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Scene del crimine e licenze artistiche
Di Carla (del 14/07/2016 @ 09:30:00, in Scena del crimine, linkato 5333 volte)

Da appassionata di crime thriller, sia come autrice che lettrice e spettatrice, sono sempre stata incuriosita dal modo in cui la realtà delle procedure investigative, in particolare per ciò che riguarda la scienza forense, viene reinterpretata nella finzione per presentarla in una maniera comprensibile e in grado di intrattenere il pubblico. Una cosa che ho sempre notato è che chiunque sia il protagonista della storia, che si tratti di un detective, un medico legale, un criminologo, un pubblico ministero, un avvocato o addirittura un antropologo, tale personaggio assurge automaticamente a un ruolo fondamentale nell’investigazione.
 
Certo, le procedure cambiano da una paese all’altro e per quanto riguarda gli Stati Uniti, frequente scenario in cui un lettore/spettatore si imbatte, addirittura da stato a stato, per cui non è assurdo pensare che a seconda della location in cui si svolge la storia le dinamiche tra le persone che lavorano per scoprire il colpevole di un qualche crimine (solitamente si tratta di omicidio) siano regolate in maniera diversa.
Ma, al di là di casi particolari, sono più propensa a pensare che questo fenomeno sia semplicemente frutto di licenze artistiche. Al di là del protagonista detective, che per definizione ha il ruolo di investigare, tutte le storie che vedono altre figure come protagonista devono per forza piegarsi al volere del proprio creatore, affinché l’azione passi attraverso il personaggio principale e quindi la storia funzioni.
 
Il ruolo del medico legale è uno dei più gettonati. Ricordate “Quincy”? È una serie andata in onda sulla NBC a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 che ha come protagonista un anatomopatologo che si ritrova a indagare in prima persona in casi di omicidio. Allora ero troppo piccola, ma mi è capitato di vederla più recentemente su Sky e, nonostante l’effetto del passaggio degli anni, la trovo sempre molto avvincente.
Allo stesso filone appartengono altre serie come “Crossing Jordan”, “Body of Proof” o la recentissima “Rosewood”, senza dimenticarsi di quella letteraria di Kay Scarpetta nata dalla penna di Patricia Cornwell: tutte serie in cui gli anatomopatologi o i medici legali (c’è sempre molta confusione sulla terminologia, che le traduzioni in italiano non fanno che peggiorare) si danno un sacco da fare per scoprire il colpevole, quasi fossero dei detective, e spesso rischiano la propria vita.
 
La figura del criminologo, invece, deve molto al franchise di CSI, che forse per la prima volta l’ha messa in luce, tanto che ha creato notevole interesse nei suoi confronti da parte dell’opinione pubblica e ha fatto crescere il numero di giovani che desiderano intraprendere questo tipo di carriera, per poi magari scoprire che è molto meno emozionante e determinante nella risoluzione di un caso di come appare in TV! A questo proposito in un articolo di due anni fa ho parlato del cosiddetto “Effetto CSI.
 
Nella costante ricerca di un nuovo possibile protagonista delle investigazioni che non sia il classico detective si è arrivato persino all’antropologo forense della serie “Bones, tratta dai romanzi di Kathy Reichs (che è veramente un’antropologa forense), dove la dottoressa Temperance Brennan insieme al resto dei colleghi del Jeffersonian Institute (che nella realtà non esiste!) di Washington risolve efferati casi di omicidio. Okay, insieme a lei c’è l’agente speciale dell’FBI Seeley Booth, ma, diciamocelo, il motore di tutto è la Brennan.
 
