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 Luna... di Carla
 

“Il fatto che le nostre specie sono nemiche non significa che anche tu e io dobbiamo esserlo.” Per caso

 

Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Carla (del 14/09/2016 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 4364 volte)

Come sarà capitato a molti di voi, ho avuto modo di conoscere per la prima volta la bravura di Jean Dujardin grazie alla sua interpretazione di George Valentin in “The Artist”, che gli è valsa il premio Oscar come miglior attore protagonista nel 2012. L’ho poi rivisto anni dopo in un ruolo drammatico in “French Connection”, altro film che ho apprezzato tantissimo.
In “Un amore all’altezza”, grazie agli effetti speciali, Dujardin si trova a interpretare addirittura il ruolo di una persona affetta da nanismo in una commedia a tratti esilarante che però spinge anche a riflettere.
 
Le sue qualità come attore sono ancora una volta indiscusse ed emergono ancora di più nei ruoli in cui non può sfruttare una delle sue qualità. In “The Artist” si trattava della voce e in questo film invece è la bellezza. Sì, perché Dujardin è indubbiamente un bell’uomo e riesce a mantenere intatto il proprio fascino anche nel ruolo di Alexandre, che raggiunge appena il metro e trentasei centimetri.
 
C’è da dire che gli effetti speciali, pur abbassandolo, non hanno reso in maniera fedele le proporzioni alterate che il nanismo provoca, ma applicando una certa sospensione dell’incredulità il tutto appare abbastanza convincente, soprattutto nelle inquadrature in cui non si vede il suo corpo per intero.
 
Al di là di questi aspetti tecnici, “Un amore all’altezza” è un film davvero carino.
 
 
Be’, i protagonisti sono tutt’altro che dei poveracci. Alexandre è un architetto di grido che vive in una villa con tanto di piscina insieme al figlio sognatore e ambizioso, che per il momento dipende economicamente da lui (ma è destinato al successo). Diane (interpretata dall’attrice belga Virginie Efira) è invece un’avvocatessa proprietaria di uno studio insieme all’ex-marito.
Tutto il contesto in cui si muovono è molto cinematografico: le feste, i vernissage, il paracadutismo (che pare quasi un gioco da ragazzi che potrebbe praticare chiunque), case che sembrano regge, i locali segreti e così via.
 
La distribuzione e i tempi della gag sono assolutamente perfetti, tanto che il film scivola via veloce tra una risata e l’altra.
Alexandre potrebbe essere il classico principe azzurro, affascinante, simpatico, di successo, ma gli mancano almeno quaranta centimetri a raggiungere la perfezione, quaranta centimetri che pesano parecchio.
Nonostante certi aspetti abbastanza volutamente irrealistici della trama, è facile calarsi nei panni di Diane, che pur innamorata di Alexandre, soffre il giudizio degli altri.
Infatti, può essere facile dire che l’amore permette di superare tutti gli ostacoli, ma nella realtà stare al fianco di qualcuno che è diverso crea molti problemi. Ignorarli e fingere che non abbiano un peso non li fa scomparire, ma ciò che questa piccola chicca cinematografica prova a trasmettere è che bisogna essere consapevoli e trovare insieme il modo di affrontarli giorno per giorno, come dovrebbe sempre succedere tra due persone che decidono di condividere la propria vita.
Certo, se poi si è ricchi come i protagonisti di “Un amore all’altezza” è indubbiamente più semplice!
 
Si tratta di un film, in altre parole, che unisce una riflessione non banale e situazioni comiche, rese magnificamente dalla bravura di tutto il cast (non solo dei due protagonisti).
Si esce dalla sala rinfrancati e di buonumore, ma senza aver del tutto spento il cervello per un centinaio di minuti.
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Di Carla (del 13/09/2016 @ 09:30:00, in Luoghi dei romanzi, linkato 4309 volte)

Un appassionato del grande schermo in visita a Londra non può certo fare a meno di recarsi a Leicester Square. Questa isola pedonale è infatti sede di due cinema di grande rilievo nel Regno Unito: l’Odeon Leicester Square (foto accanto) e l’Empire Leicester Square (che include 9 sale, di cui una con lo schermo più grande del Paese; foto sotto). In passato c’era anche l’Odeon West End, ora chiuso, mentre nelle vicinanze si trova il Prince Charles, in cui si proiettano i cosiddetti film cult.
 
Tale peculiarità fa sì che questa piazza veda spesso importanti attori e registi sfilare davanti al pubblico e ai rappresentanti dei media in occasione delle prime europee o addirittura mondiali di importanti film. Io stessa una volta, nell’autunno del 2004, passando per caso per Leicester Square mi imbattei nella prima britannica diGarden State” nell’ambito del London Film Festival e vidi sul tappeto rosso Zach Braff e una infreddolita Natalie Portman.
 
Leicester Square è situata nel West End (nella City of Westminster), proprio nel cuore di Londra. A pochi passi di distanza è circondata da altri luoghi di interesse turistico come Trafalgar Square, dove si affaccia la National Gallery (l’ingresso alla mostra permanente è gratuito), e Piccadilly Circus, con la sua famosa statua di Eros. Al centro della piazza è situato un piccolo parco, che è stato rinnovato nel 2012 in occasione delle Olimpiadi.
 
