendente, quindi non attendetevi effetti speciali mirabolanti o un grande cast (grande nel senso di numero di attori), ma allo stesso tempo potete stare certi che ne rimarrete stupiti, poiché, essendo svincolati dalle logiche dei blockbuster che devono essere dei successi a tutti i costi per coprire le enormi spese per realizzarli, i film indipendenti (un po’ come le opere dei musicisti indipendenti o degli autori indipendenti) hanno il privilegio di poter osare.
A dirigere il film è Mark Cahill, un regista semisconosciuto che ha all’attivo tre film (di cui questo è il secondo), tutti indipendenti.
I ruolo della protagonista femminile è affidato a Brit Marling, anche lei al tempo inserita nello stesso circuito cinematografico, ma che successivamente ha recitato in film come “La Frode” (in cui interpretava la figlia di Richard Gere e Susan Sarandon) e “La regola del silenzio” (di Robert Redford).
Quello del protagonista maschile è di William Mapother, che gli amanti delle serie TV ricorderanno nel ruolo di Ethan Rom in “Lost”, ma che bazzica il grande cinema, sebbene in ruoli minori, già dal 1989.
 
La trama a prima vista parrebbe quella di un film di fantascienza o più genericamente di un film che rientra nel genere fantastico, facendo un po’ pensare a “Ai Confini della Realtà”.
Viene scoperto un pianeta abitabile, identico alla Terra, che si sta avvicinando a essa. Lo chiamano Terra 2, per semplicità. Il suo essere identico alla Terra non riguarda, però, soltanto la sua conformazione. Questo fatto già da di per sé dovrebbe spaventare tutti gli abitanti del nostro pianeta e fare credere loro di essere vittime di un’allucinazione collettiva, invece in una sorta di atmosfera surreale le persone ne sono appena incuriosite. Ma a rendere ancora più incredibile tale scoperta c’è il fatto che, dopo quattro anni, quando i due pianeti sono a distanza di comunicazione, ci si rende conto che Terra 2, almeno all’apparenza, ha gli stessi abitanti della Terra.
 
Staranno vivendo davvero la stessa vita identica?
 
In questo contesto si inserisce la storia di Rhoda Williams, che nella notte del primo avvistamento di Terra 2, un po’ alticcia dopo una festa, è alla guida di un’auto mentre cerca di ammirare quel nuovo puntino blu nel cielo notturno e, così facendo, provoca un incidente in cui muoiono due persone e una finisce in coma.
Non vi dico cosa succede dopo, perché il bello di questo film è seguire l’imprevedibile volgere degli eventi. Anzi, vi ho già rivelato troppo accennandovi all’inizio.
 
Vi basti sapere che è una storia drammatica, di redenzione, che sfrutta un contesto fantasioso per affrontare il tema delle seconde possibilità.
 
Può esistere una seconda possibilità per una persona che ha compiuto un atto talmente orribile che neanche lei riesce a perdonare a se stessa?
 
Rhoda cerca di scoprirlo nel rimettere insieme la propria vita e nel provare a fare ammenda, ma le cose non vanno esattamente nella maniera in cui aveva previsto.
In circa 90 minuti di film la seguiamo col fiato sospeso, solo parzialmente interessati alla vicenda della seconda Terra, che però si rivelerà cruciale, fino alla conclusione che si consuma negli ultimi 10 minuti finali, lasciandoci interdetti a riflettere su di essa per qualche minuto. Oppure per qualche altro giorno, come è capitato a me.
 
 
Di Carla (del 26/07/2016 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 4837 volte)
© Paramount
Non sono mai stata una trekker. Certo, sono un’appassionata di fantascienza e vivo su questo pianeta, quindi durante la mia vita ho incrociato svariate volte il franchise di Star Trek. Mi è capitato di vedere delle puntate di tutte le serie e alcuni dei film.
L’unica serie che ho visto tutta, proprio dalla prima all’ultima puntata (anche se non esattamente in quest’ordine), è stata Star Trek Voyager. È capitato per una serie di circostanze casuali. La davano su Canal Jimmy, se non erro, tutti i giorni la mattina mentre facevo colazione, prima di andare in laboratorio (quando lavoravo all’università). Ma mi piaceva davvero tanto. In particolare mi piaceva il personaggio di Sette Di Nove e il suo conflitto interiore.
Avevo iniziato anche a seguire Enterprise. Avevo visto una o due stagioni, ma poi non ero riuscita più a beccarla. Mi riprometto sempre di recuperarla.
 
