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Gli errori dei criminologi
Di Carla (del 26/08/2016 @ 09:30:00, in Scena del crimine, linkato 6008 volte)

Le impronte digitali sono uniche e per questo motivo sono considerate il metodo più efficace per stabilire l’identità di una persona insieme all’analisi del DNA, che però è molto più difficile da reperire sulla scena del crimine. Ma, a differenza del DNA che viene confrontato tramite a un procedimento strumentale il quale dà una risposta su cui, salvo manipolazioni del campione, non ci sono dubbi (per quanto fornisca solo un dato statistico), l’esame delle impronte digitali viene invece compiuto visivamente da una persona. Il computer può selezionare alcuni possibili profili che presentino delle somiglianze con l’impronta rilevata sulla scena, ma poi è il criminologo che deve fare un confronto visuale e prendere una decisione.
 
Si sa che il fattore umano comporta sempre un margine di errore, eppure ci si è resi conto quanto questo possa essere vero anche nell’ambito del confronto delle impronte digitali solo quando si sono verificati dei casi clamorosi di errori giudiziari.
 
Uno dei più famosi riguarda l’attacco terroristico di Madrid del 2004. Sulla scena era stato trovato un sacco di plastica contenente dei detonatori. Su di esso era stata rilevata un’impronta digitale latente, che era poi stata digitalizzata e trasmessa all’Interpol. Il confronto automatizzato con il database di quest’ultima aveva fornito venti risultati. Tra questi ne era stato individuato uno che, secondo un esperto di impronte digitali dell’FBI, presentava una corrispondenza molto elevata, tanto da portarlo a dire di aver trovato il proprietario dell’impronta rinvenuta sulla scena. La sua conclusione venne poi confermata da altri due esperti sempre all’FBI.
L’impronta era di un canadese, di nome Brandon Mayfield, un avvocato di fede musulmana, sposato con una donna egiziana. L’uomo negò di avere a che fare con l’attentato, ma venne comunque arrestato in base al rinvenimento di una sua impronta digitale.
Successivamente un altro esperto indipendente confermò per la quarta volta la conclusione di quelli dell’FBI, ma poco tempo dopo la polizia spagnola dichiarò di aver trovato il vero colpevole, il proprietario di quell’impronta (un algerino, che è stato poi incriminato per l’attentato). In virtù di ciò Mayfield, che non aveva davvero niente a che fare col caso, venne rilasciato.
 
La domanda che ci si pone è: come è possibile che ben quattro esperti fossero convinti che l’impronta ritrovata era la sua? Alla luce di questo, quanto è davvero affidabile l’uso delle impronte digitali per stabilire la colpevolezza di qualcuno?
E questo caso non è neppure l’unico, sebbene sia il più eclatante.
 
Un altro, per esempio, è avvenuto nel Regno Unito, dove sulla scena di un omicidio (la vittima si chiamava Marion Ross) fu rinvenuta un’impronta poi attribuita a una detective (Shirley McKie) che lavorava effettivamente al caso. Si potrebbe pensare al classico esempio di contaminazione involontaria della scena da parte della polizia, ma la detective non era mai entrata nel bagno dove era stata trovata l’impronta e, siccome continuava ad affermarlo, venne accusata di spergiuro e perse il lavoro.
Successivamente si resero conto che l’impronta non era sua. C’era stato, appunto, un errore umano da parte del criminologo che aveva eseguito il confronto. La detective riottenne il lavoro, ma allo stesso tempo siccome era stato trovato il colpevole dell’omicidio (un certo David Asbury) sempre grazie a un’impronta digitale, la corte non accettò quest’ultima come prova e lui venne rilasciato.
Anche in questo caso era stato fatto un errore, con l’aggravante che aveva avuto un’ulteriore conseguenza negativa, quella di far rilasciare il vero colpevole.
 