Moltissimi ristoranti delle nazionalità più varie punteggiano l’intera zona che è particolarmente frequentata la notte durante il weekend e in generale d’estate. E poi ci sono i teatri del West End (una quarantina in tutta la Theatreland), all’interno dei quali vengono rappresentati famosi musical anche per diversi anni di seguito. L’ultimo che ho visto, nel 2011, è stato “Chicago”. I biglietti possono essere un po’ cari, ma se si acquistano in anticipo sul web ve la potete cavare con poche decine di sterline.
 
 
Proprio nei pressi della piazza vi è il Leicester Square Theatre, che, inizialmente costruito come chiesa nel 1955, divenne negli anni ’60 del secolo scorso una location per concerti di musica dal vivo, cambiando più volte nome. Nel 1976, quando ancora si chiamava Notre Dame Hall, ospitò uno dei primi concerti dei Sex Pistols.
 
Sulla piazza si affaccia anche il casino Hippodrome e la sede di Global Radio, al cui interno si trovano ben otto emittenti radio.
Leicester Square è, inoltre, uno dei luoghi di Londra dove vengono organizzati degli eventi in occasione del Capodanno Cinese.
 
La stazione di metropolitana più vicina è appunto chiamata Leicester Square e ne “Il mentore” (il primo libro della trilogia del detective Shaw) il detective Eric Shaw e Adele Pennington sono proprio approdati a essa in un sabato di giugno del 2014, per poi andare a mangiare in un ristorante vicino. Quell’uscita improvvisata segnerà il passaggio da un semplice rapporto di lavoro all’inizio di qualcos’altro tra la giovane criminologa e il suo capo.
 
Dopo la cena si siederanno su un muretto, esattamente nello stesso punto dove io stessa mi sono seduta nell’agosto del 2012, pochi mesi prima di scrivere la prima stesura del romanzo, e ho scattato la seconda foto che vedete in questo articolo.
 
Credo proprio che, la prossima volta che andrò a Londra e passeggerò in Leicester Square, non potrò fare a meno di guardarmi intorno, quasi sperando di vederli passare di lì.
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Di Carla (del 12/09/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2416 volte)


 Il testimone che non ti aspetti

In questo racconto lungo la bravissima Stefania Mattana mette provvisoriamente da parte le storie poliziesche, ma non la cittadina in cui sono ambientate, Tursenia, che questa volta ospita nientemeno che Raffaello Sanzio durante la creazione della Pala Baglioni.
A narrarci questa vicenda è un testimone insospettabile: la tela.
Mentre il pittore lavora su di essa, la tela vede e ascolta le conversazioni di Raffaello e Donna Atalanta, rivelando al lettore i drammatici avvenimenti delle Nozze Rosse.
L'autrice, che in questo frangente si cimenta per la prima volta nella narrativa in italiano (i suoi libri precedenti erano stati scritti originariamente in inglese), riesce a calarci nel contesto storico, grazie all'utilizzo di un registro elevato che mima senza esagerare la parlata dell'epoca. Allo stesso tempo tale registro mette in evidenza come la voce narrante, pur essendo un dipinto creato nel 1500, esista ancora, abbia assistito al passare dei secoli e di conseguenza il suo modo di esprimersi si sia evoluto.
Il finale di questa piccola perla della Mattana si ricollega alla sua produzione precedente e ci lascia con un sorriso.

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Di Carla (del 09/09/2016 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 3714 volte)

Se mi dovessi basare sulla visione dei film incentrati su questo personaggio, di cui di recente ho rivisto anche i primi tre, arriverei alla conclusione che Jason Bourne non dorme (e se ci prova è perseguitato da incubi), non mangia, gira mezzo mondo perlopiù in treno e la cosa sembra non stancarlo minimamente, non ha paura di nulla, non gli importa di nessuno (a parte di Marie, che proprio per questo è stata eliminata nel secondo film), le rare volte che viene ferito diventa più forte e non ha neanche bisogno di portarsi un’arma: al momento opportuno, quando si trova ad affrontare non meno di tre addestratissimi agenti, li mette fuori combattimento in pochi secondi a mani nude e prende una delle loro pistole.
Insomma, è indistruttibile.
 
Sì, certo, ha avuto quella brutta amnesia e i suoi ricordi riaffiorano comodamente poco alla volta, tanto da imbastire la trama di un altro film. Ma più ricorda, meno pare emergere dell’uomo che c’era prima: il fantomatico David Webb.
 
Ciò che noto andando avanti nei film è il venire meno dell’empatia del personaggio, che man mano si disumanizza muovendosi sempre più velocemente da una scena d’azione mozzafiato all’altra.
In “The Bourne Identity” mi sono chiesta insieme a lui chi fosse, ho provato preoccupazione per lui e per la donna che aveva deciso di fidarsi di lui e aiutarlo. Solo anni dopo, quando ho letto il libro di Robert Ludlum cui era ispirato, ho saputo che questo è l’unico film della serie ad avere un qualche legame con i romanzi. E si vede, poiché il Bourne del primo film è un personaggio con un certo spessore. Pur comportandosi istintivamente come una macchina da guerra, è pieno di dubbi e timori, come il suo alter ego letterario. La trama è un po’ diversa, anche perché il contesto in cui si svolge è molto più avanti nel tempo, cosa che ha richiesto degli adattamenti. Inoltre il mezzo cinematografico impone una certa riduzione e semplificazione di un romanzo che, invece, è estremamente intricato.
 