Il mio rapporto con le altre serie è sempre stato un po’ tiepido. Nonostante io sia troppo giovane per la serie classica, è sicuramente quest’ultima quella che mi sono più spesso soffermata a guardare. Ero affascinata dal personaggio di Spock (chi non lo è?). Però la differenza generazionale si sentiva. Io sono nata negli anni ’70 e di fatto sono cresciuta con la fantascienza degli ’80 (tanto per fare un esempio, con i Visitors). E poi c’è il fatto non trascurabile che sono una fan di Star Wars (non per niente il mio nickname sul web è Anakina). Non che una cosa escluda l’altra, visto che sono due visioni completamente diverse di questo genere. Ma anche di Star Wars (rigorosamente la trilogia classica) ciò che amo di più sono le astuzie, l’ironia e l’azione, mentre la parte filosofica ha molta meno presa su di me.
E poi c’è Darth Vader: il cattivo tormentato tra la fedeltà all’Imperatore e i sentimenti per il proprio figlio. Ancora un personaggio che vive un conflitto.
A ciò si aggiunge l’effetto sorpresa, i colpi di scena, i personaggi che prendono in mano il proprio destino e cambiano le cose.
 
Una cosa che mi lasciava perplessa in Star Trek era un certo aspetto fatalista. Questa benedetta Enterprise si cacciava sempre in guai più grossi di quelli che era in grado di gestire, i protagonisti rischiavano di soccombere, ma poi ce la facevano spesso per un evento fortunoso che cambiava la situazione e li metteva in condizione di cavarsela.
 
Adesso, da ultraquarantenne (eh già!), mi ritrovo ad appassionarmi a Star Trek grazie a questa nuova saga cinematografica.
Sì, lo so, la maggior parte dei trekker hanno odiato i film di Abrams o comunque hanno avuto opinioni critiche su di essi (io li ho rivisti da poco in DVD per prepararmi a quello nuovo), mentre a quanto pare finora stanno apprezzando Star Trek Beyond di Justin Lin.
Io invece li ho amati tutti, in un crescendo.
 
© Paramount
 
Mi rendo sicuramente conto che quest’ultimo ha una trama più valida ed elaborata (e non ci sono lens flare!). Pare che abbia meno forzature rispetto alle regole del vecchio universo di Star Trek, regole che però io non conosco (e poi si tratta comunque di una realtà alternativa), quindi questo è un aspetto che non fa per me alcuna differenza.
Ma devo confessarvi che ciò che tiene viva la mia attenzione sono elementi come l’azione, l’ironia mescolata all’astuzia, i personaggi che trovano da sé le soluzioni senza che queste caschino loro dal cielo (o almeno non del tutto o comunque non danno la percezione che avvenga così, perché sei distratto da altro) e soprattutto il modo in cui interagiscono, alcuni dei quali mostrando una certa profondità per via del loro passato (cioè Kirk e Spock).
 
Riguardo al primo punto, vi basti sapere che state parlando con una che non si perde un Mission Impossibile, un Fast & Furious, uno 007 e un Jason Bourne. Sono una che vuole essere stupita con scene d’azione incredibili per urlare, ridere e battere le mani in sala. Quindi scazzottate, sparatorie, collisioni e via dicendo mi mandano in un brodo di giuggiole. E la cosiddetta Kelvin Timeline è infarcita di queste cose.
L’ironia e l’astuzia rientrano un po’ in tutte le classiche americanate, quindi non sto dicendo niente di nuovo.
Ma una cosa che davvero apprezzo è il ruolo meno predominante del fattore fortuna (soprattutto a livello di percezione). Sì, be’, certo che c’è, eppure (non so se sia una mia impressione) rispetto al vecchio Star Trek i personaggi in questa nuova saga cinematografica la fortuna se la vanno un po’ a cercare. Sembra che abbiano sempre un totale controllo sulla situazione, anche quando sono nei peggiori guai. È ovvio che poi ce la fanno (è scontato), ma mi fanno tribolare un po’ meno sulle loro sorti e divertire di più per le cose che dicono, per le loro trovate o nel lambiccarmi a cercare di capire cosa s’inventerà lo sceneggiatore per salvarli facendomi ridere e meravigliare nel contempo.
 