Quanti altri errori del genere vengono compiuti senza che se ne sappia nulla? Quante persone sono state scagionato o, peggio, incriminate e magari incarcerate a causa di questi errori?
Non si sa, ma di certo tutto questo mette in evidenza come l’uso delle impronte digitali, o di altre prove fisiche la cui identificazione dipende in gran parte o esclusivamente da una decisione presa da un essere umano,potrebbe non dare affatto certezze.
 
Di certo si può ridurre il margine di errore con opportuni accorgimenti.
Nel caso di Mayfield l’errore era probabilmente dovuto al fatto che tutti gli esperti coinvolti sapessero che l’uomo era musulmano (cosa che può creare un pregiudizio) e nel caso della McKie il fatto che lei lavorasse al caso (altro pregiudizio), ma soprattutto i successivi al primo erano consapevoli della conclusione cui erano giunti i loro colleghi (i confronti, invece, avrebbero dovuto essere ciechi).
 
Tutto ciò riguarda la realtà, che ancora una volta si presenta molto più avara di certezze di quanto non sia la finzione.
Onestamente non ricordo un solo film, romanzo o serie TV in cui il criminologo di turno abbia sbagliato dell’identificare il proprietario dell’impronta. Nella finzione queste figure professionali sono mostrate infallibili e, se mai esiste errore, è dovuto a una manipolazione della scena da parte del colpevole oppure è volontario.
In quest’ultima casistica rientrano le vicende di Dexter Morgan, protagonista della serie TV “Dexter” (e dei libri di Jeff Lindsay da cui è tratta), l’ematologo forense che spesso altera le proprie conclusioni di esperto o manipola le prove durante le indagini per coprire il proprio operato come serial killer o per assicurarsi che una certa persona non venga arrestata in modo che lui stesso possa ucciderla.
 
Insomma, nella finzione si tende ad esaltare l’astuzia dei protagonisti e i difetti, quando ci sono, non riguardano mai la sfera lavorativa. Tipicamente l’investigatore beve (o addirittura si droga), mangia poco, dorme poco o niente e magari neppure si lava, ma quando si tratta di indagare su un omicidio è sempre lucidissimo!
 
Un esempio di questo cliché è la serie di libri di Michael Connelly che ha come protagonista il detective Harry Bosch, da cui negli ultimi anni è stata tratta la serie TV “Bosch” prodotta dagli Amazon Studios.
Nel secondo libro, “Ghiaccio nero”, c’è poi un caso di errore nell’identificazione del proprietario delle impronte digitali, ma si tratta di un qualcosa di voluto e orchestrato per sviare le indagini e non di un semplice sbaglio fatto da chi ha compiuto il confronto.
L’errore umano senza un secondo fine non funziona un granché nella finzione, forse perché è troppo realistico.
 
Io stessa ammetto che nello scrivere la trilogia del detective Eric Shaw non ho inserito e non intendo inserire errori del genere da parte dei protagonisti. Qualche volta possono lasciarsi sfuggire un dettaglio (perché la cosa torna utile alla trama), ma mai sbagliare il confronto di un’impronta. Gli errori al massimo li fa l’antagonista di turno.
Ciò non significa che non sfrutti il fattore umano. Il detective Shaw infatti sfrutta questo tipo di vulnerabilità delle scienze forensi per addomesticare le prove, come nel caso di Johnson ne “Il mentore”, in cui fa in modo che vengano trovate le sue impronte sull’arma del delitto per indurlo a confessare.
 
Ma cosa succederebbe se nel seguire il proprio istinto puntasse alla persona sbagliata? Mettiamo che sia straconvinto di aver trovato il colpevole e forzi la situazione, manipolando una prova in modo che quest’ultimo non possa sfuggire alla giustizia.
E se successivamente, magari anni dopo, saltasse fuori qualcosa che mette in dubbio la validità di quella convinzione?
È proprio questo possibile dubbio che esplorerò nel libro finale della serie, “Oltre il limite”.