La realtà su come si svolgono le indagini su un omicidio è di certo diversa, ma ciò non ha alcuna importanza, poiché non stiamo parlando di documentari, bensì di finzione. Ciò che conta è che la storia funzioni e che il lettore/spettatore si diverta.
E, comunque, le licenze artistiche vanno ben oltre i ruoli del personaggi. Basta pensare all’abbigliamento sulle scene del crimine. Chi ha visto anche solo una puntata di “CSI: Miami” (nella foto a lato, Horatio Caine interpretato da David Caruso) avrà notato criminologi aggirarsi tra i cadaveri in eleganti completi (gli uomini) o impeccabili tailleur con tanto di scarpa con tacco vertiginoso (le donne). E tutto questo nella caldissima Florida. Dove sono le tute protettive, i copriscarpe, le cuffiette e tutto il resto? Il massimo che vedi loro addosso sono un paio di guanti in lattice!
Per non parlare del fatto che al momento opportuno diventano tutti perfetti tiratori o abili negoziatori oppure che è sufficiente la più insignificante prova fisica (es. la solita fibra) per inchiodare l’assassino, poiché esiste un database di tutto.
Le licenze artistiche sono, insomma, ovunque e non sempre siamo in grado di individuare il confine tra realtà e finzione. E, tutto sommato, neppure ci interessa.
 
Personalmente, essendo una biologa, sono affascinata delle scienze forensi, ma più che altro a livello teorico. Avendo lavorato in passato in un laboratorio universitario (anche se le mie “indagini” erano nel campo dell’ecologia, quindi decisamente molto più allegre!) so perfettamente che si tratta di un mestiere fatto di procedure lente, spesso non del tutto attendibili, costellato di ripetizioni e risultati inconcludenti, in cui si produce una marea di dati dei quali solo una piccola parte è davvero utile o comunque utilizzabile. Se le storie dovessero davvero raccontare cosa vuol dire analizzare tutte le prove presenti sulla scena di un crimine, i loro fruitori si annoierebbero a morte.
Ecco perché si arriva alla licenza artistica: nei libri, film o serie TV, ogni evento deve muovere l’azione e poco importa come si vestano i personaggi, quali sia le loro capacità o quali dovrebbero essere esattamente i loro ruoli.
 
Così, quando mi sono ritrovata a scrivere per la prima volta un crime thriller procedurale, “Il mentore”, se da una parte ho cercato il più possibile di mantenere una certa logica intrinseca all’interno della trama oltre che una notevole plausibilità scientifica, di fatto da autrice sono stata io a creare le regole che governano il mondo in cui si muovono i miei personaggi.
È nata così la mia versione personale della sezione scientifica di Scotland Yard, dove i criminologi sono quasi tutti anche poliziotti (cosa che non è affatto vera nella realtà) e, come tali, non solo possiedono un’arma (la maggior parte dei poliziotti britannici non sono armati), ma la usano con estrema facilità. Inoltre, da nessuna parte specifico se stiano indossando qualche protezione particolare sulla scena, a parte i soliti guanti in lattice, ma d’altronde non dico neppure il contrario.
La stessa spiegazione del loro grado all’interno della polizia è ridotta al minimo in funzione delle necessità della trama. Per esempio, il protagonista, il detective Shaw, dirige una squadra della scientifica, ma solo nel secondo libro chiarisco che è un detective ispettore capo, poiché si accenna a una sua eventuale promozione, che poi rientrerà nella trama del libro finale della trilogia: “Oltre il limite”. Allo stesso modo nel secondo libro scopriamo che l’agente Mills è diventato sergente: il motivo è dare un’ulteriore dimostrazione del fatto che sono passati due anni.
Talvolta, inoltre, i personaggi hanno a disposizione tecnologie futuristiche da me inventate (come il programma usato da Martin Stern in “Sindrome” per creare al computer una ricostruzione esplorabile della scena del crimine) che si affiancano a quelle reali, per le quali ho compiuto delle specifiche ricerche (la rilevazione delle impronte con la polvere nero-argento o del sangue col luminol).
 
Ammetto anche che solo metà di tali ricerche derivano dallo studio di tecniche e procedure usate nella realtà, attraverso un corso online che ho seguito (creato dall’Università di Leicester) e ovviamente Google, mentre l’altra metà è figlia del mio background televisivo, cinematografico e letterario.
D’altronde il lettore usa quest’ultimo come termine di confronto e, in fondo, riproporre alcuni aspetti già visti in un libro o in TV non fa altro che rafforzare la sospensione dell’incredulità e, in ultima analisi, aumentare il godimento del romanzo.
Lo scopo è quello di intrattenere e la licenza artistica è e sempre sarà un elemento essenziale nel raggiungimento di questo scopo, anche quando si parla di argomenti più rigorosi, come appunto la scienza.