© ParamountCredo che questo sia semplicemente dovuto al fatto che il modo di raccontare le storie, e con esso i gusti di chi ne fruisce, è cambiato, perciò, come molti che difendono il lavoro di Abrams dicono, il nuovo Star Trek si adatta ai tempi e al nuovo pubblico.
Allo stesso tempo capisco le difficoltà dei vecchi fan ad accettare il cambiamento (ci sono passata anch’io con Star Wars) e in fondo credo che il mio apprezzare questi film nasca dal fatto che non sono mai stata una trekker (o trekkie, se preferite).
 
Comunque sia, non posso che dire di aver adorato Star Trek Beyond per via di tutti questi elementi cui si aggiunge una trama abbastanza ben congeniata, anche se poi la storia di base è sempre la stessa: quella del cattivissimo che si vuole vendicare (ma in Into Darkness Khan, che ho apprezzato parecchio, almeno aveva una sua logica nel mettere in pratica la propria vendetta), che crea un sacco di problemi e che alla fine viene sconfitto. Ma ancora più belle dal mio punto di vista sono le sottotrame e in generale le interazioni tra i personaggi principali (tutti ugualmente importanti), che mi hanno strappato sorrisi e risate.
 
E poi adoro Spock, che è il motivo principale di questo mio entusiasmo. È un personaggio meravigliosamente complesso, per via del conflitto interiore dovuto alla sua particolare natura a metà strada tra vulcaniano e umano (i momenti in cui tira fuori la propria parte emotiva valgono da soli il prezzo del biglietto!), e Zachary Quinto ne dà un’interpretazione fantastica, sia per la sua capacità di riportarci alla mente quella di Leonard Nimoy che per quel suo nonsoché personale che riesce a conferirgli.
 
Come vedete, proprio come accade nei miei libri, ancora una volta sono attratta dalla presenza di un personaggio che vive di conflitti irrisolvibili. Alla fine è questo l’elemento cruciale che mi fa amare una storia, perché io in un personaggio del genere riesco a immedesimarmi. A quel punto la barriera tra la realtà e la finzione crolla e io mi ritrovo a vivere in pieno la magia di quest’ultima.
 
Di Carla (del 14/03/2015 @ 09:54:49, in Cinema, linkato 4054 volte)
Da qualche anno a questa parte, immagino l’abbiate notato, le sale cinematografiche sono infestate di film tratti da qualcosa (un libro, un fumetto, una storia vera o un libro a sua volta tratto da una storia vera) o che sono il sequel, il remake o il reboot di qualcosa. Moltissimi film sono un adattamento di una storia nata su un mezzo di fruizione diverso o direttamente nella realtà, oppure sono in pratica una minestra riscaldata.
Per carità, diversi di questi film non sono affatto male, riescono a essere dei buoni prodotti che svolgono bene il loro compito, cioè divertire. Qualcuno addirittura riesce ad eccellere, spesso per la bravura di chi ha dovuto usufruire di materiale usato di riuscire comunque a rielaborarlo in maniera efficace e metterci del suo. Ma, tranne rarissimi casi, il fatto che queste storie non siano state concepite appositamente per il cinema o per quel particolare film (in caso di remake/reboot e sequel) fa sì che si avverta la loro tendenza a portarsi dietro un peso, quello del confronto con l’originale.
 
In particolare, adattare una storia nata per un romanzo a un film è un’operazione molto difficile, proprio per l’enorme differenza tra i due mezzi di narrazione. Nel primo si utilizzano le parole, nel secondo le immagini. Sono mezzi diversi, che permettono di dare più spazio a certi aspetti e hanno enormi limiti in altri.
Un romanzo, per esempio, sa portarti dentro la testa di un personaggio, o di più personaggi. Nello stesso tempo però, non fornendoti l’immagine, può celarti ciò che sta fuori del personaggio stesso. Il film invece può mostrarti qualsiasi cosa si trovi all’esterno della mente dei un personaggio, ma niente di quello che si trova al suo interno, a meno che non usi artifizi presi in prestito dalla narrativa, come la voce narrante, o cerchi di tradurre in immagini un ricordo o un pensiero simulando la parte emotiva con un particolare uso della fotografia.
 