Però, dal momento in cui ci si stacca dall’opera di Ludlum (che ha ispirato, lo ammetto, il mio action thriller “Affinità d’intenti”), chi ne subisce di più le conseguenze è proprio il personaggio di Bourne. Viene meno del tutto ciò che la caratterizza: il suo essere un po’ folle, il suo oscillare tra la personalità normale di Webb e quella assetata di vendetta di Bourne, il suo essere fallibile.
Il Bourne dei film, infatti, sbaglia di rado. È sempre un passo avanti agli altri. E questa sua caratteristica si accentua col venire meno dei legami con altre persone, a partire da Marie (interpretata dalla bravissima Franka Potente), per quanto a muoverlo sia, almeno in teoria, un desiderio di vendetta oltre che quello di sopravvivenza, unito all’assenza di alcun timore della morte.
 
In questo contesto le trame si ripetono. Qualcuno vuole farlo fuori, in genere qualcuno della CIA, che si tratti o meno di una decisione ufficiale e approvata. Gli sguinzagliano contro i più spietati asset (quanto mi piace questo termine per indicare un sicario!). Cattivissimi. Fanno fuori chiunque si trovi sulla loro strada, ma mai una volta che riescano a far fuori Bourne.
D’altro canto, quando lui fugge in auto o in moto in compagnia di qualcuno, questo qualcuno finisce per beccarsi la pallottola destinata a lui.
E non sapete quanto mi abbia dato fastidio capire che sarebbe successo anche in questo ultimo film. Guardavo il lungo inseguimento ad Atene e ricordavo quello in India all’inizio di “The Bourne Supremacy”. Era scontato che sarebbe finito così. E in entrambi i casi mi è dispiaciuto, poiché venivano eliminati due personaggi (gli unici) con i quali lui aveva un legame che dava continuità alla trama.
 
 
Jason Bourne” è un ripetersi di tutti questi elementi, tenuti insieme da un segreto da scoprire che riguarda il padre del protagonista e che rappresenta l’unico elemento di novità. Il resto è azione, azione e ancora azione.
Non che mi stia lamentando. Io adoro l’azione.
Sono rimasta per tutta la durata del film incollata alla poltroncina del cinema a seguire il vorticoso succedersi degli eventi e gli stacchi continui della macchina da presa, accompagnata dalla certezza che Bourne avrebbe sempre avuto la meglio. Il bello era scoprire come ci sarebbe riuscito, cosa si sarebbero inventati per fargli superare ogni ostacolo, quale altra famosa città avrebbero messo a ferro e fuoco e in che modo lui avrebbe comunque lasciato gli altri con un palmo di naso.
 
E poi ci sono gli inseguimenti in auto. Non importa se il suo avversario guida un Humvee, che fa saltare gli altri mezzi come fossero birilli, e Bourne una normalissima auto. Quest’ultima si ammaccherà, ma andrà sempre forte, anzi, ancora più forte di prima. Lui, che sa fare tutto, guiderà senza fermarsi, scansando le auto che gli vengono incontro, perché non può certo fare a meno di infilarsi in contromano in qualche strada trafficatissima. Non importa se Bourne è ferito e non indossa la cintura di sicurezza. Quando l’auto cappotterà e lui ne uscirà zoppicando, sarà ancora in grado di combattere a mani nude col suo avversario. Rischierà di soccombere, ma alla fine un colpo di reni lo salverà.
 
Non dimentichiamoci poi la sua astuzia e sfrontatezza. Bourne osserva da lontano (ma neanche tanto) quell’unico personaggio della CIA che tutto sommato non lo considera una minaccia e anticipa le sue mosse. Era già accaduto con quello interpretato da Joan Allen in “The Bourne Supremacy” e in “The Bourne Ultimatum”, e adesso è la volta di Alicia Vikander, che, pur essendo brava e pur avendola apprezzata molto in altre pellicole, non riesce proprio a essermi simpatica in questo film per via del suo modo di pensare prima di tutto a se stessa. Ma non preoccupatevi: Bourne l’ha capita bene. Ve lo dimostrerà alla fine.
 
Insomma, questo film ha tutto quello che serve per piacermi, ma l’ho apprezzato meno del primo e del terzo, e non so se più o meno del secondo. Forse dipende dalla progressiva glacialità mostrata dal protagonista. O forse semplicemente perché non mi è andato giù il modo in cui viene trattata Nicky Parsons, interpretata da Julia Stiles, che è una delle mie attrici preferite. Ultimamente è sempre più relegata a ruoli secondari e speravo che, dopo “The Bourne Ultimatum”, dove invece era uno dei personaggi principali, ciò si sarebbe ripetuto in “Jason Bourne”.
 
Be’, comunque sia, me ne farò una ragione. E, se ci sarà un seguito (dal finale aperto si direbbe proprio di sì), mi toccherà andare a vedere anche quello. D’altronde, non posso mica perdermi un film con Matt Damon.
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Di Carla (del 08/09/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2527 volte)

 Chi ha ucciso Edward Kitchener?
 