L’adattamento da un medium all’altro implica una notevole modifica di ciò che si vuole narrare, cosa di cui il prodotto finale soffre. Tant’è che in genere il film non è mai tanto bello quanto il libro, tranne il caso in cui il libro è davvero brutto (ma avendo venduto tanto ci hanno comunque fatto un film) e chi si è ritrovato a doverlo adattare per il cinema non ha potuto che migliorarlo, anche perché non ci voleva molto. Tendo a pensare che a quest’ultima categoria appartenga “50 Sfumature di Grigio”, anche se il film non l’ho visto, ma sono certa che, nonostante i limiti del materiale di base, ne avranno tirato fuori un prodotto cinematografico come minimo passabile.
 
Se, invece di andare a adattare qualcosa di già pronto, si crea qualcosa di nuovo per il cinema, il discorso cambia completamente. Colui che scrive il soggetto e magari anche la sceneggiatura, lo fa facendo uso degli strumenti del cinema, in altre parole delle immagini stesse. Concepisce il germe della storia a partire dalle immagini che generano un’emozione diversa in ogni spettatore (e non dall’emozione trasmessa delle parole che può evocare un’immagine diversa in ogni lettore, come accade nei romanzi) e ciò gli permette di sfruttare al meglio la potenza del mezzo che sta usando per raccontare una storia.
 
Un film come “Birdman” è un esempio di questo cinema che nasce direttamente come tale. L’autore del film, Alejandro González Iñárritu, che oltre ad averlo diretto ha co-scritto la sceneggiatura (non a caso ha vinto l’Oscar come regista e sceneggiatore), ha giocato tantissimo sull’immagine arrivando a girare un film che sembra costituito da un unico piano sequenza!
In esso vediamo mostrati uno dopo l’altro, senza soluzione di continuità, elementi realistici (come la stessa caratterizzazione dell’ambiente teatrale di Broadway e del personaggio principale, interpretato da Michael Keaton, che a tratti si confonde con l’attore stesso che nella realtà più di 20 anni fa ha effettivamente interpretato un supereroe e se l’è portato dietro per il resto della sua carriera) con altri totalmente fantasiosi (Birdman che gli parla e appare in scena, lui che lievita in aria o sembra avere altri superpoteri, un mostro che compare nel bel mezzo di New York). Solo la magia del cinema poteva mettere insieme questi elementi e comunque mantenere la sospensione dell’incredulità.
Lo stesso finale ambiguo del film funziona proprio perché è un film.
 
“Birdman” non è il solo esempio, né quello migliore, di un cinema vero.
Un altro è “Grand Budapest Hotel”, film meraviglioso che gioca sulla fotografia, sul montaggio, sulle scenografie, sui costumi, sulla colonna sonora (non dimentichiamocene!) e così via, insomma su tutti quegli elementi che sono importanti quanto e forse pure più della storia stessa.
 
Vedere un film come “Birdman” (e “Grand Budapest Hotel”) mi ha ricordato perché amo il cinema, anzi mi ha ricordato cos’è il cinema. In anni di adattamenti, remake, reboot e sequel me l’ero quasi scordata. Mi ha ricordato quando da ragazzina mi annullavo davanti al grande schermo in film come “Ritorno a Futuro”, “Edward Mani di Forbice”, “Ghostbusters” o, parlando di Keaton, “Beetlejuice” (anche se purtroppo l’ho visto solo sul piccolo schermo, ma un numero esagerato di volte), solo per fare qualche esempio, e ancora una volta mi sono chiesta perché le grandi produzioni cinematografiche abbiano quasi del tutto smesso di essere qualcosa di originale. In realtà la risposta la so: perché portare sul grande schermo un prodotto che è già di successo dà maggiori certezze sull’investimento economico. Rispetto al passato si rischia meno.
Ma il risultato è che sembra quasi che manchino le idee di un tempo o che non si voglia ascoltare chi le ha.
 
In realtà c’è tutto un esteso sottobosco di cinema indipendente che invece parte da idee originali (anche perché non si può permettere di acquisire i diritti per utilizzare quelle di altri), ma che purtroppo solo in piccola parte giunge a noi nel grande schermo.
Chissà se si continuerà ancora su questa strada o ci sarà anche nelle grandi produzioni un ritorno significativo verso l’originalità. Ovviamente spero nella seconda ipotesi e nel frattempo cerco di godermi quelle piccole perle di cinema, quello vero, che riesco ancora a scovare.
 
Di Carla (del 23/06/2013 @ 03:37:52, in Cinema, linkato 4089 volte)


Ieri ho visto "Star Trek - Into Darkness" (questo articolo contiene spoiler). Devo dire che è davvero un bellissimo film. Mi è piaciuto più del precedente.

Il mio preferito rimane Zachary Quinto, bravissimo nel ruolo di uno Spock in lotta con la sua umanità.
Devo ammettere, però, che ho apprezzato moltissimo l'interpretazione di Benedict Cumberbatch nel ruolo di Khan e che ho avuto un vero brivido nelle pochissime scene in cui si allea con Kirk.
Vado matta per queste situazioni in cui il buono e il cattivo trovano un punto in comune. Persino Khan, che è un supercattivo, in alcuni momenti lascia trasparire qualcosa di buono: il fatto che consideri il suo equipaggio una famiglia, per esempio. Farebbe qualsiasi cosa per salvarli. Ciò lo rende più reale e complesso, fa scaturire nello spettatore una sorta di compassione per lui, nonostante tutto. E tutto sommato alla fine sono stata contenta perché, se anche i nostri eroi si sono salvati, il cattivo non è stato necessariamente distrutto. Insomma, mi sarebbe dispiaciuto, se fosse accaduto. Al di là del fatto che questo permette di aprire nuovi scenari per altri film, io non volevo che morisse.

L'avrete capito che mi piacciono i personaggi ambigui. Voglio vedere un po' di cattiveria nei buoni e un po' di bontà nei cattivi. Amo quando si mescolano le carte in questo senso, perché ciò dona profondità al personaggio e crea una sorta di attaccamento da parte di chi fruisce della storia, oltre ad aumentare l'imprevedibilità di quest'ultima.

L'ho fatto ampiamente nei primi tre episodi di "Deserto rosso" e continuo a farlo soprattutto nell'ultima puntata che sto scrivendo.
In "Ritorno a casa" il bene e il male si mescolano di continuo anche all'interno degli stessi personaggi e, per quanto i vari conflitti giungano a una risoluzione, non necessariamente questa va a favore di chi è buono o a sfavore del cattivo, anche perché è difficile inquadrare un personaggio in una sola delle due categorie.
Spero che ciò susciti nel lettore la tendenza a tifare, volta per volta, per un certo personaggio, indipendentemente dal suo essere buono o cattivo, quando questo si trovi a essere minacciato da qualcuno o da qualcosa, e rischi di essere sopraffatto.

Spero di riuscire a suscitare in voi questo tipo di compassione, proprio perché "Deserto rosso" non è una storia sull'eterna lotta tra bene e male. Non ci sono vincitori e vinti in questo senso. Si tratta di una storia di confronto tra degli esseri umani, con le loro debolezze e le loro forze, e qualcosa di molto più grande di loro, a sua volta non esente da difetti. Una lotta non alla pari, il cui scopo non è stabilire il vincitore, ma mettere a nudo i partecipanti, tirando fuori il peggio e il meglio di loro, da entrambe le parti.

Nel fare questo, spero di riuscire ancora una volta a divertirvi. A questo proposito non ci resta che attendere il 30 settembre 2013, per l'uscita di "Deserto rosso - Ritorno a casa".
Se nel frattempo siete in cerca di anticipazioni, seguite Anna su Twitter.