Il secondo libro della trilogia di Greg Mandel è per certi versi un vero e proprio giallo. Gli elementi ci sono tutti: un morto, un luogo isolato, un numero ristretto di possibili colpevoli, molti dei quali avrebbero avuto un buon motivo per ucciderlo, e apparentemente non è stato nessuno di loro. Per riuscire a capire chi è l’assassino, devi scegliere il meno probabile, ma non puoi in alcun modo immaginare cosa ci sia sotto. L’elemento fantascientifico è quello che fa la magia, lasciandoti a bocca aperta.
Come sempre nei libri di Hamilton i personaggi sono credibili e ben approfonditi, e persino simpatici. La sua prosa elegante ti coinvolge trasportandoti nella loro mente e mostrandoti la realtà attraverso i loro occhi.
Il romanzo però non regge il confronto col primo. Eliminata la sorpresa nello scoprire e comprendere a fondo le capacità di Mandel, fornitegli dalla sua ghiandola, l’autore ha dovuto creare una nuova storia slegata alla precedente, tanto che il romanzo starebbe in piedi da solo. Ciò è reso anche possibile dai numerosi riassunti sugli avvenimenti passati e sulla situazione storica e politica, che da una parte rallentano il libro e dall’altra annoiano il lettore che si era già sorbito tutte quelle spiegazioni in “Mindstar Rising”. Capisco la necessità di metterli, ma non quella di farli così lunghi.
Nonostante l’intricato caso trattato in questo romanzo sia completamente nuovo, ho trovato troppi elementi simili al libro precedente che mi hanno provocato un senso di déjà-vu. Ci sono troppe descrizioni. Nel primo libro erano essenziali, perché il lettore stava conoscendo un nuovo mondo. Nel secondo diventano pesanti. In generale, a esclusione dell’ultima parte, che ha un ottimo ritmo, il libro presenta un’azione molto lenta (succedono relativamente poche cose per un libro di 376 pagine scritte in caratteri microscopici) e nel contempo non riesce sempre a tenere il lettore interessato con elementi nuovi e originali.
L’ultimo capitolo, però, è molto carino e risolleva il mio giudizio sul libro.
 
A Quantum Murder (Kindle, brossura, audiolibro) su Amazon.it.
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Sappiamo bene che la finzione altera molti degli aspetti relativi all’analisi delle prove fisiche durante un’investigazione. Prima di tutto esalta la sua importanza, quando nella realtà il più delle volte le prove fisiche portano a ben pochi risultati conclusivi per l’individuazione del colpevole.
 
In secondo luogo, le tempistiche non corrispondono a quelle reali. I tempi morti non sono divertenti, perciò nella finzione tutto avviene in maniera molto rapida, bastano pochi minuti o secondi per trovare un riscontro, perciò il colpevole viene individuato in un giorno (nelle serie TV) o in pochi giorni (nei film e nei romanzi).
 
Anche la tecnologia è ben lontana da quella reale. A parte la rappresentazione di apparecchiature fantascientifiche, vale a dire che non esistono (ancora), i laboratori di scienza forense vengono sempre descritti come estremamente moderni e che possono contare sulle ultime tecnologie sul mercato, inoltre hanno un personale numeroso e molto tempo per dedicarsi ai casi, senza nessun lavoro arretrato.
Nella realtà i finanziamenti per questi laboratori non sono mai così abbondanti, il personale non è sufficiente per stare al passo con i crimini e quindi il lavoro arretrato è la normalità, diventando uno dei principali motivi per cui la risoluzione dei casi può richiedere mesi o anni, quando vengono risolti.
Inoltre, alcuni laboratori possono persino essere assenti nel territorio in cui è avvenuto il crimine, quindi le prove vengono inviate altrove, rendendo ancora più lenta la procedura. Per esempio, lo scorso maggio ho avuto l’opportunità di visitare una caserma della Polizia di Stato nella mia città, Cagliari, dove ci è stato brevemente spiegato anche il ruolo della Polizia Scientifica (da non confondere col RIS, il Reparto di Investigazioni Scientifiche, che fa parte dell’Arma dei Carabinieri e svolge un lavoro analogo). E ho scoperto che a Cagliari non c’è un laboratorio biologico, quindi eventuali analisi del DNA sui reperti vengono fatte a Roma. D’altronde trovare una sorgente di DNA nelle prove fisiche è abbastanza raro e, fortunatamente, i crimini violenti da queste parti sono tutt’altro che comuni, quindi pensandoci bene tutto ciò ha una certa logica, ma, considerando il problema geografico (siamo in un’isola) e la mole di lavoro che di certo esiste già nei laboratori di Roma, non si tratta di una situazione ideale.
Questo già di per sé rappresenterebbe una motivazione sufficiente a impedirmi di ambientare uno dei miei libri nella mia città (oltre al fatto che qui non ci sono mai stati dei serial killer, nel senso moderno del termine).
 
Infine c’è da considerare la valutazione che questo lavoro poi ottiene in tribunale. Sappiamo che l’effetto CSI può dare l’impressione che i casi vengano risolti e i colpevoli condannati laddove esistono sufficienti prove fisiche, quando in realtà nella maggior parte delle situazioni sono altri tipi di prove a determinare il risultato di un processo.
 
C’è però un altro aspetto che viene rappresentato in maniera distorta nella finzione che si occupa di scienze forensi: i vari ruoli delle persone che partecipano alle investigazioni.
Nella finzione vediamo le stesse persone raccogliere le prove sulla scena del crimine, analizzarle in laboratorio, identificare i sospetti, interrogare questi ultimi, i testimoni e le vittime (se non sono morte!), e addirittura compiere degli arresti.
 