 
Di Carla (del 02/06/2012 @ 16:22:28, in Cinema, linkato 4039 volte)


Già nel post precedente mi sono dilungata a parlare della mia passione per i film di Tim Burton e il caso ha voluto che finissi di leggere il libro "Burton racconta Burton" proprio prima di andare a vedere il suo ultimo lavoro, "Dark Shadows".
Avrei voluto scrivere questo post a caldo subito dopo aver visto il film al cinema, qualche settimana fa. Col tempo la memoria tende a svanire, ma fortunatamente le emozioni suscitate da questo piccolo capolavoro le ricordo molto bene.
Nonostante si trattasse di una storia non originale di Burton, sembrava proprio averne tutte le caratteristiche. Un vampiro, Barnabas Collins, diventato tale a causa della maledizione di una strega, innamorata di lui ma da lui rifiutata, viene risvegliato negli anni '70 e decide di riprendere le redini della famiglia, ormai in malora.
La trama di per sé suona già strampalata e molto burtoniana, se poi ci aggiungiamo Johnny Depp nel ruolo di Barnabas, ci incastriamo la onnipresente Helena Bohnam Carter (compagna di Burton) e condiamo il tutto con la favolosa Michelle Pfeiffer, il gioco è fatto. Il risultato è che lo spettatore sembra catapultato nel passato, non tanto negli anni '70, ma in quel periodo tra gli anni '80 e l'inizio degli anni '90 in cui questo genere fantastico, basato sull'ironia e sulla parte visiva, andava per la maggiore, gli anni in cui potevi ritrovare gli stessi attori, più giovani, a fare da protagonisti.
E siccome quello è stato il periodo della nascita del mio amore per il cinema, dovuta proprio a film come "Ghostbusters", "Ritorno al Futuro", gli stessi film di Burton come "Beetlejuice" o "Edward Mani di Forbice", "Sospesi nel Tempo" (ancora con Michael J. Fox), "Ladyhawke" (con una giovanissima Pfeiffer) e tantissimi altri, mi sono fatta prendere dalla nostalgia e mi sono sentita di nuovo un po' ragazzina, almeno per il tempo della proiezione.
Al di là dell'indiscussa bravura di Depp (certi personaggi sembrano veramente fatti per lui), ho gioito in particolare per il ritorno della meravigliosa Michelle Pfeiffer, attrice di eccezionale talento e ironia, messa per lungo tempo da parte dal movie business americano, che ha la deplorevole tendenza a dimenticare le attrici quando superano i 45 anni (al contrario di quanto fa con gli attori).
Pur essendo la trama di per sé molto semplice, con un finale fin troppo scontato, il tocco magico di Burton riesce comunque a tenerti incollato alla poltroncina a ridere e meravigliarti. L'elemento visivo, il cinema puro in cui le storie vengono raccontate tramite le immagini, fa infatti la parte del leone, unito a una sana componente gotica (che non ha niente a che vedere con i vampiri sbarluccicanti della sua versione "urban"). Questi sono gli ingredienti vincenti di un incantesimo, che al suo venir meno, con i titoli di coda, lascia un pizzico di maliconia e la voglia irrefrenabile di tuffarsi fra i vecchi DVD.
Chi come me conosce bene l'opera di Burton o è abbastanza vecchio da aver vissuto quegli anni nel buio di una sala cinematografica può senza dubbio cogliere le mille citazioni (e autocitazioni) e apprezzare al meglio questo gioiellino.
E gli altri? Be' hanno l'occasione di conoscere un cinema vero, per una volta non basato sulla solita serie di romanzi young adult o sull'ennesimo reboot della trasposizione cinematografica di un fumetto della Marvel.
Magari lo catalogheranno come qualcosa di bizzarro e lo guarderanno con sospetto. Oppure, se sono fortunati, si aprirà loro un nuovo mondo (cinematograficamente parlando). In caso contrario, be', peggio per loro.