La realtà è spesso diversa. Ci sono i cosiddetti investigatori della scena del crimine, che raccolgono le prove sulla scena. Poi ci sono gli scienziati forensi che le analizzano ed eventualmente un medico legale, nel caso di un omicidio. Mentre l’identificazione dei sospetti, gli interrogatori e gli arresti vengono svolti dagli agenti e gli investigatori (i detective, in contesto anglosassone) della polizia. Gli esperti forensi e i medici legali, poi, possono rientrare in gioco nell’aula di un tribunale per illustrare alla corte i risultati dell’esame delle prove fisiche.
 
Questa compartimentazione, oltre ad avere uno scopo organizzativo (ognuno si specializza in un aspetto, fornendo così una migliore prestazione), è importante per mantenere l’oggettività durante un’investigazione. In certi contesti geografici la separazione tra i vari ruoli è meno netta, ma in altri è totale. Talvolta è tale che, come spesso accade nel Regno Unito, gli investigatori della scena del crimine e/o gli esperti forensi potrebbero non essere affatto dei poliziotti.
Allo stesso tempo però tutte queste persone interagiscono fra di loro, si consultano, perché se ciò non avvenisse si avrebbe una riduzione dell’efficienza. Si cerca, insomma, di trovare un giusto equilibrio che permetta di ottenere il miglior risultato. Poi questo, al contrario di come si osserva nella finzione, può non arrivare o, peggio, essere errato, poiché si parla sempre di persone che possono compiere degli errori.
 
Esistono poi delle terminologie specifiche che nella finzione non vengono usate o vengono semplificate, anche perché quelle reali tendono a cambiare da un paese all’altro o semplicemente sono troppo lunghe o astruse per essere usate in narrativa.
 
Un classico esempio è quello dei termini anatomopatologo, medico legale e coroner. Sono tre cose diverse che spesso nella finzione coincidono e possono farlo anche nella realtà, ma non è sempre così. L’anatomopatologo è uno specialista che individua e analizza le alterazioni di tessuti e organi dovuti a malattia. In genere lavora sui vivi, non sui morti. Può però essere coinvolto in un’investigazione oppure diventare un medico legale, poiché la sua specializzazione è particolarmente adatta per l’individuazione della causa della morte o di altre lesioni nel cadavere di una vittima.
Il medico legale è, in sintesi, la persona che si occupa delle autopsie. Non deve però essere necessariamente specializzato in anatomopatologia. Si tratta di un tipo di carriera lavorativa dove possono convergere dei medici che si sono specializzati in qualcos’altro. Mi viene in mente a questo proposito un esempio della finzione: “Body of Proof”, dove la protagonista è un neurochirurgo che in seguito a un incidente non può più esercitare e quindi si è messa a lavorare come medico legale (e, come si vede dalla foto sopra, si mette persino a perquisire la scena del crimine).
Infine il coroner è una figura tipicamente anglosassone, anche se il nostro background di finzione americana e britannica può portarci a pensare che esista ovunque. Si tratta di un ufficiale giudiziario che in caso di morti sospette ha il compito di stabilire le circostanze del decesso e l’identità della vittima. Il coroner può essere un avvocato o un medico, quindi talvolta è un medico legale, ma spesso non è così. Ciò dipende anche dalle leggi del singolo paese o addirittura, nel caso di paesi federali (come gli Stati Uniti d’America), dello stato/regione.
 
E poi c’è la distinzione tra criminologo e criminalista. I due termini hanno significati diversi in paesi diversi.
In inglese, il criminologo (criminologist) è un esperto di scienze forensi, quindi può essere un investigatore della scena del crimine e/o un tecnico forense. Il termine “criminalista” (criminalist) può essere inteso sia come esperto di scienze forensi che come sinonimo di penalista e di psicologo o psichiatra penale. La scelta dell’uno o dell’altro termine varia secondo la diversa variante linguistica (americana, britannica, canadese, australiana, neozelandese, ecc…) e l’uso comune. Tra i due prevale soprattutto il termine “criminologo”, anche perché è quello usato nella finzione. I britannici spesso evitano il termine “criminologo”, che è più americano, ricorrendo a quelli specifici di “investigatore della scena del crimine” (crime scene investigator) e “tecnico forense” o “scienziato forense” (forensic scientist).
 
E in Italia? Qui l’uso è ancora diverso. La persona che analizza le prove fisiche è definita criminalista.
Il criminologo, invece, è un esperto di criminologia, vale a dire quella scienza che studia i reati, i loro autori, le vittime, i tipi di condotta criminale, la prevenzione dei crimini e il reinserimento dei colpevoli nella società, dopo aver scontato la propria pena. È insomma un campo interdisciplinare che unisce competenze nell’ambito del diritto penale, la psicologia, la biologia, la sociologia e tante altre discipline e che si focalizza sul “chi”, non sul “dove” o il “come”, quindi non partecipa alle indagini né ai processi.
 
Chi, come me, scrive romanzi in cui si parla anche di scienze forensi deve tenere conto nel target dei lettori, di cui io stessa faccio parte, sia per quanto riguarda le conoscenze terminologiche sia dal punto di vista geografico. Per evitare confusione nel lettore, nei libri della trilogia del detective Eric Shaw ho cercato di utilizzare dei termini semplici, comprensibili e di uso comune. Per questo motivo parlo di “medico legale” e non dell’eventuale specializzazione del dottor Dawson o del suo assistente, il dottor Collins (che compare per la prima volta in “Sindrome”). Uso, solo una volta, anche il termine “coroner”, visto il contesto anglosassone, in una scena de “Il mentore” a indicare la presenza di questa figura o di un suo rappresentante in una scena del crimine con un cadavere. In realtà nomino il furgone del coroner, senza specificare chi sia il coroner.
 
Dovendo poi indicare il ruolo dei personaggi che lavorano per la scientifica di Scotland Yard con un termine unico e di largo uso nella finzione, ho usato il generico “criminologo” (se la storia fosse stata ambientata in Italia sarebbe stato sbagliato) invece che “investigatore della scena del crimine” o “scienziato forense”, che suonano troppo tecnici o semplicemente ingombranti in un romanzo per indicare la persona che sta parlando, sebbene siano quelli più corretti in un contesto britannico.
 
Infine, per fare onore all’abitudine di serie TV, film e altri romanzi di utilizzare i personaggi in tutte le fasi delle indagini, i miei criminologi vanno sulla scena, fanno le analisi in laboratorio, ma sono anche tutti quanti poliziotti (cosa non sempre vera nel Regno Unito), non solo il detective ispettore capo che dirige la squadra (Eric Shaw), quindi interrogano le persone, partecipano agli inseguimenti e arrestano i criminali, e a differenza della maggior parte dei veri poliziotti britannici portano addirittura un’arma da fuoco.
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Di Carla (del 06/09/2016 @ 09:30:00, in Serie TV, linkato 6024 volte)

La trasmissione su Fox Italia di questa serie canadese venne anticipata da una grande pubblicità che puntava sul fatto che si trattasse di una prima mondiale. “The Listener” in realtà venne trasmesso in Italia e in altri paesi qualche giorno dopo la sua prima canadese (3 marzo 2009), ma alcuni mesi prima di quella statunitense.
 
Non so come, visto che in generale non vado matta per le serie che abbiano a che fare con il paranormale, ma mi ritrovai comunque a guardarla dalla prima puntata fino all’ultima nel 2014.
La serie aveva come protagonista un paramedico, Toby Logan (interpretato da Craig Olejnik), dotato di capacità telepatiche. Toby riusciva a leggere il pensiero, che si trattasse di suoni, immagini o parole, e a causa di questo talento si ritrovava coinvolto, suo malgrado, nella risoluzione di casi di omicidio.
 
La prima stagione lo vedeva interagire con una detective, Charlie Marks (interpretata da Lisa Marcos; la prima a sinistra nell’ultima foto), ma ciò avveniva in maniera quasi fortuita, poiché Toby durante il suo servizio in ambulanza si trovava spesso a intervenire dove era avvenuto un crimine e a leggere la mente delle vittime, prima che morissero, o di altre persone coinvolte. Parallelamente ai singoli casi c’era una sottotrama relativa al passato di Toby e all’origine di questa sua capacità.
 
 
Devo dire che la serie non era eccezionale, ma si lasciava guardare con piacere, complice l’ambientazione di Toronto, sicuramente meno inflazionata di altre, e la presenza di un buon cast di attori poco conosciuti. Il fatto di essere una serie canadese la rendeva distintamente diversa da quelle americane nel modo in cui venivano trattati alcuni temi, presentando meno cliché e più elementi originali. L’aspetto drammatico era poi stemperato dalla presenza di un personaggio ironico: Osman Bey (interpretato da Ennis Esmer), detto Oz, vale a dire il collega di Toby. La sottotrama, infine, era intrigante e spingeva alla visione della puntata successiva.
 
Dopo la prima stagione (vedi il cast nella foto accanto) la serie subì una rivoluzione, poiché vennero sostituiti gli sceneggiatori e il suo stesso creatore, Michael Amo, smise di lavorarci.
Invece di trovarsi lui per caso coinvolto nei crimini, Toby veniva ogni volta chiamato da una sergente della IIB (una speciale unità investigativa), Michelle McClunsky (interpretata da Lauren Lee Smith, che avevo già visto nella stagione nove di “CSI” e successivamente ha avuto un ruolo importante nella miniserie di fantascienza “Ascension”), tanto che a partire dalla terza smise di fare il paramedico e iniziò a lavorare nel team come consulente. Solo in pochi (anche se il loro numero tendeva ad aumentare) sapevano di questa sua capacità e ufficialmente era considerato un esperto delle microespressioni facciali in grado di capire se una persona fosse sincera o meno.
 
A causa di ciò la sottotrama sparì completamente lasciando spazio a un andamento episodico della serie che diventò quasi di natura procedurale. “The Listener” perse in originalità, ma acquistò in ritmo e azione. L’intenzione era probabilmente quella di attirare un pubblico più ampio e parve funzionare, poiché si andò avanti fino alla sua conclusione programmata con la quinta stagione.
Negli USA la serie non andò particolarmente bene, mentre in Italia è stata addirittura la seconda serie più guardata di sempre di Fox.
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Di Carla (del 05/09/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2248 volte)