 
Di Carla (del 24/03/2012 @ 05:38:05, in Cinema, linkato 2732 volte)

© 2011 La Petite Reine, Studio 37, La Classe Américaine, JD Prod, France 3 Cinéma, Jouror Production, uFilmsCome ho già scritto in passato ho un amore viscerale per il cinema. Non è semplicemente che mi piace: lo adoro proprio. E penso che non ci sia niente di meglio del cinema che racconta se stesso.
Avevo sentito parlare per la prima volta di "The Artist" al tempo del Festival di Cannes 2011. Come molti ero scettica nei confronti di un film francese del 2011 in bianco e nero e muto. Ma in realtà non mi ero informata abbastanza, complice la scarsa pubblicità che questo film ha avuto in Italia sia prima che dopo la sua uscita ufficiale, avvenuta lo scorso dicembre, alla quale è seguita una distribuzione quasi nulla.
Ammetto che non ne sapevo molto, a parte una vaga infarinatura della trama: la storia di un attore del muto che si trova in grande difficoltà nel momento in cui il cinema passa al sonoro.
Non avevo colto la potenzialità di un'opera del genere.
Evidentemente non ero l'unica, visto che, come dicevo, del film si è visto ben poco nei cinema italiani al tempo della sua uscita, tanto che ero convinta che non fosse affatto uscito. Poi c'è stata le nomination agli Oscar, la vincita dei Golden Globe ed ecco che si è iniziato veramente a parlarne. Ma solo con la travolgente vittoria alla notte degli Oscar, che ha riguardato categorie importantissime - costumi, colonna sonora, regia, attore protagonista e soprattutto miglior film -, le cose sono finalmente cambiate. La prima volta che un film francese diventa il miglior film premiato dall'Academy è senza dubbio un evento storico. E ricordo che parliamo di un film in bianco e nero e muto, nell'era del tridimensionale.
Può sembrare qualcosa di rivoluzionario e in un certo senso lo è, ma basta vederlo per capire senza ombra di dubbio il perché di questo successo.
E posso dire che sono stata fortunata a riuscire a vederlo sul grande schermo, visto che è stato distribuito decentemente (senza esagerare) solo dopo che ha vinto l'Oscar (cosa che non stupisce, dopo il caso di due anni fa di "The Hurt Locker", che al momento della vittoria era già su Sky, dopo una brevissima apparizione nelle sale), e nella mia città, su quattro multisala, solo uno l'ha portato e tenuto per poche settimane.
Sono stata fortunata, perché un film del genere va visto al cinema, proprio per come è stato fatto: muto (quasi del tutto), in bianco e nero e persino in formato 1,33:1 (i 4:3 dei vecchi televisori), perché al tempo del muto non esisteva il formato panoramico. Solo sul grande schermo si può apprezzare al meglio la maestria con cui è stato creato.
Esso infatti, come dicevo, è sì il classico cinema che racconta sé stesso, ma non solo con la storia (ambientata a Hollywood), bensì addirittura con la parte tecnica. Il regista si è divertito a giocare con le espressioni degli attori, per riprodurre ciò che si faceva negli anni venti del secolo scorso, con la musica, che è proprio come quella di allora, con il formato dell'immagine, con i titoli volutamente ridicoli (ingenui) dei film citati, con l'assenza di immagini "inappropriate" (neanche un bacetto sulle labbra tra i protagonisti!), con le scritte che riportano battute e suoni, oltre che i titoli di testa e coda, che sembrano venire direttamente dal passato, con le immagini leggermente accelerate, con l'assenza del suono e la sua improvvisa comparsa.
Viene raccontato il cinema così bene che il film si apre con una scena in un cinema, con il pubblico tutto agghindato, lo schermo col nostro protagonista in versione agente segreto e l'orchestra delle grandi occasioni, che suona dal vivo la colonna sonora.
Ragazzi, questo è cinema allo stato puro. Questa è arte. È il cinema che fa quello che sa fare meglio e che ne rappresenta l'essenza: raccontare una storia con le immagini.
L'assenza di dialoghi ti costringe a concentrarti sui dettagli. Perdere una sola espressione significa rischiare di non capire qualcosa della trama. L'immagine ti assorbe e nel silenzio della sala, tu non sei più lì, ma dentro lo schermo. E quando la scritta "BANG" appare, tu sussulti, preoccupato di ciò che può essere accaduto, più di quanto potrebbe succedere col più sofisticato effetto sonoro creato al computer.
E ti commuovi.
Questa è emozione pura, quella che solo il cinema riesce a darti.

Nella foto: Jean Dujardin (vincitore dell'Oscar come miglior attore protagonista) e Bérénice Bejo.

 

 

 
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