 Fantascienza hard d’altri tempi
 
So bene di trovarmi al cospetto di un classico della fantascienza scritto negli anni ’50 del secolo passato, ma sono ovviamente costretta a giudicarlo in base ai miei gusti di lettrice di questi tempi.
Si tratta di uno dei primi esempi di fantascienza hard, cioè che cerca di basarsi sulla scienza reale, ma, essendo un romanzo del 1951, la maggior parte della scienza è sorpassata. Quindi va presa così com’è.
La storia suona fredda e lineare, nonostante ci siano dei passaggi che sulla carta dovrebbero emozionare, sia riguardo alla sfera personale del protagonista sia riguardo agli eventi avventurosi e le scoperte di cui è testimone. Ciò fa sì che il romanzo appaia come un resoconto che non coinvolge durante la lettura.
La contemporanea presenza di questi due aspetti purtroppo non mi ha fatto apprezzare il libro.
Ho letto altri classici che raccontano un Marte totalmente diverso da ciò che poi si è rivelato essere, ma il modo in cui erano scritti li rendeva comunque godibili, poiché mi permettevano di emozionarmi insieme al protagonista, penare con lui. Si creava un forte legame lettore-protagonista che superava tutte le assurdità scientifiche e gli aspetti anacronistici della storia.
In questo libro non sono riuscita a creare questo legame. L’ho trovato semplicemente noioso e temo che non mi abbia lasciato nulla alla fine della lettura.
So bene che questo è un rischio che si corre leggendo i classici, poiché alcuni di essi sono lo specchio di un tipo di narrativa molto diversa da quella contemporanea e che di conseguenza non a tutti piace al giorno d’oggi. Sicuramente non a me.
Ho comunque apprezzato alcune suggestioni generate dall’ambientazione fantasiosa.
L’edizione che ho letto è anche il n. 1 di Urania e non so fino a che punto si discosti dal testo originale (so che c’è stato un certo rimaneggiamento durante la traduzione). Magari avrei apprezzato di più il libro nel complesso o almeno la prosa di Clarke nella versione originale.
 
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Di Carla (del 02/09/2016 @ 09:30:00, in Autori preferiti, linkato 5068 volte)

Ricordo ancora quella notte in cui, seduta sul mio letto, stavo leggendo la scena de “Il silenzio degli innocenti” in cui Clarice entra nella casa di Buffalo Bill.
Avevo le palpitazioni.
E non scherzo.
 
Ho letto tantissimi libri nella mia vita, alcuni davvero belli ed emozionanti, ma solo “Il silenzio degli innocenti” mi ha fatto sentire così. Mentre lo leggevo, io ero Clarice e, tra la paura e l’orrore, perlustravo quella casa in cerca della figlia della senatrice. Ero anche quella ragazza (non ricordo il suo nome) che, bloccata nel pozzo, implorava Clarice che non la lasciasse sola. Ma Clarice doveva prima trovare il serial killer, affinché entrambe fossero al sicuro.
 
Tutti i romanzi di Thomas Harris, per quanto siano solo cinque, hanno sortito in me lo stesso effetto: mi sentivo dentro la storia e dovevo leggere in qualsiasi momento, qualunque cosa stessi facendo.
Nessun altro autore è mai riuscito a catturarmi così tanto con la propria prosa da spingermi a leggere fuori dai luoghi e tempi soliti che dedico a questa attività. C’è qualcosa nel suo modo di narrare unico che è in perfetta sintonia con me, senza la minima sbavatura, per cui quando mi viene chiesto quale sia il mio autore preferito, intendo il primo in assoluto nella mia graduatoria, la risposta è solo una: Thomas Harris.
Gli altri vengono molto dopo.
 
Su di lui non si sa molto, essendo una persona molto discreta, sfuggente alla stampa. Sappiamo che in trentuno anni ha scritto cinque libri e che ne sono passati dieci dall’ultimo. Da ognuno di essi è stato tratto un film di successo, dal suo secondo libro “Red Dragon” (precedentemente pubblicato col titolo “Il delitto della terza luna” e “Drago rosso”) addirittura due. Pare che abbia riferito a Stephen King che per lui scrivere è una vera tortura e questo spiega il perché sia così poco prolifico.
Nel mio piccolo lo comprendo perfettamente. Scrivere è davvero una tortura, ma di certo lui è più fortunato di me, perché può permettersi poco più di un libro per decennio, visto il successo che hanno!
 
Come molti, l’ho conosciuto con “Il silenzio degli innocenti”, ma il mio preferito dei suoi libri è “Hannibal”, dove la figura di Lecter, il perfetto antieroe, viene mostrata in tutto il suo splendore al lettore. Non è un caso che il dottor Hannibal Lecter, il serial killer detto anche il cannibale, per l’abitudine di nutrirsi di alcuni organi delle sue vittime, sia anche il mio personaggio letterario preferito.
Ciò che adoro dello scrivere di Harris è la sua incredibile capacità di sviluppare un personaggio dalle chiare connotazioni negative, ma riuscire comunque a farmelo amare. Nessuno come lui riesce a stravolgere lo stesso concetto di bene e male.
In “Hannibal” in particolare non esiste un buono in senso stretto. C’è tanta di quella cattiveria nei personaggi che Lecter diventa l’eroe della storia a tutti gli effetti. E il modo in cui viene mostrato ciò che alberga nella sua mente (il palazzo della memoria) mi fa comprendere le sue motivazioni, il perché sia diventato quello che è, fino a immedesimarmi in lui e accettare le sue azioni, la sua cattiveria.
 
Harris mi ha dimostrato che un cattivo vero come Lecter (e lui lo è senza dubbio, poiché non vi è in lui alcun rimorso né la minima ricerca di redenzione) può essere l’eroe di un romanzo, apprezzato e riconosciuto come tale da tantissimi lettori.
 
Lecter fa la sua prima e breve comparizione in “Red Dragon”. Il primo film tratto da questo romanzo è “Manhunter - Frammenti di un omicidio” con William Petersen (il Gil Grissom di CSI), dove Lecter, qui stranamente chiamato Lecktor, è interpretato da Brian Cox. La sua seconda trasposizione cinematografica, “Red Dragon” con Edward Norton, vede invece Anthony Hopkins riprendere il suo ruolo nel 2002, dopo “Il silenzio degli innocenti” (1991) per cui vinse l’Oscar nel 1992 come migliore attore protagonista (lo vinsero anche Jodie Foster nel ruolo di Clarice, il regista Jonathan Demme, lo sceneggiatore Ted Tally e lo stesso film) e dopo “Hannibal” (2001).
L’ultimo romanzo della serie, “Hannibal Lecter - Le origini del male”, è stato pubblicato nel 2006 e racconta la gioventù del personaggio. La storia di Hannibal, invece, si conclude con “Hannibal” (pubblicato 1999), che ha un finale completamente diverso da quello del film.
A questo personaggio è stata anche dedicata una serie TV, “Hannibal”.
 
Prima della serie di Lecter, Harris ha scritto “Black Sunday” (1975), un romanzo che racconta di un attentato terroristico con un dirigibile ai danni dello stadio di New Orleans, dove si sta disputando il Super Bowl. Anche in questo l’autore investiga nell’animo dei cattivi, mostrando senza filtri al lettore la logica delle loro intenzioni e delle loro azioni.
Ricordo di aver iniziato a leggere il libro nel 2001 e di essere stata costretta a interrompere momentaneamente la lettura dopo gli attentati dell’11 settembre, poiché mi risultava troppo realistica. L’ho poi ripreso anni dopo e terminato in pochissimi giorni.
 
Dopo “Hannibal - Le origini del male” mi sono chiesta cosa Harris avrebbe mai potuto scrivere, visto che la serie di Lecter pareva conclusa. Certo, ci sarebbe tanto da raccontare tra la fine di questo romanzo e l’inizio di “Red Dragon”, ma non so fino a che punto avrebbe senso farlo. Lecter è già perfetto così. Piuttosto sarei curiosa di sapere quali altri terribili personaggi dimorano nella sua mente. Vorrei conoscerli.
Non ho idea di cosa stia facendo Harris adesso, ma spero vivamente che si stia torturando almeno unultima volta per regalarci un’altra sua bellissima opera.
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Di Carla (del 01/09/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3575 volte)

 Il primo Bosch non si scorda mai
 
Non avevo mai letto nulla di Connelly in passato e ammetto che sono stata attratta da questa serie, poiché è stata portata alla mia attenzione dall’esistenza di una trasposizione televisiva prodotta da Amazon Studios. A parte ciò non sapevo nulla del protagonista, Harry Bosch, né avevo letto la trama di questo primo romanzo. Ho solo deciso di prenderlo e leggerlo, per poi rimandare i giudizi a dopo.
Be’, è stato un colpo di fulmine.
Sono subito riuscita a creare un forte legame con questo personaggio così pieno di difetti da essere un perfetto anti-eroe. Harry beve troppo, fuma troppo, dorme poco, mangia poco, è indisciplinato, cosa che l’ha portato a venire esiliato nella Omicidi di Hollywood. Ma Harry è scaltro, testardo, dotato di un grande intuito, che in passato gli ha procurato notevole successo. Nonostante la sua vita sia diventata problematica, fa di tutto per portare a termine il proprio lavoro, in particolare, come accade in questo libro, se si rende conto che in qualche modo è finito pure lui coinvolto nel caso.
Infatti non ci troviamo di fronte a un giallo, ma a un crime thriller. Il grado di coinvolgimento del protagonista sia con la vittima che con uno dei responsabili della sua morte lo rende parte integrante della trama principale, facendo sì che il personaggio subisca una crescita lungo l’arco della storia.
È anche vero che la delusione cui incorre (non specifico a che proposito per evitare spoiler) potrebbe bloccare questo processo e fare in modo che il personaggio si ripeta tale e quale nei libri successivi, ma l’esistenza di una sottotrama complessa mi fa ben sperare.
Ho trovato molto interessante la ricostruzione storica relativa ai topi delle gallerie in Vietnam. Una cosa che apprezzo parecchio nei romanzi che leggo è la loro capacità di insegnarti qualcosa di inatteso e “La memoria del topo” ci è riuscito.
Inoltre è suggestivo leggere una storia ambientata in un periodo in cui la gente usava ancora il telefono fisso per comunicare, non c’erano i cellulari e l’accesso ai computer era difficile persino per un detective della polizia. Tutto ciò rende l’investigazione più complessa e avvincente.
L’introspezione del personaggio è magnifica. Non si può non amarlo e non volerne sapere di più.
La trama è superintricata, non scade mai nella banalità, costringendoti a leggere con estrema attenzione tutto il romanzo.
La struttura in lunghe parti (suddivise nei pochi giorni in cui si svolge la storia) ti spinge a leggere il più possibile e così il romanzo scorre via veloce, nonostante il numero consistente di pagine.
Personalmente poi l’ho trovato di grande ispirazione durante la scrittura di un mio libro caratterizzato da un mood simile e questa scoperta è stata per una la ciliegina sulla torta che ha reso la lettura ancora più soddisfacente.
Insomma, in generale posso dire che si tratta di un gran bel romanzo e senza dubbio leggerò anche i successivi.
 
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